di Vincenzo Maddaloni

NAPOLI. L’ultima disgrazia in ordine di tempo caduta su Napoli è l'incendio alla Città della Scienza, il museo interattivo che si trova nel quartiere di Bagnoli. Un “gioiello culturale” ridotto a uno “scheletro sul mare” - ha scritto Roberto Saviano  - del quale dopo che è stata accertata l’origine dolosa del rogo non se ne parla più se non su Il Mattino, il quotidiano della città. Eppure l’ufficialità come sempre l’augurio l’ha formulato. “Napoli ce la farà”, aveva concluso il ministro della Giustizia, Paola Severino dopo aver detto che “questa cenere deve rappresentare un faro su quello che è accaduto e su quello che non deve più accadere”.

Napoli è da anni, se non da decenni, che si sente ripetere queste promesse e ora più di ieri le raccoglie con i toni smorzati e le luci fioche, quasi smarrita dall’incapacità di riuscire a mobilitare le risorse, le idee, le energie, la cultura necessarie per affrontare il degrado ambientale, le incurie, o peggio ancora, a stoppare l’elenco dei morti ammazzati.  L’incendio di Bagnoli diventa “poca cosa” a confronto, perché non c’è più quartiere o rione in cui poter essere sicuri di non finire nella traiettoria di una pallottola, o peggio ancora sotto la lama del coltello di turno.

Ed è vero: “Ultimamente i morti in agguati camorristici, o le semplici vittime dell’aggressività e dei raptus di follia sono aumentati in maniera esponenziale”, confidava una lettrice sul sito di Repubblica. Sicché a Napoli più che altrove la verifica delle capacità delle istituzioni ha un valore simbolico, di annuncio all’intero Paese. Poiché è qui, nella disastrata capitale del Sud, che si gioca la sfida più dura per il ripristino della legalità, della sicurezza, della  convivenza civile. Il suo fallimento coinvolgerebbe tutti. Riusciranno Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio col Movimento 5 Stelle, a voltar pagina? Non credo proprio. Ci vuol poco a capire che qui la sfida  è epocale, il fardello pesante perché a Napoli si  rispecchia intera l’Italia malata.

Non a caso per ritrovare l’Europa dopo una grande assenza Henry Miller rivisitò, dopo Parigi, non Milano e tanto meno Roma, bensì Napoli. Pensava che Parigi e Napoli da sole ne riassumessero l’essenziale. L’autore dei Tropici vedeva in esse pagine vive, complementari e contrastanti di quell’universo che va dall’Atlantico agli Urali. A Napoli scoprì immagini latino-slave e tracce d’Oriente extraeuropee, per dire del modo di vivere diverso da ogni abitudine di un capoluogo che più di qualsiasi altro in Italia ha diritto al nome di metropoli, nel senso di capitale universale e unica che moltiplica nelle sue prospettive l’antico, il mitico, l’esotico come una macchina teatrale.

Siamo di fronte a uno scenario nel quale Dostoevskij - perseguitato dai debiti di gioco e dalle infedeltà di Paolina Suslova - trovò conforto, poiché la dolcezza della terra e il colore delle acque del golfo nelle giornate seminuvolose e ventose gli ricordavano San Pietroburgo. Dopotutto, si può rifare a San Pietroburgo, l’ex Leningrado, la passeggiata di Raskolnikov che si recava a uccidere l’usuraia verso Piazza del Fieno, avendo la sensazione che da lì parte una lunga strada che attraversando le Russie  raggiunge l’Italia e si arresta a Napoli.

Infatti, in questo poema del nichilismo Dostoevskij descrive una società in rovina, dove i legami si sciolgono, si spappolano, si disintegrano, e ognuno diventa soltanto “un’anima”, cioè un fantasma che “si agita, si sdoppia, si batte con se stesso, ferisce, e invita a farsi ferire”. Ma che c’entra tutto questo con Napoli?

C’entra perché è una città frammentaria dove ciascuno vive del suo. La borghesia dentro le sue nostalgie, i suoi privilegi. Gli intellettuali nello sforzo di salvare il loro decoro, la loro intelligenza. Il popolo che ha smesso di sperare da quando è venuto meno il voto di scambio. La divisione è economica; è urbanistica; è antropologica; è politica; è culturale.

Ci sono tre realtà che non hanno voglia di stare insieme e di esigere qualcosa di comune perché ciascuno vuole vivere dentro la propria rassegnazione, il proprio arrangiamento. Cosicché il “nuovo” a Napoli riprende quasi sempre i suoni antichi, in sintonia con un’abitudine italiana, soltanto che qui i toni sono più forti spesso assordanti.

Per decenni Napoli è stata governata da una borghesia lazzarona che ha gestito tutte le immense risorse che lo Stato erogava, le ha intercettate e ne ha fatto un uso distorto come è emerso dalle indagini dei magistrati. Adesso i politici possono pure cambiare, ma le famiglie che si sono arricchite - per esempio i costruttori - con i miliardi del terremoto, sono rimaste a piede libero; hanno i soldi e sono tornate di nuovo governare.

Il gioco è perverso. Succede a Napoli e meno a Milano perché vi si è conservata una mentalità e una struttura feudale difesa strenuamente da uomini potentissimi. Sicché rimane valido l’avvertimento di Romano Prodi quando sosteneva che «la criminalità deriva dall’inquinamento della vita economica, del mondo degli affari, dalla violazione continua della legge».

Non per nulla Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, sostiene che la borghesia nel Meridione ha sempre dimostrato uno scarsissimo senso morale. Anzi, «non ha nessun senso morale», scriveva Croce ritenendola la responsabile di «sei secoli di anarchia e di miseria».

Naturalmente, anche adesso è ben difficile prevedere un mutamento dì tendenza perché le mobilitazioni dei sindacati, gli appelli del governo, non sono recepiti come un’idea-forza a cui riferire propositi e comportamenti; perché gli intellettuali con i loro silenzi hanno pur sempre aiutato la borghesia a saccheggiare le casse dello Stato; perché la borghesia “non si è mai mossa di un filo di capello”, nemmeno quando alcuni intellettuali coraggiosi, rompendo il silenzio ne hanno denunciato i soprusi e le malversazioni.

Sono attitudini che a Napoli hanno origini lontane. Avveniva anche ai tempi di Silvio Spaventa (anno 1876) che così spiegava: «Quando in un paese trovansi riuniti in mano di pochi cittadini mezzi così ragguardevoli di forza e di potenza, senza alcun controllo da parte dello Stato, i timori che questo nuovo feudalesimo fa nascere sono più che giustificati», perché, «è probabile che possedendo essi monopoli giganteschi, influenze formidabili, audacia senza limiti, vogliano, calpestando le leggi, giovarsi del loro potere per i loro interessi personali».

E dunque la disfatta pubblica, il disastro sociale, lo stravolgimento della città non sono stati ancora sufficienti a spingere i napoletani - meglio sarebbe dire la borghesia, gli intellettuali - a cambiar registro.

Sicché ogni cosa che vediamo di Napoli, e in genere del Sud è come una pelle ferita e mai rigenerata. Ecco perché qui, più che altrove, molto è passato per la sconfitta per la delusione e per la resa. E ora si esteso al resto dell’Italia.

Lo stesso criterio dell’assistenzialismo parla da sé: non si cura una società elargendo sussidi quasi sempre interessati, cioè strumentali e ricattatori.

Così molto è fallito. Raccontare e penetrare nei fallimenti di Napoli è impresa senza fondo. Le grandi reti infrastrutturali, il disinquinamento del golfo, lo sviluppo dell’area metropolitana, il centro Direzionale, ogni pretesto è stato inventato per succhiare il denaro allo Stato. Naturalmente, ora l’intellighentja partenopea s’interroga e si strugge.

I pomeriggi meridionali sono lunghi, vuoti d’impegni, e la presenza del testimone esterno venuto a constatare la misura dell’abbandono produce un effetto eccitante, dà la stura alle diagnosi, alle prognosi ai lamenti. Ne è un esempio recente  la Città della Scienza che prima di essere distrutta dal fuoco di  «nemici ne ha avuti, fin dal primo giorno di apertura. Nemici politici, nemici imprenditoriali, nemici pronti a mettere il bastone tra le ruote alla giovane struttura ancora in sviluppo», come ha scritto Alessandro Iacuelli . http://www.altrenotizie.org/cultura/5366-citta-della-scienza-via-coroglio-104.html

Grillo con tutti i grillini e il suo guru può continuare a promettere, a rassicurare,  ma poi “che  farà”? La gente esterna qualche giudizio equilibrato, qualche catastrofismo, molto pessimismo, molta malinconia, molti scenari cupi, alimentati da quel senso di rabbia che tutti sembrano portarsi addosso e che sarebbe piaciuto a Miller, figlio di Brooklyn e amante, come s’è detto all’inizio, delle sensazioni forti e contrastanti.

Infatti, se da una parte Napoli alloggia i più prestigiosi istituti di cultura e di ricerca d’Italia, dall’altra parte c’è Il 10 per cento dei 15.383 studenti napoletani che abbandona definitivamente gli studi. E altrettanto alto è il tasso di bocciati che riguarda almeno uno studente su cinque, ovvero il 22,6 per cento del totale.

I “desaparecidos” della scuola pubblica napoletana sono ragazzini delle medie, e soprattutto dei primi due anni della scuola secondaria di secondo grado, che nel bel mezzo dell’anno scolastico decidono che la loro carriera scolastica può considerarsi conclusa. Picchi di abbandono scolastico si registrano soprattutto nei quartieri della periferia est e nord: Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, Miano, Secondigliano, San Pietro a Patierno, Piscinola, Marianella, Chiaiano e Scampia, sicché si capisce perché  molti di questi ragazzi diventano facile manovalanza del crimine, qui portato a forma d’impresa.

Dunque neppure Dostoevskij si sarebbe stupito della Napoli di oggi; ancora una volta gli avrebbe ricordato la sua Pietroburgo: il palcoscenico dì tutti i demoni, di tutti i derelitti, di tutti i Raskolnikov che avevano costituito il suo mondo. L’accostamento può sembrare forzato, impietoso. Ma basta ascoltare le voci degli uomini che vivono da vent’anni dentro la città, e la conoscono nelle rughe, nei cunicoli, nei labirinti, le voci dei volontari delle Ong che operano nella città. Spiegano che nel carcere di Poggioreale la maggior parte dei reclusi ha un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, una media che s’è notevolmente abbassata negli ultimi anni a testimonianza del degrado civile della metropoli.

Aggiungono anche particolari strazianti: ogni sera i dormitori pubblici accolgono decine e decine di giovani che spesso hanno un diploma, persino una laurea. «Giovani che», spiegano i volontari delle Ong, «non vogliono far ritorno a casa, nel proprio quartiere perché si vergognano di non avere un posto di lavoro». Ma non pensateli come una turba di sfaccendati, di malavitosi. C’è una generosità, uno spirito di abnegazione in questi giovani che non mancano di stupire. I centri di volontariato sono di una vivacità straordinaria.

Soltanto dove mancano le istituzioni c’è tutto che si sfalda, poiché si corrompe la moralità collettiva, si pregiudica la fiducia nello Stato. La criminalità si alimenta di questo degrado.

Conclusioni di questo tipo, sullo sfondo di cinque decenni di malgoverno partenopeo, suscitano nella gente, anche la più umile, un’ira furibonda che subito però si placa e si traduce in un atteggiamento di indifferenza e di rifiuto per qualsiasi cosa che sa di politica, M5S incluso.

Ed è questo che sgomenta, perché la disaffezione per tutto ciò che sa di politica ha in questa città le sue radici che con gli anni si sono estese al resto d’Italia. Sono, come detto, radici profonde. Grillo, che è sopraffatto dalle proprie idee, dall'urlo della polemica, non rappresenta una soluzione ai mali. E’ come nelle cartoline il pennacchio  di fumo sulla punta del Vesuvio che rammentando un pericolo  (no al governo dei partiti)  fa soltanto folclore. La crisi è molto di più.

Beninteso, governare il Paese da sempre è stato un problema. Adesso più che mai perché il mondo nel frattempo è cambiato, e attestarsi sullo status quo delle cronache logore delle schermaglie politiche romane, del sottobosco partitico, del gergo interno dei palazzi, è una follia che servirebbe soltanto a moltiplicare i consensi al M5S di Grillo.

Quasi una iattura, perché non è  in queste condizioni di fretta, di ansia, di assedio, che si affronta il fardello di problemi che affliggono gli italiani. Come ad esempio il futuro dei giovani, che rischiano di non avere la pensione al termine di una vita di lavoro (o meglio “di lavori” anche molto diversi) in prevalenza “flessibile” e precaria. Napoli non fa caso a sé, è l’Italia che è così.
www.vincenzomaddaloni.it





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