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di Emanuela Pessina
BERLINO. Una “prima volta” di grande successo per i Subsonica a Berlino, approdati il 19 marzo allo storico club S036 di Kreuzberg nell’ambito di un tour europeo che li porterà poi a Londra, Barcellona e Parigi. Nati a Torino nel 1996, i Subsonica sono forse il gruppo più rappresentativo dell’alternative rock italiano: in 15 anni di storia e 6 album prodotti hanno sempre saputo mantenere il proprio stile senza rinunciare a una decisa evoluzione musicale, e senza mai deludere i propri fan. L’ultimo album, Eden (2011), li ha portati a condire basi di rock melodico con elementi dub, drum’n bass, industrial e reggae, per un mix musicale che ha riscosso grande popolarità anche fuori dal Belpaese.
La band ama presentarsi come cresciuta “sull’onda dell'elettronica, dei raduni semiclandestini organizzati nelle fabbriche dismesse e delle notti affollate ad alto volume lungo il fiume sotto piazza Vittorio”, a Torino. A questa descrizione possiamo solo aggiungere che il progetto Subsonica ha unito gli esponenti più validi della scena musicale alternativa torinese degli anni ‘90, un particolare che spesso viene omesso dalla band, forse per modestia. A Berlino abbiamo incontrato Boosta, il tastierista dei Subsonica, che accompagna il gruppo fin dagli esordi.
Altrenotizie: Eden (2011), il vostro ultimo album, ha preso forse una direzione più elettronica rispetto agli altri, avete provato a fare un esperimento oppure avete semplicemente seguito un’emozione?
Boosta: Eden è semplicemente quello che è venuto fuori. Arriviamo da Eclissi (2007), un disco molto “di flusso” e poco “di canzoni”: direi che forse è stato quello il progetto più elettronico. Con Eden è stata semplicemente la voglia di ricominciare insieme con un disco “di canzoni” che si differenziasse da quello precedente, c’è stata anche una virata nei confronti del tema, che si è infatti discostato dall’ultimo. Eclissi è un disco assolutamente più cupo, un po’ premonitore di quello che sarebbe poi avvenuto in questi anni appena trascorsi, e cioè una specie di rinascita per noi: e per rinascita intendo il modo di guadagnarci una sorta di paradiso personale in cui ognuno possa cominciare a costruire un benessere che parta dalle persone che ha a fianco. E in particolare sto parlando del gruppo, quindi questo nostro stare di nuovo insieme dopo 4 anni: ricominciare a lavorare insieme e ricreare i rapporti per me è stata una bella soddisfazione. Musicalmente siamo un gruppo di 5 persone che fanno la loro esperienza e si ritrovano insieme a scrivere musica.
Altrenotizie: Sanremo, festival della canzone italiana. Voi avete scelto di partecipare nel 2000 con una bella canzone, giovane, forse un po’ fuori dalle righe rispetto allo stile dell’evento stesso, perché vi siete lanciati in questa “sfida”?
Boosta: Perché è stato l’unico modo per andarci, non abbiamo scelto di proporre una canzone fuori dalle righe, ma abbiamo scelto di portare una canzone che rappresentasse i Subsonica, quindi se, come è successo, l’organizzazione Sanremo ha voluto il nostro gruppo, si suppone ci abbia voluto perché facessimo la nostra musica.
Altrenotizie: Come l’hanno recepita secondo te i fan?
Boosta: Guardando 12 anni dopo direi piuttosto bene, visto che siamo a Berlino per il nostro secondo tour europeo, non è andata sicuramente male.
Altrenotizie: Infatti ora suonate a Berlino, in Germania. In Italia siete conosciuti, sono 15 anni che calcate le scene; che rapporto avete con l’Europa e soprattutto che aspettative avete dall’Europa?
Boosta: Decisamente un buon rapporto, questo è il nostro secondo tour europeo e abbiamo vendite con numeri in crescita. Potrei dire che nell’arco di 3 anni da quello precedente stiamo raccogliendo i frutti, non so se del lavoro più virale della rete che diffonde la nostra musica, o del nome che si divulga, fatto sta che i sold-out ci sono. Certo le dimensioni non sono quelle dell’Italia, ma è anche vero che partire dalla dimensione del club, come stasera, è davvero bello; sono tutti posti che in Europa hanno segnato la storia della musica delle rispettive nazioni e noi siamo solo felici di poter mettere i piedi su questi palchi, e di metterli consapevoli di avere un pubblico sotto che ci guarda.
Altrenotizie: Una curiosità: la scaletta delle canzoni che presentate in una città europea è la stessa che presentate anche in Italia?
Boosta: No, tendenzialmente usiamo scalette che definiamo “ci piace vincere facile”, partiamo al massimo dall’inizio fino alla fine e poi vediamo che succede.
Altrenotizie: Incantevole, da Terrestre (2005): forse uno dei vostri successi più conosciuti e più diffusi. L’avete girato a Praga, c’è qualche motivo particolare che vi lega a questa città?
Boosta: In realtà è una questione di logistica, perché la storia fa riferimento a un posto romantico, e quindi è stato necessario rappresentarla in una città per gli innamorati. Direi che in Europa Praga è stata una delle prime scelte.
Altrenotizie: Sono 15 anni che i Subsonica compongono dischi e fanno concerti, un bel po’ di tempo, qual è la tua visione del panorama attuale della musica Italiana?
Boosta: La musica sta bene, grazie a Dio, è una forma d’arte che difficilmente può morire: è più facile che muoia l’industria musicale, come è successo negli ultimi 10 anni, ma è improbabile che muoia la musica stessa. Noto una ripresa sia di concerti dal vivo, sia di persone che scelgono di fare musica, o meglio, che scelgono di tornare a farla con gli strumenti. Per certi versi, forse, è finita l’infatuazione massiccia da elettronica, quello stile che si è avuto con l’avvento dei computer, delle registrazioni a basso costoso. O forse, quell’infatuazione si è semplicemente evoluta. Ai giorni nostri per registrare musica basta che qualcuno abbia un computer: probabilmente gli anni a cavallo del 2000 sono quelli che hanno visto le sale più vuote, perché con l’arrivo della tecnologia molti ragazzi hanno smesso di suonare per stare insieme, invece adesso sostanzialmente vediamo che c’è una bella ripresa.
Altrenotizie: Siete di Torino, non può mancare una domanda sul movimento NO-TAV, ancora in questi giorni si è manifestato. Da una parte il Governo che ha paura di rimanere fuori dall’Europa senza Alta Velocità, dall’altra i cittadini, che pensano alle proprie condizioni di vita, in una terra cui sono legati dalla quotidianità. Cosa ne pensi?
Boosta: Io penso che, per sentirci una nazione europea, dovremmo finire prima le infrastrutture che ci mancano, tra cui ad esempio l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, prima di pensare a quei pochi chilometri di alta velocità che vanno a occupare solamente su una dorsale e non sull’altra. La TAV non è assolutamente fondamentale per lo sviluppo italiano. È vero che porterebbe posti di lavoro in più, però non possiamo dimenticare che la maggior parte degli esperti dicono che poteva essere un progetto interessante 20 anni fa, e se dopo 20 anni ne parli ancora e non cominci a farlo vuol dire che sei già fuori tempo massimo.
Altrenotizie: Progetti futuri?
Boosta: Il progetto futuro è terminare questo tour europeo e poi buttarsi in un nuovo tour per festeggiare i nostri 15 anni di attività, spegnere le candeline, e poi alla fine di quest’anno che sarà dedicato ai live, cominciare a scrivere un disco nuovo.
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di Vincenzo Maddaloni
MOSCA. Boris Leonidovic Pasternak se ne stava accanto alla finestra e vedeva le ragazze con gli abiti chiusi fino alle caviglie che passeggiavano su e giù tenendosi per mano, facendo scorrere il tempo sotto gli archi di pietra lungo i muri delle case dalle facciate austere. Era la via Mjasnitskaya nella Mosca più antica, oggi disseminata di gallerie d’arte.
Al numero ventuno c'era la celebre "Scuola di pittura, scultura e architettura", dove suo padre, Leonid Osipovich di cui quest’anno si celebrano i 150 anni della nascita (Odessa, 4 April 1862), famoso pittore e ritrattista, insegnava. Un giorno del 1911 capitò che vi si iscrivesse un giovane dall'aspetto malinconico arrivato dalla Georgia: era Vladimir Majakovskij. A maggio, dalle crepe del selciato veniva fuori un primo odore tiepido. D'inverno, la strada era tormentata da un vento gelido.
Dalla primavera all'autunno c'era quel continuo brusio che filtrava tra i vetri e accompagnava le musiche di Ciajkovskij che la madre di Boris, Roza Kaufmann, suonava al pianoforte. In ogni stagione la casa si riempiva di artisti come Makovski e Surikov, Repin e Miasoedov, di poeti come Rilke e Verhaeren, di storici come Kljucevskij e Zelinskij, di personaggi come Aleksandr Scrjabin che con Sergej Rachmaninov era il più straordinario innovatore della musica russa.
Pasternak lo ricorda nel poema L'anno 1905: «Un giorno/che il baccano dietro il muro/è incessante come la risacca/ed il gorgo delle stanze immoto/e la strada avvivata dal gas,/squilla il campanello,/voci si avvicinano:/Scrjabin./Oh, dove fuggire/dinanzi ai passi del mio idolo/». Era nei momenti degli incontri che suo padre lavorava con più frenesia. Seduto in un angolo, mentre la moglie suonava al pianoforte, Leonid Osipovich Pasternak, l'album sulle ginocchia, tracciava i profili dei suoi ospiti osservandone i movimenti, cogliendone i gesti, i sorrisi, i tratti poiché, come diceva: «Bisogna saper disegnare rapidamente perché i personaggi non devono accorgersene: non mi piace che si mettano in posa».
Era un pittore affermato da quando s'era legato da grande amicizia a Lev Nikolaevic Tolstoj per il quale aveva disegnato le illustrazioni del romanzo “Resurrezione”. In seguito gli fu riconosciuto il merito di aver "fotografato" con le sue opere il confine tra due epoche, un periodo tra i più ricchi di fermenti della cultura russa. Aveva fissato sulla carta quel percorso di sentimenti e di ambientazioni che sarebbero poi stati sconvolti dalla rivoluzione bolscevica. Per questo motivo Leonid Osipovich è collocato tra i grandi della pittura russa.
Ma i suoi quadri non furono esposti nei musei sovietici. Molti furono distrutti, altri confinati nei magazzini. Il suo nome, quando uscì il romanzo “Il dottor Zivago” e cominciò la persecuzione di Boris Pasternak, fu persino cancellato sull'Enciclopedia sovietica, come se non fosse mai esistito. È per questo che adesso la gente fa sempre la coda ogni qual volta si organizza una mostra con i suoi quadri. La gente vuoIe vedere quegli ambienti dove Boris Pasternak aveva consumato la sua giovinezza, maturato la sua poesia, pensato al suo famoso romanzo che gli valse il Nobel.
Poiché, come scrisse Kornelij Zelinskij, la sua ispirazione «sorse in un punto dei piccoli appartamenti professorali della Mosca prerivoluzionaria, tra il pianoforte, dove ancora giacevano i manoscritti di Scrjabin, e lo scrittoio dello studio con le poltrone di pelle, dove alle pareti erano appesi i quadri e sotto la lampada si sfogliavano Kant, Cohen, Nartop, mentre oltre la finestra una cultura di molti secoli, molte lingue frusciava col silenzio delle meditazioni. Là forse si sentivano i contrafforti della vita: ormai alle spalle c'era una rivoluzione». La gente vuoIe "leggere" e “rileggere” questa storia dei Pasternak, che non era mai apparsa prima. Se n'era incuriosita fin da quando sulle pagine di Novi Mir era cominciata - trent'anni dopo che il libro era uscito in tutto il mondo - la pubblicazione a puntate del Dottor Zivago.
Ma questo popolo dalla pazienza infinita dovrà attendere un anno ancora per sapere altri particolari della vicenda. A fornirli fu la Literaturnaja Gazeta, il settimanale degli scrittori, il quale promuovendo la prima esposizione ufficiale (agosto 1989) delle opere di Leonid Osipovich ne aveva ripercorso la storia, ricordando che molti dei lavori erano raccolti nella dacia di Peredelkino e che molti erano stati distrutti durante la guerra,quando vi alloggiavano i soldati i quali usavano la carta coi disegni per fabbricarsi i samokrutki, cioè le sigarette.
Evgheny Pasternak, il figlio dello scrittore - una vita dedicata alla memoria del padre - mi raccontava con una profonda amarezza che, «Alcune delle opere del nonno decoravano la stanza dove mio padre scriveva, incontrava gli amici, passava gran parte della sua giornata. Sapevo quanto ci teneva a quelle tele, a quegli schizzi, e non si pacificava per quelli che erano andati perduti. Purtroppo nel l’Ottantaquattro nella casa di Peredelkino sono piombati i rappresentanti dell'Unione degli scrittori dell'Urss, i miliziani e i giudici, e in meno di dodici ore ci hanno sfrattato, hanno sfasciato quel che restava delle memorie nostre più care, hanno seminato il prato coi disegni strappati di mio nonno. La casa intanto è rimasta vuota e non si capisce che cosa abbiano deciso di farne». Era appunto nell’agosto del 1989 che incontrai Evgheny Pasternak che aveva da poco compiuto i sessantaquattro anni.
Oggi ci si arriva comodamente in treno alla dacia trasformata in casa-museo di Boris Pasternak che si trova al numero 3 di via Pavlenko. E' aperta dalle 10 alle 16, dal martedì alla domenica e l'ingresso costa 100 rubli (poco meno di 3 euro). La dacia dove nacque Zivago è lontana dalla stazione ferroviaria, sepolta nel bosco di Peredelkino, da sempre il "villaggio degli scrittori". È come una nave che galleggia su un fiume di verde. Nella stanza da letto spoglia e nello studio sono rimasti i suoi stivali, il cappotto e il cappello così come lui li lasciò. Sulla luminosa veranda, il tavolo è apparecchiato con le tazze e il samovar.
E’ sulla veranda, nelle giornate d'estate, protetto dal sole e dagli acquazzoni che Boris Pasternak appuntava su dei sottili quaderni i ricordi e la sua quotidiana esperienza: «Mi aggrappai a quel lavoro e cominciai a lavorare con passione raddoppiata. Ma proprio quella passione avrebbe rivelato all'osservatore esperto che non sarei mai divenuto uno scienziato. lo vivevo lo studio della scienza con più intensità di quanto richiedesse la materia. Una specie di pensiero vegetativo operava in me. La sua particolarità era nel fatto che ogni concetto secondario, spiegandosi illimitatamente nella mia interpretazione, cominciava a prendere cibo e ogni sorta di cure e quando io sotto la sua pressione mi rivolgevo ai libri, non ero mosso dall'interesse spassionato per il sapere, ma dalle citazioni letterarie che lo suffragavano».
In queste parole è racchiuso il segreto della poesia di Pasternak, la sua passione per l'oggetto, per il particolare,per i significati della vita e della morte. E un'estate, siamo nel 1913, a ventitré anni «si mise a scrivere versi non per eccezione, ma di seguito, con costanza, allo stesso modo con cui si dipingono i quadri o si compone musica». Certo, la poesia la rincorreva da tempo, soprattutto da quando aveva scoperto Rainer Maria von Rilke su una copia di Mir zu Feifer, che il poeta austriaco aveva regalato al padre, Leonid, quando era stato in visita a Jasnaja Poljana da Tolstoj. La scoperta di Rilke risale al 1907. Nell'autunno del 1913, a Mosca, Pasternak incontrò Verhaeren, che stava ottenendo un gran successo in Russia: Brjusov l'aveva tradotto, BeIyj lo definì un «Dante dell'età contemporanea». Leonid Osipovich gli stava facendo un ritratto, e Boris lo intratteneva durante le pose: gli chiese se conoscesse Rilke, e Verhaeren gli rispose che era il miglior poeta d'Europa.
Di tutte le letture giovanili, si può dire che solo Rilke abbia avuto un'influenza diretta sui suoi versi: molti anni più tardi, nel 1926, inviandogli un suo volume di rime, Pasternak deve averglielo scritto, se Rilke rispondeva così: «Come posso ringraziarvi d'avermi permesso di vedere e di sentire quello che avete moltiplicato dentro di voi così miracolosamente! Il fatto che abbiate potuto attribuirmi una messe così ricca nella vostra sensibilità dice le lodi del vostro cuore generoso».
Ho riferito questi episodi della sua biografia per meglio far capire quant'erano stretti i rapporti tra padre e figlio, che non s'interruppero nemmeno quando nel 1921 Leonid Osipovich si trasferì a Berlino per far curare la moglie ammalata, che morì diciotto anni dopo. E proseguirono quando il pittore raggiunse la figlia in Inghilterra, a Oxford, dove soggiornò fino alla morte, il 31 maggio del 1945. Evgheny Pastenak mi raccontava come suo padre fosse «ammaliato dalla grande capacità di mio nonno di concentrarsi sul lavoro. Nelle lettere ne sottolineava la maestria rara di saper cogliere al volo gli oggetti, le persone in movimento, le scene della vita quotidiana, poiché era accaduto in un'epoca in cui l'artista d'abitudine se ne stava rinchiuso nell'atelier. Figurarsi l'amarezza di mio padre quando seppe, negli Anni Trenta, che molte opere, si trattava soprattutto dei ritratti dei personaggi più noti della rivoluzione, erano state distrutte o esiliate nei musei periferici di Vologda e di Celiabinsk, in Siberia».
Boris Pasternak riprese a scrivere “Zivago” un anno dopo la morte del padre, nel 1946. L'aveva già interrotto due volte: nel 1918 e nel 1936, perché non aveva abbastanza denaro. Lo scrisse assicurandosi da vivere con le traduzioni. Un lavoro sfibrante: traduceva in russo una tragedia di Shakespeare in due mesi e poi tornava a scrivere. L'epilogo è noto: Zivago divenne causa di un terribile scandalo politico.
Non lo vollero pubblicare in Urss e fu pubblicato in Italia. Poi a Pasternak arrivò il Nobel, che gli fu dato per tutta la sua opera, e quando Krusciov lo seppe da una notizia proveniente dagli Stati Uniti, scoppiò un putiferio enorme e lo scrittore fu costretto a mandare un telegramma con il quale rinunciava volontariamente al premio.
Evgheny mi ricordava che pur in quel travaglio il padre continuava a lavorare ogni giorno, continuava a scrivere poesie, e non partecipava alle riunioni che si facevano su di lui e sul caso letterario che aveva provocato. Dalla sua dacia di Peredelkino, tra i ritratti muti dei personaggi dipinti da suo padre, e quei paesaggi che gli avevano ispirato la storia di Lara, mandava messaggi al mondo raccomandandosi che la sua opera non fosse strumentalizzata ai fini politici.
«No, non mi fece mai segreto dei suoi scritti», raccontava Evgheny. «Leggevo i capitoli del libro, ne parlavamo: era parte della nostra esistenza. Alle mie esitazioni mio padre rispondeva citandomi la regola di vita più amata da Tolstoj: "Fai quel che tu devi, sia quel che sia". Poi il discorso ogni volta scivolava inevitabilmente ai periodi vissuti a Jasnaja PoIjana, nella casa del grande patriarca, con il nonno che dipingeva le scene di Resurrezione, e i lunghi conversari che vi si svolgevano. Soltanto questi ricordi riuscivano a rasserenarlo».
La tomba di Pasternak è sotto una quercia nel piccolo cimitero contadino dagli steccati di legno turchese, accanto alla chiesetta bianca e luminosa che risale ai tempi di Ivan il Terribile. Ci sono sempre i sentierini delicati che separano ogni tanto un recinto dall'altro per consentire il passaggio dei parenti che vanno a deporre fiori e cibo sulle tombe dei loro morti.
Cancelletti minuscoli permettono di infilarvi il braccio in modo che le offerte raggiungano il centro del tumulo. Soltanto la tomba di Boris Pasternak è più estesa delle altre, con quella lastra di marmo molto bianco sulla quale si distingue, in bassorilievo, la figura dello scrittore, che consente di riconoscerla da lontano.
Mi dicono che in passato poca gente andasse a Peredelkino sulla tomba di Pasternak. Ma non dev'essere del tutto vero, poiché oggi si dice pure che le sue esequie, nel Sessanta, furono la prima manifestazione di dissenso alla quale parteciparono diecimila persone. E poi in tutti questi anni puntualmente, affettuosamente, per chissà quali strade, si è fatto in modo di circondare lo scrittore, morto nell'indifferenza ufficiale, di quel rispetto che in vita gli venne a lungo negato.
Quasi a testimoniare che il Paese, nonostante tutto, è sempre riuscito ad individuare qual è il suo posto vero nella storia. Sebbene sia da sempre afflitto da prove terribili non ancora del tutto superate, zeppe di incongruenze e crudeltà, che si riassumono in questa scartocciata bottiglia di plastica nella quale hanno infilato tre garofani, ed è davanti alla lapide posta là a ricordare che Boris Pasternak è esistito.
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di Sara Michelucci
Occhiali scuri, capelli lunghi, pantaloni di pelle aderentissimi e anfibi. Sotto i piedi la terra, rossa e bruciata, e intorno le tenebre della foresta. I Masnadieri di Gabriele Lavia urlano, sparano e si muovono in maniera nervosa sulla scena, seguendo la musica alta e travolgente. Sono anime nere, inquiete, un po’ Guerrieri della Notte e un po’ briganti di vecchia data. Lavia rivisita in teatro, e lo fa con grande maestria, il dramma in cinque atti di Friedrich Schiller, che esordisce sulle scene proprio con questo testo.
Rappresentato nel 1782 a Mannheim, fu un successo clamoroso e sembra che durante la rappresentazione alcune signore siano svenute dall’emozione e che gli spettatori si siano abbracciati in un turbine di emozioni. Die Räuber, i briganti, i ribelli, narra la storia di due fratelli, il malvagio e sformato Franz (che ama senza essere corrisposto né dal padre né da Amalia) e il valoroso e bello Karl.
Franz rivela subito le sue mire malefiche e l’intenzione di mettere le mani sulla contea di Morr, tentando di far morire di crepacuore il vecchio padre. Scrive, infatti, delle finte lettere, facendo credere che Karl abbia disonorato il nome di famiglia, macchiandosi delle più becere azioni.
Il vecchio Moor si lascia convincere che sia meglio non perdonare subito Karl, ma lasciare che sia lui a tornare a casa. Franz scrive invece al fratello che il perdono non potrà mai averlo.
Da qui si apre la tragedia, Karl prende la lettera del padre come un rifiuto totale nei suoi confronti e invece di continuare il suo processo di redenzione, tornando a casa, si unisce a una banda di rivoluzionari che poi diventeranno masnadieri.
Al castello proseguono i piani di Franz che non riesce a sedurre Amalia, scivolando sempre più nell’inferno della sua solitudine e abominazione. “Con questa tragedia Schiller entra violentemente nella storia della letteratura tedesca come poeta della ribellione e come suddito ribelle, retore della libertà politico-scoiale e nella kantiana libertà etica”, afferma Lavia.
Un’opera rivoluzionaria che ha tratti molto moderni nella riproposizione di Lavia e che mette in luce la necessità della rivolta quando le condizioni storiche lo richiedono, nonostante questo possa costare molto. “I Masnadieri - continua Lavia - s’inseriscono idealmente nello Strum und Drang e in quella luce di furore visionario l’opera attacca le istituzioni politiche e sociali e i pregiudizi morali nel proposito di impiegare il palcoscenico come ‘Istituto morale’”.
La gioventù e l’energia nello scardinare il vecchio sono la forza motrice di questo spettacolo e proprio per questo Lavia sceglie attori giovani, dando vita a uno spettacolo altamente coinvolgente e appassionato, dove la protesta si innalza con le voci e le azioni nervose e violente degli attori che corrono, saltano e cantano la loro disperazioni. Giovani che assomigliano molto a quelli che si vedono nelle manifestazioni in piazza, che lottano per un lavoro o per i loro diritti.
Il parallelismo viene facile, anche se poi i Masnadieri cederanno completamente al delitto, alla brutalità delle armi da fuoco e alla cancellazione di ideali alti. Lavia mise in scena i Masnadieri già nel 1982, scegliendo Monica Guerritore e Umberto Orsini tra gli interpreti. Ma oggi il regista sceglie una messa in scena completamente diversa, carica di elettricità e furente, dove la fisicità è violenta e coinvolgente allo stesso modo dell’emotività scaturita dai dialoghi. La scelta dell’eccesso è azzeccata e rende l’idea di una chiara inversione di tendenza anche nel teatro d’autore.
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di Vincenzo Maddaloni
Se il tenente generale dell’Esercito ed ex sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti, William G. Boykin, se ne fosse rimasto a fare il pensionato, sarebbe ricordato come un militare che è stato presente sui teatri di guerra più importanti degli ultimi quarant’anni, oppure come il comandante di quell’US Army Special Operations Command che scatena i Rangers. Invece egli rischia di passare alla storia come un predicatore con le stellette, figura non nuova nell’US Army, ma certamente rarissima con un curriculum come il suo.
E’ dal 2007, anno in cui è andato in pensione, che il tenente generale Boykin è professore con il preciso compito di insegnare agli studenti dell’Hampden-Sydney College in Virginia, «a pensare in modo critico e a comunicare in modo efficace».
E’ una docenza che s’è conquistato sul campo, fin da quando (2003) era sottosegretario alla Difesa e comandante della struttura d'intelligence della Delta Force alla quale era stato affidato il compito di catturare Osama bin Laden e Saddam Hussein con tutti i suoi consiglieri. Molto aveva influito l’aspetto cipiglioso con il quale egli infiocchettava ogni sua dichiarazione che turbava la serenità dei giornalisti di tutto il mondo presenti alle sue conferenze stampa.
Infatti, non era cosa di tutti i giorni sentire un generale affermare che il suo massimo impegno era la lotta “contro Satana” e spiegarne il perché. «Sono consapevole - diceva - che il nostro Dio è il più grande, è il vero Dio, mentre quello dell’avversario è soltanto un idolo. Lo affermo con il cuore sereno poiché non mi ritengo né un fanatico né un estremista, ma soltanto un soldato con una fede profonda».
Naturalmente non era il solo dell’entourage di George W. Bush che la pensasse così. In quegli anni altri personaggi altrettanto autorevoli sciorinavano dichiarazioni simili, amplificate puntualmente dai media americani. Tuttavia, sebbene nel seguito del Presidente ci fossero diversi rappresentanti della chiesa evangelica tutti accomunati, come Bush, da un rinnovato fervore religioso, nessuno esternava “in modo così efficace” come il tenente generale William G. Boykin.
Un personaggio che sarebbe apparso davvero lunare se non si sapesse che la fede, plasmata da quattro secoli di prediche dei pastori delle Chiese e dei tanti movimenti religiosi, è stata (e lo è ancora) uno degli elementi fondamentali della formazione dell'identità americana. Infatti, è la nazione di gran lunga più praticante di quanto lo siano quelle degli altri paesi industrializzati, almeno così sostengono numerosi osservatori.
In un mondo nel quale la cultura e la religione diventano il pretesto su cui si forgiano alleanze, patti, antagonismi e guerre tra le genti di ogni continente, gli americani (o per essere più esatti quella maggioranza che aveva votato Bush e che ora sostiene Newt Gingrich o Mitt Romney, candidati alle prossime presidenziali), imperterriti si forgiano col "The Creed", il Credo, dentro il quale si amalgama l’origine cristiana, la lingua inglese, il rule of law, la responsabilità dei legislatori, i diritti del singolo e tutti quegli elementi spiccatamente protestanti come la fede nella capacità e nel dovere dell'uomo di provare a creare un paradiso in terra; o, come viene detto in ambienti evangelici, "a city on the hill", una città sulla collina.
Insomma parlando fuor di metafora il “The creed” americano è come una sorta di Bauernfrühstück, la colossale omelette ripiena di legumi, verdure e patate che i tedeschi amano servirsi a colazione.
Se si tiene a mente questo scenario meglio si capisce lo slancio del tenente generale William G. Boykin nel volersi dedicare al delicato compito del docente. Beninteso, non è il suo l’unico esempio in tutti gli Stati Uniti, anzi. Ma serve a meglio spiegare un aspetto importante della società americana, poiché l’Hampden–Sydney College, che inaugurò il suo primo corso di studi il 10 novembre del 1775 (avete letto bene), e ospita ben 1106 studenti (solo maschi) provenienti da “30 states and several foreign countries”, si pubblicizza con corsi di studio esclusivi e perciò speciali.
Come il programma Honors «progettato per lo studente che ha dato prova di un alto grado di curiosità intellettuale, indipendenza di pensiero, entusiasmo per l'apprendimento e la conoscenza e che si adopera con il dialogo a tirar fuori il meglio dai suoi compagni e dai suoi insegnanti». (http://www.hsc.edu/)
Tuttavia nel corso di studi di quest’anno non si stimola la “curiosità intellettuale” con l’analisi di un evento di grande significato umano, come lo è stato - esattamente nel febbraio di cinquant’anni fa - la decisione del presidente Kennedy di autorizzare la guerra chimica nel Vietnam del Sud che presto si rivelò «l’aggressione più micidiale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale», come sentenzia Noam Chomsky nel suo recente articolo “Anniversaries From “Unhistory”.
Con il quale precisa che «il presidente Kennedy autorizzò la guerra chimica per distruggere le coltivazioni e ridurre alla resa le popolazione ribelle. Con il risultato che milioni di contadini furono costretti a vivere nei tuguri urbani e in veri e propri campi di concentramento, i così detti “Villaggi Strategici“». http://www.vincenzomaddaloni.it/2012/02/anniversari-della-non-storia/
Naturalmente, sulla tragedia vietnamita non incombe il silenzio soltanto sul College della Virginia, ma - si è detto - su tutti gli Stati Uniti. Il giudizio non è esagerato poiché un intellettuale attento come l’americano Chomsky il silenzio lo coglie, e titola il suo articolo “Anniversari della non storia” suggerendo che, siccome «George Orwell coniò l’utile termine “non-persona” per le creature alle quali si nega lo statuto di persona perché non si piegano alla dottrina dello Stato, si potrebbe aggiungere il termine “non-storia” per indicare il destino delle non-persone espurgate dalla Storia per motivazioni del tutto simili a quelle elencate da Orwell».
La “non storia” delle genti del Vietnam narra che tra il 1962 e il 1963, agli albori della “guerra americana” (così l’hanno poi definita gli storici vietnamiti), si svolse l'Operazione Ranch Hand, la campagna pianificata di defoliazione delle foreste pluviali nella regione della foce del Mekong.
Gli aerei e gli elicotteri dell'US Air Force sparsero erbicidi e defolianti (il micidiale l'Agente Orange http://it.wikipedia.org/wiki/Agente_Orange), non soltanto sulla giungla, ma pure sui campi coltivati che - secondo la Cia - fornivano cibo ai vietcong, ignorando che già in quegli anni per l'approvvigionarsi essi avevano scavato una lunghissima serie di gallerie, che passeranno alla Storia col nome di "Sentiero di Ho Chi Minh".
All’inizio del 1965 si stimò che in quattro anni di guerra erano stati uccisi 89 mila vietnamiti, ai quali vanno aggiunti altri 66 mila (1957-1961): tutti vittime delle bombe, «del peso schiacciante dei blindati, del napalm, dei jet d’assalto e dei gas per stimolare il vomito», come ha scritto Brendan Wilcox in “Scorched Earth”, “Terra bruciata”, il suo ultimo libro (2011) sugli effetti devastanti della guerra chimica.
E’ una realtà che un testimone diretto, lo storico militare Bernard Fall (non certo un pacifista come Brendan Wilcox) aveva previsto: «La campagna – scrisse - sta letteralmente morendo sotto i colpi del più grande macchinario bellico che si sia mai avventato su un’area di queste dimensioni». http://www.truth-out.org/scorched-earth-legacies-chemical-warfare-vietnam/1318963345; http://www.fredawilcox.com/scorched_earth__legacies_of_chemical_warfare_in_vietnam_99600.htm
L’ufficialità non smentisce quegli eventi. Nell’ultimo rapporto del Congresso americano (25 Luglio 2011), si legge che: dal 1961 al 1971, 19 milioni di galloni ( circa 72 milioni litri) di 15 differenti erbicidi, inclusi i 13 milioni di galloni ( circa 49 milioni litri) dell’Agente Orange, sono stati versati sulle regioni del Vietnam del Sud. Molti di quegli erbicidi, Agente Orange incluso, contenevano diossina.
Si stima che dai 2 milioni e cento mila ai 4 milioni e ottocento mila vietnamiti erano presenti durante le “irrigazioni” con l’Agente Orange e altri erbicidi. Ancora troppa gente vive in realtà contaminate e si nutrono con cibi infetti. Infine che moltissimi figli delle persone contaminate soffrono di malattie e di malformazioni.
Oggi in Vietnam ci sono ancora decine le aree nelle quali coltivazioni, terreni, fauna selvatica sono avvelenati dalla diossina. Dagli effetti dell’Agente Orange dipende la sorte degli uomini e delle donne in Vietnam e dei veterani negli Stati Uniti. La vita di molte persone s’è accorciata, altre la consumano nella malattia, nella disabilità, nella disperazione.
Accade sovente che non venga riconosciuta ai veterani l’invalidità da avvelenamento con la diossina, e quindi sono privati delle cure mediche, delle medicine e di tutto quello che rientra nell’assistenza pubblica o nei loro contratti con le compagnie di assicurazione. Anche questa è una “non storia” come direbbe Chomsky che leggono soltanto delle ristrette minoranze. Le grandi masse sono sospinte in ogni angolo di distrazione mediatica. Tutto viene escogitato pur di mantenere immutata - urbi et orbi - l’immagine di superiorità sociale ed economica che la “city on the hill" inalbera.
E’ questa miscela di credenze religiose, di valori anglo-protestanti, di un militarismo vissuto e praticato, che le grandi lobby della Finanza incoraggiano e sostengono, e che il governo si adopera con ogni mezzo a diffondere. Insomma, quanto basta per ispirare le “grandi” menti come quella del politologo Samuel Huntington, che scrive: «I governi dei Paesi musulmani avranno rapporti probabilmente sempre meno amichevoli con l’Occidente e tra gruppi islamici e società occidentali si verificheranno di tanto in tanto scoppi di violenza ora contenuti ora anche molto intensi».
A infondere nuova linfa a personaggi come il tenente generale Boykin bastano invece i secchi ordini del Pentagono, della Cia, persino dei figli d’Israele. Stando così le cose non c’è dubbio che i “buoni soldati” si troveranno sempre. Dopo tutto John Kennedy non andò, (come si usa dire) tanto per il sottile: «Abbiamo un problema: rendere credibile la nostra potenza. Il Vietnam è il posto giusto per dimostrarla», rispose a James Reston, il mitico direttore del New York Times. Era il 12 giugno del 1961. Dopo dieci mesi autorizzò l’impiego dell’Agente Orange. Obama ci sta provando ora con i droni, gli aerei senza pilota.
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di Sara Michelucci
Profumi latini e note jazz nell’inconfondibile musica di Fabrizio Bosso e Javier Girotto, che tornano a regalare bei momenti di pura musica, con il progetto Latin Mood, protagonisti del terzo appuntamento dell’ottava edizione di Visioninmusica. Il sestetto presenta un secondo album dal titolo più che esplicativo: Vamos. La mente corre subito verso mondi e contesti che si mischiano tra loro: dalle balere argentine dove si balla il tango ai locali di jazz in cui si esibiscono i musicisti più talentuosi.
Lo spettacolo vede andare in scena un accostamento di talenti indiscussi della scena musicale contemporanea, dando vita con Vamos a un’indagine sulle possibili connessioni tra il jazz di matrice latina e quello più tradizionalmente noto. Accompagnati, come nel primo disco Sol, da Natalio Mangalavite al pianoforte e voce, Luca Bulgarelli al basso elettrico (anche voce e chitarra in un brano), Lorenzo Tucci alla batteria e Bruno Marcozzi alle percussioni, Girotto e Bosso sono i protagonisti di uno spettacolo veramente molto intenso, in cui i ritmi e gli scenari si moltiplicano spaziando tra tango, milonga, chacarera, candombe. Nessun esotismo gratuito, ma tutte ritmiche che risplendono in chiave jazzistica.
Fabrizio Bosso è impeccabile. La sua tecnica non delude mai, ma non si abbandona però solo al mero tecnicismo, dando ampio sfogo alla creazione di una grafia personale, dove nulla è dato per scontato. Anche i suoni più “standard” sono rivisitati in una chiave molto personale, in cui la tensione artistica è alle stelle. La tromba riesce a creare ritmi avvolgenti e coinvolgenti e lo swing viene portato agli estremi. Nel 2008, Bosso ha ricevuto una nomination e in seguito ha vinto l’Italian Jazz Awards - Luca Flores come Best Jazz Act.
Nel 2011 ha accompagnato Raphael Gualazzi nel brano Follia d'amore, vincitore della categoria Giovani del Festival di Sanremo 2011 e quest’anno ha suonato nel nuovo disco di Ivana Spagna dal titolo Four, nella canzone Listen to your heart. Non da meno Javier Girotto, sassofonista argentino nato a Cordoba che, sulle note del latin jazz, regala vere e proprie perle. In Italia alterna la collaborazione con gruppi di musica commerciale, latina, con la formazione di diversi gruppi jazz, con cui comincia la sua indefessa attività di compositore e arrangiatore.
Il sestetto è stato messo in piedi in occasione di un’edizione del Brianza Open Jazz Festival e i suoi componenti si incontrano nel terreno produttivo dell’improvvisazione e del jazz. L’hard bop di cui Bosso è vessillifero indiscusso e le ritmiche sudamericane di Girotto riescono a creare un mix magico. Molto bella l’incursione vocale di Natalio Mangalavite come quelle della batteria di Lorenzo Tucci. Rimanere seduti mentre li si ascolta diventa allora molto difficile, perché il ritmo prende e la voglia di ballare sale.