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di Sara Michelucci
Tiranni e cittadini, anzi sudditi. È su questo rapporto che Ascanio Celestini basa il suo nuovo spettacolo, Discorsi alla Nazione - Studio per spettacolo presidenziale, che ha presentato al Teatro Secci di Terni e che porterà in altri teatri italiani. Aspiranti tiranni si alternano, così, sul palcoscenico, mettendo in luce tutte le atrocità che una forma di potere di questo tipo porta con sé. Le parole di Celestini tuonano su un palcoscenico scarno, senza scenografia se non una sedia messa a lato, e colpiscono dritte lo spettatore.
“Cittadini! Lasciate che vi chiami cittadini anche se tutti sappiamo che siete sudditi, ma io vi chiamerò cittadini per risparmiarvi un’inutile umiliazione”, tuona l’attore. Il tiranno è chiuso nel palazzo. Non ha nessun bisogno di parlare alla massa. I suoi affari sono lontani dai sudditi, la sua vita è un’altra e non ha quasi nulla in comune con il popolo che si accontenta di vedere la sua faccia stampata sulle monete.
Eppure il tiranno si deve mostrare ogni tanto. Deve farsi acclamare soprattutto nei momenti di crisi quando rischia di essere spodestato. Così si affaccia, si sporge dal balcone del palazzo e rischia di diventare un bersaglio. “Ho immaginato - afferma Celestini - alcuni aspiranti tiranni che provano ad affascinare il popolo per strappargli il consenso e la legittimazione. Appaiono al balcone e parlano senza nascondere nulla. Parlano come parlerebbero i nostri tiranni democratici se non avessero bisogno di nascondere il dispotismo sotto il costume di scena dello stato democratico”.
Celestini ritorna ad affrontare il potere, attraverso il suo teatro che ha la funzione di far riflettere, di aprire gli occhi su quello che la società contemporanea e la politica che ci governa sono o possono diventare. Il suo è uno sguardo lucido, schietto, che non risparmia niente e nessuno. Destra e sinistra fanno parte di uno stesso percorso, che si differenzia per alcuni punti, ma che non si discosta poi molto da una linea votata al potere e alla supremazia sui cittadini.
E così anche il considerarsi “di sinistra” può nascondere tutta una serie di luoghi comuni e pregiudizi, che smascherano la vera natura di alcuni politici. La guerra, il razzismo, la logica di un potere becero che non risparmia nessuno, se non chi decide di aprire gli occhi su quello che ci viene proposto e cercare un punto di vista altro, sono i temi fondamentali.
Celestini propone proprio questo attraverso il suo teatro che fa sorridere, ma al tempo stesso stimola le coscienze. Se con La pecora nera, Celestini si mette dietro la macchina da presa per raccontare le vite di coloro che hanno conosciuto l’esperienza nel manicomio, denunciando un determinato sistema sanitario e in Pro Patria è una prigione il luogo dell’azione, in Discorsi alla nazione prende di petto il potere e lo sviscera fino a mostrarne il lato più oscuro. Quel ‘cuore di tenebra’ di conradiana memoria che attraversa sottile le membra della società.
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di Vincenzo Maddaloni
Che i generali del Pentagono abbiano una crisi di nervi quando gli si chiede se Israele li informa sui suoi piani d’attacco terrestri pochi lo sapevano, prima che lo rivelasse Mark Perry in un’inchiesta (Come l'esercito americano pensa che Israele potrebbe colpire l'Iran) pubblicata sulla rivista Foreign Policy. Un articolo dagli effetti deflagranti, considerato che è un momento nel quale più acceso è il dibattito sia negli Stati Uniti come in Israele sull’opportunità di un attacco armato contro l'Iran.
Perché la testimonianza raccolta da Mark Perry è quella di un generale a cinque stelle, il quale ha dichiarato senza mezzi termini che al Pentagono sono costretti a “volare alla cieca” perché Israele «non ci dice quello che pensa di fare e come intende attuarlo, come se fosse un grande segreto da non condividere nemmeno con noi». Infatti, pare che pure il segretario alla Difesa Leon Panetta abbia dovuto desistere dall’impresa per - come usa dire - non perdere la faccia.
Tutto questo è successo dopo che Benjamin Netanyahu, il primo ministro di Israele, aveva tenuto il famoso discorso della “linea rossa” alla 67esima Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York, più o meno un mese fa. In quella occasione, il premier israeliano aveva denunciato le minacce che incombono sul suo Paese soffermandosi su quella nucleare dell’Iran. Per rendere chiara la posizione di Israele sulla questione, Netanyahu aveva mostrato all’aula un cartello su cui era disegnata una bomba, divisa schematicamente in alcuni stadi. Con un pennarello rosso, egli aveva segnato una linea nell’area dello stadio finale di progettazione della bomba, spiegando che Israele non consentirà all’Iran di andare oltre un certo punto nello sviluppo dei suoi armamenti atomici.
Non so dove Benjamin Netanyahu fondi tanta certezza. L’Iran non è l’Egitto sgangherato della guerra dello Yom Kippur (24 ottobre 1973). Sicché, quando il presidente iraniano Amadinejad avverte che un qualsiasi attacco all’Iran sarebbe da considerarsi un attacco “a tutto l’Islam”, la sua minaccia non va affatto sottovalutata. Poiché determinante è il ruolo dell’Iran e soprattutto dell’Islam persiano nella civiltà musulmana.
Unico vero rivale dell'arabo, il persiano e la sua «accademia» sono stati per secoli gli strumenti di un modo diverso di pensare l'Islam, non necessariamente opposto ma il più delle volte complementare a quello più ufficiale dell'arabismo. I tentativi di inquadrare l'eresia musulmana in termini di sciismo contro sunnismo, religiosità popolare contro religione espressione del potere, sopravvivenze mitologiche contro storicizzazione libresca, Islam di second'ordine contro vero Islam, sono tutti immancabilmente fuorvianti, come la Storia degli ultimi lustri sta dimostrando. Anzi, oggi viene il sospetto che gli studiosi occidentali seminando per oltre un secolo queste idee, abbiano fornito l'ossatura ideologica a certi rigorismi dell'Islam contemporaneo, che molte fazioni hanno fatto propri per meglio diffondere la propria visione religiosa povera e iconoclasta.
Dopotutto il fattore che determina l’importanza dell’Iran nel panorama politico mondiale non é soltanto la sua posizione geografica e le risorse energetiche di cui dispone, ma è sopra ogni cosa la sua estensione culturale, nel senso più letterale del termine. Infatti, l’Iran è al centro di quell’area dell’Asia sud-occidentale che è in contatto diretto con l’Eurasia, la Cina, l’India, il Caucaso, la Russia, il Medio Oriente, la penisola arabica.
Oggi, come nel passato, l’Iran è il punto d’incontro tra le grandi civiltà: la civiltà indiana, la civiltà islamica e la civiltà europea. L’Iran, insomma, è soprattutto la culla millenaria della civiltà indo-iranica, dove la civiltà iranico-islamica (a partire del VII secolo) e la civiltà iranico-europea (a partire del XVII secolo) si incontrano. Stando così le cose, essere presenti sul territorio iraniano significa avere la possibilità operativa di controllare e dominare uno scacchiere che va dal Pacifico al Mediterraneo, comprese le aree limitrofe.
Infatti in tutte queste aree, l’Iran storicamente ha una presenza e un’influenza culturale radicata. Oggi più di ieri, questa presenza è legata alla natura dell’attuale potere in Iran, poiché esso è gestito dagli ayatollah, che rappresentano le varie anime del clero sciita. In Pakistan, un quarto della popolazione è di fede sciita, così come sono sciite le minoranze consistenti dei musulmani nel resto del subcontinente indiano. Nell’Asia centrale - Uzbekistan e Tagikistan - forte è la componente islamica, ma lo è anche quella iranica. Nel Caucaso meridionale, la maggioranza della popolazione è di fede sciita in Azerbaijan, per esempio.
In Iraq (la culla storica dello sciismo, con i seminari di Najaf e Kerbala, dove risiede la leadership religiosa) gli sciiti, in sintonia con quelli dell’Iran e dell’area siro-libanese, sono la maggioranza della popolazione e risiedono nelle zone petrolifere del Sud del Paese. Pure negli sceiccati petroliferi del Golfo Persico sono forti e attive le comunità sciite. Nel Bahrein esse rappresentano l’80 per cento della popolazione e anche il petrolio saudita viene estratto in buona parte dalle regioni orientali dove è numerosa la presenza sciita. E così pure in Siria, nello Yemen e nel Kashmir, e fino al Mediterraneo, dove gli sciiti del sud del Libano hanno stretti legami ideologici e familiari con la Repubblica islamica di Teheran. Naturalmente, anche l’Islam combattente s’ispira alle varie anime che formano il potere degli ayatollah (Jihad islamica, Hezbollah nel Libano, sciiti iracheni, sauditi e yemeniti del Bahrein).
Zbigniew Brzezinski, (ex consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense durante l’amministrazione democratica Carter), pensava all’area petrolifera del Medio Oriente che gravita materialmente, storicamente e culturalmente intorno all’Iran quando spiegò, sulle pagine di The National Interest, che «il controllo del Medio Oriente da parte degli Stati Uniti conferisce loro un potere indiretto, ma politicamente decisivo, sulle economie europee e asiatiche, che dipendono anch’esse dalle esportazioni energetiche provenienti dalla regione».
Pertanto avere l’Iran come alleato o sotto il proprio controllo, significa poter gestire le risorse energetiche racchiuse tra il Golfo Persico e il Mar Caspio; il che vuol dire governare l’intera economia mondiale, poiché Europa, Giappone, Cina e India, tutti dipendono da quest’area geografica. Così meglio si capisce perché gli Stati Uniti avrebbero accettato per la prima volta la proposta iraniana di negoziati diretti sul controverso programma nucleare di Teheran. Lo ha riferito qualche giorno fa il New York Times citando fonti dell'amministrazione Obama, e aggiungendo che gli iraniani hanno posto come condizione di attendere le elezioni del 6 novembre negli Usa per sapere se dovranno trattare con Barack Obama o con Mitt Romney.
Una settimana prima - quale straordinaria coincidenza - era stato l’ex segretario di Stato americano e premio Nobel per la Pace Henry Kissinger ad affrontare la questione in una intervista al Washington Post. Secondo l’ex segretario dovrebbero essere soltanto dagli Stati Uniti a gestire la crisi con l’Iran poiché se non lo fanno, “darebbero a Israele una delega con la quale si sentirebbe autorizzato ad attaccare”. E dunque, «gli Stati Uniti non possono subappaltare una decisione così importante a Israele», aveva ripetuto come un mantra l’ex segretario di Stato americano. L’America insomma ci riprova.
Malgrado il sottofondo di smentite da entrambe le parti, secondo il New York Times il desiderio di negoziare è condiviso. Negli Stati Uniti molto vi ha influito l’impantanarsi della macchina bellica statunitense, poiché i forti legami degli ayatollah di Teheran con gli ayatollah di Najaf e con gli sciiti dell’Iraq (cioè con il 65 per cento della popolazione irachena) insieme ai tradizionali rapporti etnico-culturali tra i curdi iracheni e le popolazioni dell’Iran, lo stallo in Siria e, infine, la déblâche in Afghanistan hanno attenuato gli ardori imperiali degli Usa basati sulla forza.
Tuttavia non li hanno spenti anche perché per i potentati economici, la riconquista dell’Iran significherebbe prima di ogni altra cosa: controllare quasi completamente tutte le aree circostanti e, come abbiamo già detto, le risorse energetiche racchiuse tra il Golfo Persico e il Mar Caspio; mettere l’Europa e il Giappone, la Cina e l’India - gli attuali e futuri maggiori importatori e consumatori di idrocarburi - in una condizione di dipendenza dal nuovo assetto impostato da Washington.
Poi gli consentirebbe di tenere sempre sotto osservazione Russia, Cina, India e di esercitare un’influenza diretta sull’Asia centrale ex sovietica, sul mondo arabo e sul subcontinente indiano. Infine, l’Amministrazione a qualsiasi colore appartenga, potrebbe imporre con il supporto della potente comunità iraniana d’America la reintroduzione del modello monarchico e divulgare l’American lifestyle in un Paese che, per la sua millenaria peculiarità culturale, ha attratto popoli e civiltà in uno spazio che va dal Kashmir (la famiglia di Khomeni era originaria di quelle terre) al Mediterraneo (in particolare il Libano).
Se questo è nell’immaginario americano - l’ultimo confronto televisivo tra Obama e Rommey lo conferma - meglio si capisce la benevola rassicurante tolleranza del Pentagono nei confronti di Israele: «Diamo uno sguardo ai loro [israeliani] mezzi e alle loro capacità di fuoco, ci mettiamo nei loro panni e ci chiediamo come ci comporteremmo se avessimo quello che loro hanno. Così, mentre stiamo fantasticando ci facciamo un’idea di quello che possono e non possono fare», confidava il generale a cinque stelle al redattore del Foreign Policy.
Beninteso non sono queste chiacchiere da salotto. E’ da un anno e più che il Centcom, il quale sovrintende le attività militari degli Stati Uniti in Medio Oriente, ha il compito di studiare il possibile attacco israeliano all’Iran. I suoi funzionari si sono incontrati più volte nella sede Centcom di Tampa, in Florida, con gli ufficiali della Quinta Flotta della Marina a Doha, in Qatar, per confrontarsi sulle rispettive conclusioni.
Quel che si è riusciti a sapere è che la “linea rossa” di Benjamin Netanyahu non li ha turbati più di tanto. Poiché, «questa è una questione politica, non è una questione di guerra. Pertanto non è nella nostra corsia. Stiamo soltanto preparandoci perché un attacco israeliano potrebbe arrivare in qualsiasi momento», ha spiegato l’ammiraglio in pensione Bobby Ray Inman.
Dopo tutto fu sempre Henry Kissinger a ricordare al mondo che «gli Stati Uniti hanno le armi migliori, abbiamo roba che nessun altra nazione ha, e useremo queste armi nel mondo quando sarà il momento giusto». Lo disse nel novembre dell’anno scorso durante un’intervista al giornale satirico inglese The Daily Squib suscitando non pochi clamori in Medio Oriente dopo che essa apparve anche su Al-Ahram il maggior quotidiano egiziano e del mondo arabo. Tant’è che è riemersa - dopo l’ uscita di Netanyahu sulla “linea rossa”- ed è stata stigmatizzata dalla stampa araba come una profetica minaccia. Perché da quelle parti non se l’immaginerebbero mai un Kissinger pervaso di humor, supposto che lo sia veramente.
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di Mario Braconi
Sarebbe troppo difficile (se non impossibile) tentare di analizzare le ragioni per cui un video musicale o una canzone pop prodotte in un paese dell'estremo oriente diventino un successo planetario e si diffondano per il mondo con una rapidità simile a quella di un'epidemia (non a caso, a questi prodotti culturali è uso riferirsi con l'aggettivo “virale”).
Qui ci basta rilevare che lo scorso agosto, una pop star sudcoreana di 34 anni, il cui nome d'arte è Psy (un diminutivo di “psicopatico”) ha creato una piccola canzone dance (in coreano) dal ritornello orecchiabile, cui è stato associato un video di fantasmagorica quanto intenzionale volgarità: un fatto la cui rilevanza e “notiziabilità” non sarebbero andate oltre, nella migliore delle ipotesi, il milieu musicale della Corea del Sud.
E invece ad oggi, oltre 400 milioni di persone di tutti gli angoli del mondo hanno visto online questo filmato, mentre testo e video vantano decine di imitazioni e parodie. L’autore di Gangnam Style (questo il nome della traccia), Bahk Jae Wan, è stato invitato a programmi televisivi negli Stati Uniti e vezzeggiato da spocchiose e levigatissime popstar occidentali. Un dato è certo: a giustificare un simile incredibile successo non è la qualità (invero bassina) del prodotto finito, né la prestanza fisica del simpatico performer, che difficilmente può essere definito un Adone.
Probabilmente, a scatenare il successo in patria è stato il tema che Psy ha trattato nel suo singolo: “Gangnam Style” è lo stile di vita degli abitanti di di Gangnam, un distretto caratterizzato dalla ricchezza dei suoi residenti, dove il prezzo delle proprietà immobiliari è il triplo della media nazionale. Il refrain che Psy ripete ossessivamente - ingenerando dipendenza anche nell'ascoltatore più scettico e raffinato - tradotto in italiano suona più o meno così: “è in arrivo il fratellone di Gangnam” (un termine con cui in Corea le donne si rivolgono ad un amico più anziano oppure, appunto, ad un fratello maggiore).
Alla base, come sempre, c'è un tema sessuale, dal momento che Bahk Jae Wan tesse le lodi di una donna che in pubblico sa essere raffinata come una dei quartieri alti, pur essendo capace di sfoderare un temperamento da tigre in contesti più intimi (ahimè, di questo si parla). Tuttavia, come osserva Onsemiro, blogger coreano (ma residente in Minnesota), la canzoncina si presta anche ad una lettura un po’ più elegante: in questo senso, Gangnam Style rappresenterebbe una satira che prende di mira i coreani “normali” che sognano un giorno di potersi permettere una casa ed una vita nel quartiere più “cool” della capitale.
Lo stesso Psy, in una intervista alla CNN, ha dichiarato: “Chi viene davvero da Gangnam non lo dice mai esplicitamente; sono solo le persone che si atteggiano o i “vorrei-ma-non-posso” ad attribuire a sé stessi uno stile degno di quel distretto. In sostanza, con questa canzone ho voluto prendere in giro tutte le persone che si sforzano in ogni modo di essere ciò che non sono”. Non a caso, l'abbigliamento delirante, e le pose non sempre elegantissime esibite da Psy nella clip (ad un certo punto viene ripreso mentre rappa seduto sulla tazza del gabinetto) a tutto fanno pensare tranne ad una persona raffinata.
William Pesek, uno dei corrispondenti di Bloomberg dal Giappone, spinge la sua analisi sociale e psicologica ancora oltre. In un suo pezzo del 15 ottobre, spiega come i Coreani siano fieri di essere riusciti a riguadagnare gli standard di vita precedenti al 1997, quando la crisi finanziaria aveva quasi ridotto sul lastrico il paese.
Un obiettivo basato sulla realizzazione ed esportazione di prodotti finiti, che non è stato raggiunto senza rilevanti danni sociali: i lavoratori sudcoreani sono lavorano più di tutti i loro colleghi, mentre perfino i bambini passano più tempo in corsi privati e formazione extrascolastica che al parco giochi. “Sembra, insomma che i Coreani del Sud stiano finalmente comprendendo che l'aumento del prodotto interno lordo non ha necessariamente prodotto una nazione più felice: di cui il messaggio sovversivo di Psy, secondo cui l'appartenenza ad una classe sociale ed il benessere economico sono in fondo falsi dei”. Se una piccola canzone può aiutare, ben venga.
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di Carlo Musilli
Devi tornare al diario vecchio stile, quello fatto di carta e chiuso da un lucchetto, per avere ancora dei segreti. Se invece alla penna preferisci la tastiera del computer, non hai scampo. Sua maestà Google raccoglie le informazioni che tu stesso gli hai dato, ti scheda e usa il tuo dossier per vendere "pubblicità personalizzata". Un meccanismo che da anni mette a rischio la privacy di tutti e contro cui finora nessuno è stato in grado d'intervenire.
Questa settimana però l'Unione europea ha provato a scuotersi dal torpore, dando una leggerissima bacchettata sulle mani enormi del gruppo americano. I Garanti della riservatezza dei Paesi membri hanno scritto una lettera a Larry Page, cofondatore e Ceo del gruppo di Mountain View, per chiedergli di adeguare la nuova politica sulla privacy alla Direttiva europea per la protezione dei dati personali. Un invito garbato, forse un po' troppo timido per indurre il più grande gigante di internet a modificare la pratica con cui ogni anno incassa decine di miliardi di dollari.
Nel mirino dell'Ue c'è soprattutto l'innovazione che Google ha scelto d'introdurre lo scorso marzo senza consultare nessuno. In sostanza, da sette mesi i dati personali che l'azienda ottiene tramite i suoi servizi (motore di ricerca, Gmail, Youtube, Google Maps, il social network Google Plus e altri ancora) vengono incrociati liberamente. Questo - dicono da Mountain View - ha consentito di riunire gli oltre settanta testi relativi alle politiche sulla privacy in un unico documento, rendendo più trasparente la gestione dei dati.
Peccato che, allo stesso tempo, l'interscambio d'informazioni fra siti diversi consenta di ricostruire fin nei minimi dettagli la nostra vita digitale, rendendo Google ancor più appetibile agli occhi di tutte le aziende che vogliano fare pubblicità online. Cosa c'è di più redditizio che conoscere i gusti di ogni potenziale consumatore? Un sogno che il marketing ha da tempo trasformato in realtà grazie ai cookies, piccoli file testuali usati, fra l'altro, per tracciare l'attività di chi naviga.
Insomma, altro che trasparenza: "Google usa i dati degli utenti raccogliendoli in maniera massiva e su larghissima scala - scrivono i Garanti europei - in alcuni casi senza il loro consenso, conservandoli a tempo indeterminato, non informando adeguatamente gli utenti su quali dati personali vengono usati e per quali scopi, e non consentendo quindi di capire quali informazioni siano trattate specificamente per il servizio di cui si sta usufruendo".
Mountain View dovrebbe chiarire anche "le finalità e le modalità di combinazione dei dati tratti dai vari servizi forniti e mettere quindi a punto strumenti per consentire agli utenti un più stretto controllo sui propri dati personali". A questo scopo, i Garanti raccomandano alla società di adottare "meccanismi semplificati di 'opt out', sia che l’utente sia iscritto o meno ad un servizio, e di ottenere il consenso espresso degli utenti all’incrocio dei dati".
Con "meccanismi di opt out" si intende il procedimento attraverso il quale gli utenti possono opporsi al trattamento dei propri dati personali. Un modo per evitare di essere tracciati da Google quindi esiste, ma è talmente complesso da essere riservato alla cerchia di eletti con competenze informatiche superiori alla media.
Si pone così un problema normativo di fondo: le Autorità di controllo nazionali, anche se riunite a livello di Unione europea, hanno davvero il potere d'imporre al sovrano di internet il rispetto delle proprie regole? Al di là del (limitato) danno d'immagine che uno scontro del genere può comportare per Google, ciò che più conta è come sempre la ragione del business. Solo nel 2011 Mountain View ha fatturato grazie alla vendita di pubblicità qualcosa come 37 miliardi di dollari.
E questo ancor prima dell'innovazione sui "dati incrociati", che con ogni probabilità farà lievitare ancora oltre i profitti. Ora, di fronte a numeri di questo tipo, quali sanzioni dovrebbe temere Google? E' verosimile che rinunci alla sua gallina dalle uova d'oro per paura di una multa dai Garanti della privacy?
Peter Fleischer, global privacy counsel della società, non sembra poi così intimorito: "Le nostre nuove regole sulla privacy - ha detto - dimostrano il nostro impegno costante nel proteggere le informazioni dei nostri utenti e nel creare prodotti utili. Siamo fiduciosi che le nostra informativa sulla privacy rispetti la legge Europea".
Il rischio è che, fatti due conti, l'azienda accetti eventuali ammende pur di continuare il più possibile a schedare gli utenti come ha sempre fatto. Magari, invece di una lettera, servirebbero provvedimenti un tantino più incisivi.
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di Massimiliano Ferraro
«Per venti persone non si può fare una guerra». Rosa Guirreri Graffeo, 95 anni ben portati, si ricorda bene quelle parole pronunciate nel 1963 dall'allora Presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, a margine di un incontro con le famiglie dei dispersi del piroscafo Hedia. Cosa volesse dire quella frase lei non l'ha mai capito, ma a dispetto dell'indifferenza, talvolta dell'ostruzionismo mostrato dalle istituzioni, Rosa la sua guerra personale per conoscere la verità sulla sorte toccata a suo figlio, Filippo Graffeo, e agli altri diciannove marinai scomparsi misteriosamente cinquant'anni fa nel Canale di Sicilia l'ha combattuta davvero.
Per cercare conferme alle voci che volevano alcuni membri dell'equipaggio salvi, ma trattenuti in Algeria durante la sanguinosa guerra civile del 1962, Rosa è arrivata dalla provincia di Agrigento fino a Parigi. Qui è stata trattenuta in uno stanzone, perquisita, e identificata solo perché avrebbe voluto porre delle semplici domande. «Per caso, pregiatissimi messieurs, sapete che fine ha fatto la barca su cui viaggiava il mio figliolo? È questo qui, in primo piano in una foto scattata nel vostro consolato di Algeri. Come mai non è ancora tornato a casa?». Ecco cosa avrebbe voluto chiedere Rosa a quei signori con la divisa se solo le fosse stato concesso di parlare. Magari si sarebbe addirittura scusata per averli disturbati: «Je suis désolé génerale, ma deve sapere che in Italia abbiamo dei politici che preferiscono farcire la nostra storia di misteri irrisolti piuttosto che chiarire i fatti». Ma niente, a Parigi nessuna spiegazione le era stata data.
Tornata in Italia, Rosa le aveva nuovamente tentate tutte per avere notizie del figlio. Ma niente. Così sono passati altri anni, tanti, fatti di silenzio e rassegnazione. La vita nella sua casa di Sciacca è inesorabilmente trascorsa riempiendo le stanze con altre fotografie in cui non c'era più Filippo, ma altri suoi figli e nipoti. Finché un giorno uno di loro, Accursio Graffeo, la va a trovare per chiederle notizie di quello zio scomparso. C'è un giornalista su al nord, le dice, che nonostante siano passati tanti anni crede che troppe cose non tornino in quel giallo marinaro rimasto senza una soluzione. È proprio quello che ha sempre pensato anche lei, che in fondo la “guerra” per suo figlio non ha mai smesso di combatterla.
La nave dei fantasmi – Il 14 marzo 1962 il piroscafo Hedia, bandiera liberiana e proprietà panamense, stava trasportando a Venezia un carico di fosfati imbarcato a Casablanca, quando scomparve durante una burrasca con mare forza otto al largo dell'arcipelago tunisino di La Galite. Nessuna richiesta d'aiuto venne lanciata dai venti membri dell'equipaggio, diciannove italiani e un britannico. Le ricerche congiunte effettuate nel Canale di Sicilia da unità della Marina Militare italiana con l'ausilio di una fregata statunitense si rivelarono infruttuose. La Hedia sembrò essersi dissolta in alto mare senza lasciare alcuna traccia. Non vennero ritrovati né corpi, né pezzi della nave, né chiazze di nafta a pelo d'acqua, circostanze che fecero nascere fin da subito moltissimi dubbi e interrogativi su quanto realmente accaduto.
Alcuni mesi dopo il quotidiano Venezia Notte ipotizzò che la motonave fosse «stata silurata con un ordigno esplosivo ad alto potenziale». La Hedia, uscita fuori rotta a causa del maltempo, sarebbe stata scambiata dalla marina militare francese per uno dei bastimenti fantasma che in quel marzo del 1962 seguivano le rotte del contrabbando per rifornire di armi gli indipendentisti algerini.
Nei mesi successivi non si ebbero però altre conferme dell'esistenza in vita dell'equipaggio. Finalmente il 2 settembre 1962 un fotografo inglese della United Press immortalò nel cortile del consolato francese di Algeri un gruppo di prigionieri europei, appena liberati dal Front de Libération National. La telefoto, pubblicata il giorno 14 settembre sul Gazzettino di Venezia suscitò gioia e commozione in alcuni parenti dei dispersi che si dissero certi di riconoscere in quegli uomini i loro cari dispersi.
Ma la possibilità che i prigionieri di Algeri fossero davvero i marinai della Hedia si fece concreta solo quando i congiunti di Filippo Graffeo, ritratto proprio in primo piano, firmarono il riconoscimento di fronte ad un notaio «senza possibilità di equivoci». Trascorsi dieci giorni, la grande felicità per i graditi sviluppi venne però smorzata dall'assenza di ogni altra notizia. Si scoprì solo allora che quello stesso 2 settembre il consolato francese era stato attaccato dai miliziani algerini e dato alle fiamme. Nello stato di totale anarchia, mentre le truppe del futuro presidente Ben Bella accerchiavano Algeri, degli europei presenti in quel momento nella sede diplomatica non si seppe più nulla.
Per provare a far luce sull'accaduto Vitaliano Pesante, giovane giornalista veneziano, d'accordo con l'assicurazione della nave e con i familiari degli scomparsi partì per l'Algeria. Qui riuscì a prendere contatto con uno delle persone ritratte nella foto, un certo Jean Solert, il quale negò fermamente la presenza nel consolato di cittadini italiani. Come prova di ciò Solert indicò al giornalista quella che sostenne essere la reale identità del presunto marinaio Graffeo: tale Pierre Cocco, barista di Algeri, già riparato in gran fretta a Marsiglia. Il 16 e il 17 gennaio 1963 il quotidiano La Notte scrisse che le speranze di ritrovare in vita i marinai della Hedia erano perdute e che i prigionieri ritratti nella foto erano tutti francesi. Eppure dal Veneto alla Sicilia l’esito delle indagini venne accolto con incredulità dai parenti dei marinai: «Pensate davvero che non riusciamo a riconoscere i nostri cari dopo solo nove mesi?».
Per cercare conferme sulla reale identità dell'uomo ritratto nella foto di Algeri, alcuni familiari degli scomparsi si recarono prima a Parigi e poi a Marsiglia deve, dopo non poche difficoltà, riuscirono a trovare il discutibile sosia di Filippo Graffeo. Stranamente messieur Cocco si mostrò molto nervoso e poco disposto al dialogo. «Voleva scappare», ricorda Michele Graffeo, fratello dello scomparso. Ma perché? Sapeva forse di non essere la persona ritratta nella telefoto?
Nonostante i tanti lati oscuri che caratterizzavano l'intera vicenda della Hedia, l'assicurazione pagò alla società armatrice l'intera somma assicurata: 110 milioni di lire, malgrado la stessa compagnia non fosse stata in grado di stabilire «la sorte toccata alla nave, all'equipaggio e al carico».
La foto misteriosa – A cinquant'anni di distanza la famiglia di Filippo Graffeo è ancora convinta che la parola fine sul caso della nave scomparsa è stata troppo affrettata. Chi erano i prigionieri fotografati nel consolato di Algeri? L'uomo in primo piano era davvero il marinaio ventenne Filippo Graffeo, oppure era il quarantenne francese Pierre Cocco? I due si somigliavano in quanto a statura e ad alcuni tratti somatici. Inoltre, avere a disposizione solo poche altre immagini dei due, tutte precedenti al 1962 quando erano entrambi più giovani, non aiuta a svelare l'arcano. Ancora oggi, dopo aver mostrato le foto di Graffeo e di Cocco a persone differenti, l'uomo di Algeri ci è stato indicato allo stesso modo talvolta come l'uno e talvolta come l'altro.
Per chiarire ogni dubbio esisterebbe nelle cineteche di Parigi il filmato originale della liberazione dei prigionieri: una prova importante che potrebbe essere richiesta dalle nostre autorità. L'esistenza di questa pellicola, rivelata dalla famiglia del marinaio Graffeo, non aveva però finora trovato delle conferme.
Recentemente, chi scrive è entrato in possesso di un ritaglio di giornale che potrebbe provare l'effettiva esistenza del filmato. Si tratta di una copia della prima pagina del quotidiano francese Le Dépêche du Midi di Tolosa datata 14 settembre 1962, nella quale veniva annunciata la liberazione ad Algeri di 25 europei avvenuta il giorno precedente. Sotto il titolo, una fotografia mostrava ritratti alcuni dei liberati tra i quali è ben riconoscibile l'uomo che compare anche alle spalle del presunto Filippo Graffeo nel noto scatto del 2 settembre.
Chiunque fosse quell'uomo, avrebbe dovuto essere già libero da ben dodici giorni: come mai compare ancora in veste di ostaggio? È possibile che il giornale francese abbia per così dire “riciclato” una foto vecchia di qualche giorno, ma in questo caso il vero motivo di interesse riguardo a questa nuova immagine sarebbe un altro: piazzata proprio di fronte ai prigionieri, è ben visibile la presenza di una telecamera. Ci sono dunque ottime probabilità che il filmato della liberazione sia effettivamente stato girato.
La cattura – Quando scomparve, la Hedia era un vecchio cargo con alle spalle già quarantasette anni di servizio. Troppi. L’eccezionale tempesta che imperversava in quelle ore nel Canale di Sicilia potrebbe senza dubbio aver provocato l’affondamento di una nave del genere, curiosamente revisionata e ribattezzata (da Generous a Hedia) proprio all’indomani del suo ultimo viaggio. Le navi possono affondare per tante ragioni e senza che vi siano come sfondo chissà quali misteri. Ad esempio può capitare che alle condizioni proibitive del mare si aggiunga un carico di molte tonnellate superiore al limite trasportabile. Ma una cosa è certa: se la Hedia non riuscì a tornare da Casablanca non fu per colpa del suo capitano, il quale viene descritto dalle cronache dell’epoca come un comandante esperto, e soprattutto come un uomo tutto d’un pezzo.
Ma se non si trattò di un affondamento voluto, e se non è possibile trovare altri elementi che confermino la teoria del siluramento, cosa accadde davvero il 14 marzo del ’62? Quale altro evento improvviso impedì al marconista della Hedia di lanciare almeno un mayday mentre il vascello colava a picco? È una domanda che finora non ha trovato una spiegazione.
L’eventualità che la radio fosse in avaria, contemplata in una lettera del 1966 inviata alla famiglia Graffeo dal console italiano a Casablanca, non tenne conto della presenza a bordo di un’altra ricetrasmettente di riserva né del segnale di SOS automatico: sarebbe bastato pigiare un bottone ed in qualsiasi momento sarebbe potuta partire una richiesta d’aiuto. Lo sparo di un siluro potrebbe certamente giustificare l’assenza del mayday, eppure a casa Graffeo ritengono più probabile la cattura dell’unità liberiana da parte della marina francese.
Esistono delle testimonianze che confermino ciò? Sì, esistono. La prima è quella di Salvatore Rubino, un marinaio imbarcato sulla nave SS African, il quale sostenne di aver appreso dalla radio di bordo della «cattura del piroscafo Hedia». Ma la salvezza dell’equipaggio sarebbe stata confermata anche dall’armatore della nave nel corso di un colloquio con un altro marittimo, Alessandro Petruzzelli, imbarcato sul piroscafo Giuseppe Emilio.
Inoltre non essendosi trovati né i corpi delle presunte vittime, né altri segni dell’avvenuto naufragio, la capitaneria di Porto Empedocle comunicò in data 28 novembre 1962 che il Ministero della Marina Mercantile non si era «mai pronunciato in senso negativo» sulla possibilità che i componenti l’equipaggio del piroscafo Hedia fossero ancora in vita. Tuttavia nello stesso documento si precisò che «l’amministrazione marittima italiana non ha potuto né può svolgere alcuna inchiesta in ordine al presunto sinistro della nave, trattandosi di unità non italiana».
Tutto ciò sembrerebbe confermare la teoria che la nave sia stata catturata, eventualità per altro già rivelata in via del tutto confidenziale al padre di uno dei marinai da un anonimo ufficiale della Marina Militare: l’equipaggio italiano sarebbe stato portato in salvo (ma da cosa?) e poi trattenuto in una località segreta per «gravi motivi di sicurezza». Si potrebbe pensare che Filippo Graffeo e gli altri uomini della Hedia possano essere finiti loro malgrado nella polveriera algerina, proprio all’indomani degli spaventosi conflitti che portarono il paese africano sull’orlo della guerra civile. Poi però dove sono finiti?