di Luca Mazzucato

Ci lascia a novantun anni Margherita Hack, matriarca dell'astronomia italiana, punto di riferimento della sinistra italiana e delle battaglie per i diritti civili, senz'altro la più amata tra i cittadini triestini. Con la sua forza instancabile, la schiena dritta e l'inconfondibile accento fiorentino, le sue crociate per la laicità dello Stato e l'accesso ai saperi hanno acceso l'entusiasmo di generazioni dopo generazioni di scienziati, attivisti e compagni in tutto il Paese.

Dopo essere andata in pensione dalla cattedra di Astronomia dell'Università di Trieste, a metà degli anni Novanta, invece di ritirarsi a vita privata, decise di dedicarsi anima e corpo all'attività politica e alla divulgazione scientifica, per lei due facce della stessa medaglia.

Per un caso del destino, fummo vicini di casa per alcuni anni a metà del decennio scorso, durante gli anni in cui conseguivo un dottorato in Fisica a Trieste. Tutte le mattine, mentre io accendevo la vespa per andare a Miramare, puntuale come un orologio, l'ottuagenaria Margherita Hack inforcava la bicicletta e affrontava le colline di Trieste, decana del club di ciclismo triestino. E affrontava la vita come se ogni momento fosse una volata. Fino agli ultimi giorni, “Rallentare il ritmo?” confessava in un'intervista, “Sì che ci avevo pensato. Ma quando sono andata in pensione, la mia attività è diventata frenetica.”

Nel dicembre del 2012, in un'intervista a Il Piccolo, il quotidiano di Trieste, l'astronoma aveva lasciato nero su bianco una sorta di testamento biologico: “La morte non mi fa paura, la perdita dell'autosufficienza sì.” All'indomani della diagnosi di un grave problema cardiaco, decise di non farsi operare: “L'idea mi è venuta di notte, semplicemente. Mi sono resa conto che in ospedale mi mancavano la mia attività, mio marito, i miei animali, privacy compresa. Una vita a metà. Qui a casa vivo. Magari al rallentatore, ma faccio le cose normali. E allora, ho pensato: un’operazione a rischio, un’altra degenza e poi una lunga convalescenza? No: come va, va... Meglio campare poco ma bene che male per anni.”

Fino alla fine, Margherita Hack ha continuato a battersi instancabilmente per l'accesso pubblico ai saperi, per l'educazione scientifica della cittadinanza come pilastro della convivenza civile. Nella sua ultima intervista, rilasciata l'Aprile scorso, si batteva per la riapertura dell'Osservatorio solare “Urania Carsica” di Basovizza, la cui costruzione fu una delle sue prime opere da direttrice dell'Osservatorio di Trieste nel 1964, che, come prima direttrice donna in Italia, elevò a rinomanza internazionale.

Dalle colline sopra Trieste, per quasi cinquant'anni la specola ha sorvegliato l'attività radio della nostra stella e attirato migliaia di curiosi, studenti, astronomi dilettanti con la sua vigorosa missione divulgativa, ma fu chiuso tre anni fa per mancanza di fondi. Dopo aver assunto la carica di direttrice, Margherita Hack trasformò l'Istituto di Astronomia in un Dipartimento di Astronomia. Grazie a lei, la scuola triestina è diventata un polo d'avanguardia internazionale nella ricerca in Astrofisica e Cosmologia. Il ruolo centrale che l'Italia oggi detiene nelle missioni satellitari dell'ESA e della NASA è senz'altro figlio della sua visione, che la comunità astrofisica ha voluto riconoscere battezzando l'asteroide 8558Hack in suo nome.

Ma il suo impegno pubblico non era certo confinato alla scienza e alla responsabilità civile dello scienziato. Margherita Hack rivendicò sempre con coraggio la sua fede comunista, atea e anticapitalista. Le sue lotte per i diritti civili, a favore dell'eutanasia, contro la legge 130 sulla procreazione assistita, la superstizione religiosa e l'ingerenza del Vaticano nella politica italiana si intensificarono ancor di più dopo il suo pensionamento.

Dopo aver compiuto ottant'anni si candidò con i Comunisti Italiani, con la Federazione della Sinistra e altre liste di sinistra. Fu eletta tre volte alle elezioni politiche e regionali, ma rinunciò sempre al suo seggio, per tornare a dedicarsi a tempo pieno all'astronomia e alle sue battaglie politiche sul campo, le due passioni di una vita. “La vita è nostra e dobbiamo essere liberi di scegliere, nel momento in cui diventa un peso insopportabile, se vogliamo davvero continuarla. Essere laici significa lasciare a ciascuno le proprie credenze e rispettarle senza voler imporre le proprie.”

di Sara Michelucci

La vita è un punto di vista e, di conseguenza, la realtà delle cose dipende dallo sguardo di chi la osserva, anche se si decide di scrutarla analiticamente, appuntando su un diario tutti gli avvenimenti che accadono. E da questo concetto che parte Reality, spettacolo teatrale ideato da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini a partire dal reportage del giornalista polacco, Mariusz Szczygiel.

Reality ha chiuso, venerdì scorso, il ciclo di kermesse di teatro contemporaneo al Secci di Terni, all’interno della Stagione di Prosa 2012/2013. I due attori (Deflorian e Tagliarini) mettono in scena la storia di Janina Turek, donna polacca che per oltre cinquant’anni ha annotato minuziosamente i dati della sua vita. Dal bere un caffè nero, alle domeniche passate a casa a guardare la televisione, dalla rottura del telecomando alla descrizione dei pasti.

È un elenco di cose, numeri e azioni che la donna ha voluto mettere nero su bianco per catalogare la realtà, la sua esistenza, quasi a volersi spiare. Ogni cosa, però, appartiene sempre ad un punto di vista che rende la realtà qualcosa di soggettivo. Il reality che va in scena al Secci è lontano da quei programmi televisivi a cui, ormai, siamo fin troppo assuefatti.

È uno spettacolo, quello di Janina, senza pubblico, solitario, dove la quotidianità della propria esistenza la fa da padrona, dove qualsiasi cosa può essere speciale o banale allo stesso tempo.

Una casalinga di Cracovia che dai 20 agli 80 anni ha deciso di mettere la sua vita in un diario, ma senza scrivere le emozioni, ma solo elencando i fatti, applicandosi così a registrare la realtà senza interruzioni.

Una vita dove le domeniche sembrano tutte uguali, dove si sogna anche un noioso pranzo di famiglia, pur di non restare soli. E dove c’è sempre quel nodo alla gola che certe mattine non le permette nemmeno di mandare giù un caffè.

Mariusz Szczygiel scrive nel reportage: «Nella routine quotidiana succede sempre qualcosa. Sbrighiamo un’infinità di piccole incombenze senza aspettarci che lascino traccia nella nostra memoria, e ancor meno in quella degli altri. Le nostre azioni non vengono infatti svolte per restare nel ricordo, ma per necessità.

Col tempo ogni fatica intrapresa in questo nostro quotidiano affaccendarsi viene consegnata all’oblio. Janina Turek aveva scelto come oggetto delle sue osservazioni proprio ciò che è quotidiano, e che pertanto passa inosservato».

di Vincenzo Maddaloni

NAPOLI. L’ultima disgrazia in ordine di tempo caduta su Napoli è l'incendio alla Città della Scienza, il museo interattivo che si trova nel quartiere di Bagnoli. Un “gioiello culturale” ridotto a uno “scheletro sul mare” - ha scritto Roberto Saviano  - del quale dopo che è stata accertata l’origine dolosa del rogo non se ne parla più se non su Il Mattino, il quotidiano della città. Eppure l’ufficialità come sempre l’augurio l’ha formulato. “Napoli ce la farà”, aveva concluso il ministro della Giustizia, Paola Severino dopo aver detto che “questa cenere deve rappresentare un faro su quello che è accaduto e su quello che non deve più accadere”.

Napoli è da anni, se non da decenni, che si sente ripetere queste promesse e ora più di ieri le raccoglie con i toni smorzati e le luci fioche, quasi smarrita dall’incapacità di riuscire a mobilitare le risorse, le idee, le energie, la cultura necessarie per affrontare il degrado ambientale, le incurie, o peggio ancora, a stoppare l’elenco dei morti ammazzati.  L’incendio di Bagnoli diventa “poca cosa” a confronto, perché non c’è più quartiere o rione in cui poter essere sicuri di non finire nella traiettoria di una pallottola, o peggio ancora sotto la lama del coltello di turno.

Ed è vero: “Ultimamente i morti in agguati camorristici, o le semplici vittime dell’aggressività e dei raptus di follia sono aumentati in maniera esponenziale”, confidava una lettrice sul sito di Repubblica. Sicché a Napoli più che altrove la verifica delle capacità delle istituzioni ha un valore simbolico, di annuncio all’intero Paese. Poiché è qui, nella disastrata capitale del Sud, che si gioca la sfida più dura per il ripristino della legalità, della sicurezza, della  convivenza civile. Il suo fallimento coinvolgerebbe tutti. Riusciranno Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio col Movimento 5 Stelle, a voltar pagina? Non credo proprio. Ci vuol poco a capire che qui la sfida  è epocale, il fardello pesante perché a Napoli si  rispecchia intera l’Italia malata.

Non a caso per ritrovare l’Europa dopo una grande assenza Henry Miller rivisitò, dopo Parigi, non Milano e tanto meno Roma, bensì Napoli. Pensava che Parigi e Napoli da sole ne riassumessero l’essenziale. L’autore dei Tropici vedeva in esse pagine vive, complementari e contrastanti di quell’universo che va dall’Atlantico agli Urali. A Napoli scoprì immagini latino-slave e tracce d’Oriente extraeuropee, per dire del modo di vivere diverso da ogni abitudine di un capoluogo che più di qualsiasi altro in Italia ha diritto al nome di metropoli, nel senso di capitale universale e unica che moltiplica nelle sue prospettive l’antico, il mitico, l’esotico come una macchina teatrale.

Siamo di fronte a uno scenario nel quale Dostoevskij - perseguitato dai debiti di gioco e dalle infedeltà di Paolina Suslova - trovò conforto, poiché la dolcezza della terra e il colore delle acque del golfo nelle giornate seminuvolose e ventose gli ricordavano San Pietroburgo. Dopotutto, si può rifare a San Pietroburgo, l’ex Leningrado, la passeggiata di Raskolnikov che si recava a uccidere l’usuraia verso Piazza del Fieno, avendo la sensazione che da lì parte una lunga strada che attraversando le Russie  raggiunge l’Italia e si arresta a Napoli.

Infatti, in questo poema del nichilismo Dostoevskij descrive una società in rovina, dove i legami si sciolgono, si spappolano, si disintegrano, e ognuno diventa soltanto “un’anima”, cioè un fantasma che “si agita, si sdoppia, si batte con se stesso, ferisce, e invita a farsi ferire”. Ma che c’entra tutto questo con Napoli?

C’entra perché è una città frammentaria dove ciascuno vive del suo. La borghesia dentro le sue nostalgie, i suoi privilegi. Gli intellettuali nello sforzo di salvare il loro decoro, la loro intelligenza. Il popolo che ha smesso di sperare da quando è venuto meno il voto di scambio. La divisione è economica; è urbanistica; è antropologica; è politica; è culturale.

Ci sono tre realtà che non hanno voglia di stare insieme e di esigere qualcosa di comune perché ciascuno vuole vivere dentro la propria rassegnazione, il proprio arrangiamento. Cosicché il “nuovo” a Napoli riprende quasi sempre i suoni antichi, in sintonia con un’abitudine italiana, soltanto che qui i toni sono più forti spesso assordanti.

Per decenni Napoli è stata governata da una borghesia lazzarona che ha gestito tutte le immense risorse che lo Stato erogava, le ha intercettate e ne ha fatto un uso distorto come è emerso dalle indagini dei magistrati. Adesso i politici possono pure cambiare, ma le famiglie che si sono arricchite - per esempio i costruttori - con i miliardi del terremoto, sono rimaste a piede libero; hanno i soldi e sono tornate di nuovo governare.

Il gioco è perverso. Succede a Napoli e meno a Milano perché vi si è conservata una mentalità e una struttura feudale difesa strenuamente da uomini potentissimi. Sicché rimane valido l’avvertimento di Romano Prodi quando sosteneva che «la criminalità deriva dall’inquinamento della vita economica, del mondo degli affari, dalla violazione continua della legge».

Non per nulla Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, sostiene che la borghesia nel Meridione ha sempre dimostrato uno scarsissimo senso morale. Anzi, «non ha nessun senso morale», scriveva Croce ritenendola la responsabile di «sei secoli di anarchia e di miseria».

Naturalmente, anche adesso è ben difficile prevedere un mutamento dì tendenza perché le mobilitazioni dei sindacati, gli appelli del governo, non sono recepiti come un’idea-forza a cui riferire propositi e comportamenti; perché gli intellettuali con i loro silenzi hanno pur sempre aiutato la borghesia a saccheggiare le casse dello Stato; perché la borghesia “non si è mai mossa di un filo di capello”, nemmeno quando alcuni intellettuali coraggiosi, rompendo il silenzio ne hanno denunciato i soprusi e le malversazioni.

Sono attitudini che a Napoli hanno origini lontane. Avveniva anche ai tempi di Silvio Spaventa (anno 1876) che così spiegava: «Quando in un paese trovansi riuniti in mano di pochi cittadini mezzi così ragguardevoli di forza e di potenza, senza alcun controllo da parte dello Stato, i timori che questo nuovo feudalesimo fa nascere sono più che giustificati», perché, «è probabile che possedendo essi monopoli giganteschi, influenze formidabili, audacia senza limiti, vogliano, calpestando le leggi, giovarsi del loro potere per i loro interessi personali».

E dunque la disfatta pubblica, il disastro sociale, lo stravolgimento della città non sono stati ancora sufficienti a spingere i napoletani - meglio sarebbe dire la borghesia, gli intellettuali - a cambiar registro.

Sicché ogni cosa che vediamo di Napoli, e in genere del Sud è come una pelle ferita e mai rigenerata. Ecco perché qui, più che altrove, molto è passato per la sconfitta per la delusione e per la resa. E ora si esteso al resto dell’Italia.

Lo stesso criterio dell’assistenzialismo parla da sé: non si cura una società elargendo sussidi quasi sempre interessati, cioè strumentali e ricattatori.

Così molto è fallito. Raccontare e penetrare nei fallimenti di Napoli è impresa senza fondo. Le grandi reti infrastrutturali, il disinquinamento del golfo, lo sviluppo dell’area metropolitana, il centro Direzionale, ogni pretesto è stato inventato per succhiare il denaro allo Stato. Naturalmente, ora l’intellighentja partenopea s’interroga e si strugge.

I pomeriggi meridionali sono lunghi, vuoti d’impegni, e la presenza del testimone esterno venuto a constatare la misura dell’abbandono produce un effetto eccitante, dà la stura alle diagnosi, alle prognosi ai lamenti. Ne è un esempio recente  la Città della Scienza che prima di essere distrutta dal fuoco di  «nemici ne ha avuti, fin dal primo giorno di apertura. Nemici politici, nemici imprenditoriali, nemici pronti a mettere il bastone tra le ruote alla giovane struttura ancora in sviluppo», come ha scritto Alessandro Iacuelli . http://www.altrenotizie.org/cultura/5366-citta-della-scienza-via-coroglio-104.html

Grillo con tutti i grillini e il suo guru può continuare a promettere, a rassicurare,  ma poi “che  farà”? La gente esterna qualche giudizio equilibrato, qualche catastrofismo, molto pessimismo, molta malinconia, molti scenari cupi, alimentati da quel senso di rabbia che tutti sembrano portarsi addosso e che sarebbe piaciuto a Miller, figlio di Brooklyn e amante, come s’è detto all’inizio, delle sensazioni forti e contrastanti.

Infatti, se da una parte Napoli alloggia i più prestigiosi istituti di cultura e di ricerca d’Italia, dall’altra parte c’è Il 10 per cento dei 15.383 studenti napoletani che abbandona definitivamente gli studi. E altrettanto alto è il tasso di bocciati che riguarda almeno uno studente su cinque, ovvero il 22,6 per cento del totale.

I “desaparecidos” della scuola pubblica napoletana sono ragazzini delle medie, e soprattutto dei primi due anni della scuola secondaria di secondo grado, che nel bel mezzo dell’anno scolastico decidono che la loro carriera scolastica può considerarsi conclusa. Picchi di abbandono scolastico si registrano soprattutto nei quartieri della periferia est e nord: Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, Miano, Secondigliano, San Pietro a Patierno, Piscinola, Marianella, Chiaiano e Scampia, sicché si capisce perché  molti di questi ragazzi diventano facile manovalanza del crimine, qui portato a forma d’impresa.

Dunque neppure Dostoevskij si sarebbe stupito della Napoli di oggi; ancora una volta gli avrebbe ricordato la sua Pietroburgo: il palcoscenico dì tutti i demoni, di tutti i derelitti, di tutti i Raskolnikov che avevano costituito il suo mondo. L’accostamento può sembrare forzato, impietoso. Ma basta ascoltare le voci degli uomini che vivono da vent’anni dentro la città, e la conoscono nelle rughe, nei cunicoli, nei labirinti, le voci dei volontari delle Ong che operano nella città. Spiegano che nel carcere di Poggioreale la maggior parte dei reclusi ha un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, una media che s’è notevolmente abbassata negli ultimi anni a testimonianza del degrado civile della metropoli.

Aggiungono anche particolari strazianti: ogni sera i dormitori pubblici accolgono decine e decine di giovani che spesso hanno un diploma, persino una laurea. «Giovani che», spiegano i volontari delle Ong, «non vogliono far ritorno a casa, nel proprio quartiere perché si vergognano di non avere un posto di lavoro». Ma non pensateli come una turba di sfaccendati, di malavitosi. C’è una generosità, uno spirito di abnegazione in questi giovani che non mancano di stupire. I centri di volontariato sono di una vivacità straordinaria.

Soltanto dove mancano le istituzioni c’è tutto che si sfalda, poiché si corrompe la moralità collettiva, si pregiudica la fiducia nello Stato. La criminalità si alimenta di questo degrado.

Conclusioni di questo tipo, sullo sfondo di cinque decenni di malgoverno partenopeo, suscitano nella gente, anche la più umile, un’ira furibonda che subito però si placa e si traduce in un atteggiamento di indifferenza e di rifiuto per qualsiasi cosa che sa di politica, M5S incluso.

Ed è questo che sgomenta, perché la disaffezione per tutto ciò che sa di politica ha in questa città le sue radici che con gli anni si sono estese al resto d’Italia. Sono, come detto, radici profonde. Grillo, che è sopraffatto dalle proprie idee, dall'urlo della polemica, non rappresenta una soluzione ai mali. E’ come nelle cartoline il pennacchio  di fumo sulla punta del Vesuvio che rammentando un pericolo  (no al governo dei partiti)  fa soltanto folclore. La crisi è molto di più.

Beninteso, governare il Paese da sempre è stato un problema. Adesso più che mai perché il mondo nel frattempo è cambiato, e attestarsi sullo status quo delle cronache logore delle schermaglie politiche romane, del sottobosco partitico, del gergo interno dei palazzi, è una follia che servirebbe soltanto a moltiplicare i consensi al M5S di Grillo.

Quasi una iattura, perché non è  in queste condizioni di fretta, di ansia, di assedio, che si affronta il fardello di problemi che affliggono gli italiani. Come ad esempio il futuro dei giovani, che rischiano di non avere la pensione al termine di una vita di lavoro (o meglio “di lavori” anche molto diversi) in prevalenza “flessibile” e precaria. Napoli non fa caso a sé, è l’Italia che è così.
www.vincenzomaddaloni.it





di Sara Michelucci

L’emigrazione vista attraverso gli occhi e le parole di un bambino di 9 anni, Nino, clandestino nella Svizzera di fine anni Cinquanta. I suoi genitori sono emigrati da un paesino della Puglia per lavorare e lo hanno portato con loro, anche se non potevano. Infatti ai cosiddetti “lavoratori stagionali”, era vietato portare in territorio svizzero i loro famigliari, ma come si fa a stare lontano dai propri figli? È quello che si chiede e ci chiede Mario Perrotta, con lo spettacolo teatrale, La Turnàta, ‘secondo atto’ dopo quello di un anno fa, Italiani Cìncali, al teatro Secci di Terni.

Se nel primo raccontava gli emigranti italiani nelle miniere del Belgio, in questo secondo appuntamento Perrotta si concentra sulla Svizzera e sulla mancanza quasi totale di diritti civili per gli italiani che vi andavano a lavorare. “Se sei emigrante la prima cosa che ti devi imparare è che nna enùta è solo nna enùta, mentre la turnàta è per sempre”, spiega Perrotta prima di iniziare lo spettacolo.

“Due termini - continua - per indicare la stessa cosa: il ritorno. Ma la differenza è fondamentale. Me l’hanno spiegata con parole semplici, ma inequivocabili. Nna enùta (una venuta) è nna fesseria, il tempo di guardarsi attorno veloci, senza mettere a fuoco i luoghi e le facce, per ripartire subito e dimenticare…La turnàta, invece, è altra cosa...vuol dire che hai raggiunto l’obiettivo, ti sei sistemato, puoi mettere a fuoco, ricordare le facce e i luoghi perché ora stai per tornarci, definitivamente.  Ancora una volta loro parlano e io ascolto, registro cassette su cassette, raccolgo materiali, lettere, annoto sensazioni. Ma, soprattutto, cerco di tenere a mente gli sguardi, sono quelli che mi raccontano più di ogni parola, sono gli sguardi ciò che dovrò portare con me quando racconterò la loro storia. E ognuno ha il suo di sguardo, frutto di vicende personali e familiari, frutto delle diverse esperienze lavorative, del livello di integrazione raggiunto all’estero. Anche il luogo scelto per emigrare sembra avere un peso: c’è un sguardo da Belgio, uno da Germania, uno da Svizzera, ma, soprattutto, c’è uno sguardo da enùta e uno da turnàta. Chi è rimasto e chi è tornato. Due categorie distinte e di facile comprensione”.

L’avventura di Nino e dei suoi parenti inizia quando il nonno, che da anni lavora in Svizzera, muore. I genitori del bambino, allora, decidono di riportarlo in Salento. E così inizia il loro viaggio.

Un tragitto fatto di paura e speranza di non essere scoperti. Ma anche di eccitazione, perché finalmente si può rivedere la propria terra natia, i colori della Puglia e gli odori di una terra tanto bella, ma con mille difficoltà. Fatto di canzoni popolari che ricordano il Bel Paese e di racconti che segnano un’epoca e un periodo, dove l’infrangersi del sogno comunista, e quindi di un’uguaglianza di classe, la fa da sottofondo.

E così, con una Giulia 1300, la famiglia accompagnata dall’amico Tano, sindacalista che in Svizzera si è sempre battuto per i diritti dei lavoratori, parte per l’Italia. C’è la frontiera da superare, così Nino, che viaggia da clandestino, è costretto a nascondersi nel portabagagli, vincendo la paura del buio e dell’asfissia. Poi si arrivare sino a Bologna dove finisce l’autostrada e finalmente in Salento dove, a finire, è invece l’asfalto.

Arrivare a casa, finalmente, per mostrare ai ‘compagni’ che tutto è andato per il meglio e che ti sei sistemato. Anche se non è così, perché in realtà non ci si è affatto sistemati, ma si è solo stati sfruttati. Ma per i genitori di Nino, come per lui, tornare significa riconquistare una libertà perduta negli anni lontano dal proprio paese.


di Emanuela Pessina

BERLINO. “Con Berlino ho un rapporto straordinario: ogni volta che ci torno, anziché aver l’esigenza di allontanarmi, ne vengo catturato”. Così si presenta Max Gazzè al primo appuntamento della sua tournée europea, che, partendo dalla Kulturbrauerei della capitale tedesca, ha toccato tutte le capitali del Vecchio continente per continuare poi in Italia. Gazzè presenta Sotto casa, attualmente uno degli album più scaricati da iTunes e uno tra i più ascoltati su Spotify: un innegabile, grande successo che arriva dopo tre anni di silenzio. E che la prima tappa di questa serie di concerti sia stata proprio Berlino, chi lo sa, potrebbe essere un’interessante coincidenza.

Oltre ad aver conquistato il pubblico, il nuovo album di Gazzè ha incontrato anche il favore della critica, che ci ha visto un gran bel ritorno al passato. “È stata una scelta consapevole”, ammette Gazzè. Il singolo Sotto casa ricorda come sonorità Una musica può fare [singolo del 1999, n.d.r], ma si tratta più che altro di una somiglianza di approccio compositivo, spiega il musicista. Perché a contraddistinguere Sotto casa è la sperimentazione, la voglia di adattare la musica alla poesia dei testi, così come l’ironia dei significati: “Sotto casa è come un quadro che ha un bell’equilibrio, tanti colori per una perfetta alchimia di fondo”. Ed è forse in quest’alchimia d’insieme che i critici rivedono un ritorno al passato.

Soddisfatto del suo lavoro e del successo, Gazzè rimane sempre e comunque con i piedi per terra. Reduce dall’edizione 2013 di Sanremo, il musicista cerca di spiegarci la sua filosofia di fare musica. “Sono un musicista e conosco le dinamiche dello sport della musica, fatto di ascese e discese, perché quando finisce l’onda, allora si torna a nuotare”. Ed è per questo che Max porta avanti diversi “percorsi paralleli”: suona con orchestre sinfoniche, collabora con musicisti jazz, partecipa a tournée europee in veste di bassista, pronto ad affrontare poi l’apparizione al grande pubblico in occasione di nuovi lavori. Per Max, il Festival della musica italiana non è che uno dei tanti modi di “comunicare il suo nuovo lavoro”, così come il tour che lo segue. Non ha vinto Sanremo, ma il suo disco è tra i primi tre album italiani più venduti al momento: la realtà delle cose sembra appoggiare questa sua filosofia di apparizioni e sparizioni.

Non poteva mancare una domanda irriverente e curiosa sul pezzo E tu vai via, un testo bellissimo, maturo e malinconico, in cui Max racconta una separazione importante. Venti anni con una persona e tre figli, poi questa persona va via: un’esperienza di famiglia che è sicuramente un successo, ammette Gazzè, ma con la separazione arriva l’amarezza. “E tu vai via contiene una lieve sofferenza, ma è una sofferenza elaborata, che svanisce nell’accettazione”, spiega il musicista, intendendo l’accettazione del cambiamento. “La libertà è non resistere ai cambiamenti perché questi sono sinonimo di vita”. E lasciare fluire i cambiamenti anziché contrastarli, chiarisce il musicista, evita di soffrire.

Anche per quel che riguarda la recente scelta politica degli italiani, Max Gazzè si dice ottimista. “Grillo è una novità felice, c’è incertezza, ma è meglio questa incertezza di un altro Governo Berlusconi”. Per quel che riguarda le parole antieuropee di Grillo, uno dei dettagli della campagna elettorale che più hanno spaventato l’Europa, Gazzè non ha timori: “Anche con il Movimento 5 Stelle non possiamo prescindere dall’Europa. Ci sono delle normative europee da rispettare per chiunque, solo sono differenti le strade da prendere per arrivarci”. E Grillo, Gazzè ne è sicuro, saprà gestire tutto: è una “novità che saprà allinearsi all’Europa senza perdere la sovranità”. Monti? “Monti andrebbe bene a rappresentare l’Italia come ministro degli Esteri, viene da un percorso europeo, più in particolare dagli organismi di controllo della comunità, tra cui la Commissione trilaterale, e durante il suo Governo ha garantito il controllo della situazione Italia dall’Europa.”

Anche Gazzè, in realtà, viene da un suo percorso personale tutto europeo: ha studiato a una Scuola europea, dove i meccanismi della Comunità europea stessa sono materia di studio quotidiano, ha vissuto dieci anni a Bruxelles, tre anni a Parigi e tre a Londra, oltre ad aver partecipato a diversi importanti progetti musicali con cantanti del calibro di Stephan Eicher e Herbert Groenemeyer, con cui ha scritto anche un brano. Ed è proprio dall’Europa che Gazzè comincia il suo tour, più in particolare da Berlino, dove il cantante non ha mai vissuto, ma con cui ha un rapporto straordinario. Rispetto alle altre città, rivela Gazzè con aria intrigata, “l’atmosfera che dà Berlino è qualcosa di meno interpretabile, legata a una percezione che ho della città.

Il pensiero suggerito di Berlino non è sufficiente a cambiare la mia percezione di Berlino stessa e vorrei tornare per restarci qualche mese e comporre musica”. La tournée che accompagna il grande successo di Sotto casa è cominciata proprio qui, nella capitale tedesca: se tra qualche tempo vedremo Max Gazzè girare per le strade di Kreuzberg e Mitte, allora, in quel caso, potremo dire che non si è trattata di una semplice coincidenza.




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