di Mario Braconi

Sono molte le ragioni per le quali la probabile approvazione del trattato commerciale multilaterale ACTA da parte del Parlamento Europeo dovrebbe interessare non solo gli adepti del pensiero libertario ma tutti i cittadini del continente. Come ricorda l’associazione per le libertà digitali AccessNow, il trattato, concepito in un contesto rigorosamente protetto da ogni forma di controllo democratico, costituisce un grave vulnus ai diritti civili degli europei.

Se verrà approvato anche dall'Europarlamento, sottoporrà l’esercizio della libertà di parola e di espressione al capriccio di società private; trasformerà gli Internet Service Provider in una polizia privata delle multinazionali, incoraggiandoli all’impiego di tecniche di sorveglianza pesanti per capire in ogni momento che cosa stiano facendo i loro clienti sulla Rete. E, soprattutto, costituirà una minaccia potente all'innovazione tecnologica e alla creatività: le innovazioni software vengono sviluppate in un contesto di “area grigia” per quanto concerne il rispetto dei diritti d’autore.

Se ACTA verrà approvato dal Parlamento Europeo diventerà illegale anche il remix, ovvero quella forma di creatività basata sull'utilizzo libero di opere coperte da copyright al fine di riassemblarle e riorganizzarle per dare vita a qualcosa di nuovo.  E che dire del modo disinvolto in cui ACTA interpreta il danno economico teorico subito dai detentori dei diritti d'autore?

A dar retta all’accordo commerciale internazionale contro la “contraffazione”, ogni file MP3 scaricato “illegalmente” costituisce di per sé un mancato guadagno per la major che detiene di quel brano musicale. Come se la fruizione della musica dovesse passare inevitabilmente attraverso una transazione economica. Non è forse, di per sé, questa offensiva interpretazione un paradigma della misera visione del mondo che le multinazionali dell'intrattenimento sono determinate ad imporre all'universo mondo, con le buone o con le cattive?

In ogni caso, se ci fossero ancora dubbi su come potrebbe diventare il nostro mondo dopo la sua approvazione definitiva, basterà forse aggiungere che in un aeroporto si potrebbe essere arrestati perché nel disco fisso del nostro portatile c'è un film o della musica scaricata da un torrent. Non sfuggano, sotto questo profilo, gli effetti devastanti che una simile regolamentazione potrebbe produrre in Paesi dove i meccanismi giuridici a tutela dei diritti dei cittadini siano meno robusti e sofisticati di quanto non sia nei paesi occidentali ...

Pare che perfino i superburocrati del Parlamento Europeo ad un certo punto si siano accorti di quale tipo di immondizia liberticida stavano per approvare. Lo studio “ACTA, una valutazione”, commissionato lo scorso giugno ad un gruppo di esperti dal Direttorato Generale per le Politiche Esterne dell’Unione, ha significativamente concluso che è “difficile evidenziare un qualsiasi vantaggio che il trattato ACTA possa apportare ai cittadini europei rispetto del quadro normativo internazionale preesistente”.

Come se non bastasse, il documento conclude sconsigliando il Parlamento Europeo di approvare incondizionatamente il trattato, “in considerazione delle problematicità rilevate nella versione attuale dell’ACTA.” Una voce particolarmente critica è stata sempre quella dell’Eurodeputato socialista Kader Arif, capo negoziatore al Parlamento Europeo. Già in un’intervista al Guardian, a fine gennaio, aveva stigmatizzato il deficit di democrazia del processo che ha generato ACTA, nonché denunciato il sospetto attivismo delle destre che hanno calendarizzato le sessioni di discussione in modo molto fitto per favorire una spedita ratifica. In quell'occasione Arif, inoltre, aveva spiegato che, benché gli estensori (americani) del trattato lo vorrebbero spacciare come uno strumento contro la contraffazione, l’accordo in realtà mira solo a proteggere il copyright.

Un farmaco prodotto in un Paese in via di sviluppo troppo povero per sottostare al racket delle case farmaceutiche non è un  contraffatto, ma piuttosto un farmaco generico. ACTA ovviamente la vede in modo diverso e promette ai paesi bisognosi un periodo buio di miseria e malattia. Arif, infine, ha sottolineato che assegnare agli ISP la vigilanza degli utenti sia espressamente vietato dalla legge europea e ha paventato un possibile inasprimento dei controlli (veri o strumentali, aggiungeremmo) alle dogane, finalizzati al “sequestro” di materiale copiato (che è, ripetiamolo, cosa diversa da “contraffatto”).

Il tutto a dispetto delle tesi contenute in un documento prodotto dai pochi ma potenti fan di ACTA (major dell'intrattenimento e case farmaceutiche) dal titolo “I dieci miti sorti attorno ad ACTA”: secondo questo testo, un simile scenario non è concreto, dato che obiettivo del trattato sono i trasgressori industriali del diritto d'autore, non i singoli “pesci piccoli”.

Il 26 gennaio Arif si è dimesso dal suo incarico di rapporteur, “disgustato” da quella che ha definito una pagliacciata: “Questo accordo potrebbe avere conseguenze molto gravi sulla vita dei cittadini, eppure si sta facendo di tutto perché il Parlamento Europeo non dica la sua su questo tema. Per questa ragione oggi voglio mandare un segnale forte ed allertare l’opinione pubblica su questa situazione inaccettabile.” Quello stesso giorno, che ha visto l’approvazione del trattato da parte di 22  paesi dell'Unione Europea, in alcuni di essi si sono registrate contestazioni più o meno clamorose.

Ed è così che le cronache hanno raccontato di parlamentari che, in Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia (stato non firmatario) si sono presentati in seduta con il volto paludato da una maschera di carta Guy Fawkes; di manifestazioni di piazza da qualche centinaio di persone in Svezia, Repubblica Ceca, Lituania e Slovenia; di alti rappresentanti delle istituzioni in stato di confusione, come l’ambasciatrice slovena in Giappone, che ha sostenuto di aver firmato per leggerezza; ed il primo ministro rumeno, incapace di dare una spiegazione coerente dell'adesione del suo paese.

Nel frattempo, poco più di due milioni di firme digitali si sono ammassate sotto la petizione online contro l’approvazione di ACTA da parte del Parlamento Europeo, lanciata dal sito Avaaz.org, mentre la meno nota Action Now ne ha raggranellate circa un quarto. Insomma, si può dire che i cittadini europei, forse distratti dalla crisi finanziaria, certamente poco informati dai media che boicottano questa storia giornalistica, e magari anche un po’ assuefatti, per non dire rassegnati, alle intromissioni dello stato nella loro vita privata, non hanno dato vita ad una mobilitazione di massa paragonabile al caos scatenato negli USA contro le proposte di legge SOPA e PIPA (assai simili, anche se complessivamente più equilibrate di ACTA).

Considerata la localizzazione geografica delle contestazioni più clamorose, verrebbe da dire che la rivolta si è concentrata soprattutto nell'Europa orientale, dove ancora bruciano le ferite prodotte dai regimi totalitari crollati dopo il 1989 e dove dunque la sensibilità nei confronti delle limitazioni alla libertà faticosamente conquistata risulta più alta.

L'Italia, spiace dirlo, si è dimostrata particolarmente ignava. Benché il nostro paese sia tra i 22 stati europei che hanno firmato l'accordo a Tokyo lo scorso 26 gennaio, titoli di giornale se ne sono visti pochini, analisi nemmeno a parlarne, mentre la mobilitazione non è stata entusiasmante. Aspettarsi dal governo Monti un intervento contro le multinazionali è, effettivamente, peccare di eccesso di ottimismo.

Non che in Germania le cose vadano molto meglio: Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, Ministro della Giustizia tedesco, che non ha ancora firmato il trattato per motivi meramente formali, ha dichiarato che lo farà solo dopo l'approvazione da parte del Parlamento Europeo, specificando che in quella sede dovrà essere affrontata la questione del perché esso sia veramente necessario. Si vedrà, ma certo queste posizioni salomoniche non aiutano più di tanto.

In ogni caso, mentre le manifestazioni convocate in varie città tedesche e francesi per l'11 febbraio sono centinaia, in Italia ne sono state previste solo due, una a Firenze ed una a Roma. Quest’ultima, poi, è stata sospesa per motivi burocratici: a causa dell'emergenza neve, infatti, venerdì sono rimasti chiusi gli uffici pubblici comunali che avrebbero dovuto autorizzare la manifestazione davanti alla sede del Parlamento europeo a via Quattro Novembre. Sembra dunque che la neve questa volta farà danni più gravi e meno evidenti di quelli documentati.

di Mario Braconi

Mentre negli USA la feroce opposizione popolare ha in qualche modo rallentato, compromettendolo, il percorso dei progetti di legge liberticidi SOPA e PIPA, la censura su internet è arrivata in Europa. Il nome del nuovo tentativo di mettere la mordacchia alla Rete, trasformandola nel supermarket delle multinazionali si chiama ACTA, come Anti-Counterfeiting Trade Agreement, ovvero “accordo commerciale contro la contraffazione”.

Come spiega il sito per “nerd” Geekosystem, ci sono almeno due ragioni per le quali l’ACTA è da considerarsi una forma ancora più subdola e pericolosa di controllo e sorveglianza. Innanzitutto, com’è evidente dall’acronimo, si tratta di un trattato commerciale: circostanza che, secondo l'interpretazione giuridica dominante negli USA, permette di bypassare la discussione al Congresso (cosa che non vale per SOPA e PIPA). Inoltre, trattandosi appunto di un trattato internazionale multilaterale, è in grado di influire anche sulla vita di milioni di cittadini di tutto il mondo.

Ufficialmente il trattato dovrebbe impedire la contraffazione delle merci: in realtà il suo obiettivo è equiparare alla contraffazione la semplice copia di prodotti protetti da copyright, trasformando in criminali tutti coloro copiano film, e-book e musica mettendoli a disposizione di altri online. Sembra una distinzione semantica sottile, ma copiare un file non è contraffare. Chi condivide file coperti da copyright senza il consenso di chi gestisce il giro delle royalty non sta cercando di ingannare i fruitori sostenendo che quel file è originale, né (almeno di solito) pretende un pagamento.

Il vero problema di questo stato di cose è che, mentre la gente condivide prodotti culturali gratuitamente, il racket delle major non guadagna un centesimo. Le multinazionali dell'intrattenimento sono talmente incattivite da essere pronte ad attraversare qualsiasi confine etico e giuridico pur di proteggere il loro decrepito modello di business. Il modo con cui i detentori del copyright intendono perseguire i loro interessi è quello già visto per SOPA e PIPA: rendere gli ISP (i fornitori di servizio internet) responsabili per l’uso della connessione internet che fanno i loro clienti.

Una prima versione del testo implicava l'obbligo di controllare che tipo di traffico essi effettuano, il che non può che voler dire sorveglianza profonda e continuativa, e naturalmente censura, magari preventiva. L’attuale testo prevede invece che l’ISP è tenuto a “fare qualcosa” per impedire la violazione del diritto d’autore, e si cita come esempio la possibilità di tagliare la connettività ai clienti dopo la terza volta che vengano sorpresi a scaricare materiale protetto da copyright.

Ma a profittare della ACTA saranno anche un'altra specie di parassiti multinazionali: le società farmaceutiche. Infatti, il trattato formalmente nato per tutelare i consumatori da merci contraffatte potrebbe diventare un valido alleato delle malattie che mettono a rischio il futuro di interi paesi già condannati dalla povertà e dal sottosviluppo. Supponiamo ad esempio che in un paese in via di sviluppo si sviluppi un’epidemia di una malattia curabile con un determinato farmaco il cui brevetto sia detenuto da un produttore americano (o svizzero, che è uguale) e immaginiamo che quest’ultimo rifiuti di mettere a disposizione dei produttori locali ad un prezzo equo il brevetto per la produzione del generico. In simili circostanze a questi ultimi viene graziosamente concesso di produrre senz’altro il prodotto anche violando il brevetto. Bene, grazie ad ACTA è stato reso assai più difficile accedere a questa scorciatoia: i malati dei paesi in via di sviluppo ringraziano.

Per riassumere, ACTA è un trattato commerciale che, al fine di impedire ai ragazzini di scaricare musica e film gratuitamente, istituzionalizza la censura su internet e rende prioritario il profitto dell’industria del farmaco rispetto alla salvezza di vite umane. Il suo testo, inoltre, è stato steso in segreto, sotto dettatura degli intermediari che fanno i soldi con la creatività di altri; grazie al suo status di trattato commerciale è stato firmato in quattro e quattr’otto dal presidente Obama ad ottobre dello scorso anno, senza alcun passaggio al Senato o alla Camera dei Rappresentanti; anche se sul Washington Post i professori di diritto Jack Goldsmith e Lawrence Lessig hanno spiegato che secondo loro il Presidente “non ha alcun potere costituzionale indipendente in materia di proprietà intellettuale o di comunicazioni”.

Per giunta, il trattato, che ha l’ambizione di essere applicato in tutto il mondo, contiene delle definizioni talmente generiche da far cadere le braccia: come si legge sul sito di Quadrature du Net, una ONG attiva nel campo delle libertà digitali, “ACTA prevede sanzioni da codice penale per i cittadini, anche se definite in modo pericolosamente generico”. Insomma, ACTA è un mostro dai mille tentacoli che rappresenta il trionfo degli interessi particolari e immeritevoli di tutela sulle libertà e sul buonsenso. Come se non bastasse, l’ACTA dà vita al cosiddetto Comitato ACTA, incaricato della supervisione della implementazione del trattato: comitato costituito di membri non eletti e privi di alcun obbligo di rendere conto ai cittadini del proprio operato. Per usare le parole di Electronic Frontier Foundation (EFF) “tanto nella sostanza che nel metodo, ACTA incarna l’obsoleto approccio al governo basato sull'arbitrio e sull'imposizione dall'alto: un metodo sconnesso dalle moderne nozioni di partecipazione democratica”.

Lo scorso ottobre Australia, Canada, Giappone, Corea del Sud, Marocco, Nuova Zelanda, Singapore, oltre agli Stati Uniti, hanno approvato ACTA. Lo scorso 26 gennaio a Tokyo, i rappresentanti di 22 Stati membri dell'Unione europea (Austria, Belgio, Bulgaria, Republica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia e Regno Unito) hanno a loro volta apposto la loro firma sotto il testo dell'ACTA. A differenza di quanto accade negli USA, l’Unione Europea sta trattando ACTA come un accordo vincolante, il che può essere una buona notizia, dato che implica l’obbligo dell’approvazione da parte del Parlamento Europeo, previsto per la metà del prossimo giugno.

In ogni caso, non sono mancate le proteste, anche clamorose, specialmente nella Repubblica Ceca e in Polonia. Al grido di “Hollywood non scriverà le nostre leggi”, centinaia di rappresentanti del partito pirata si sono ritrovati nelle piazze ghiacciate di Praga per dimostrare contro l’adesione al delirante trattato da parte del governo della Repubblica Ceca. In Polonia, dove a sfilare in piazza contro ACTA sono stati in migliaia, i deputati del partito libertario Movimento Palikot si sono presentati in parlamento indossando una maschera di carta modellata da quella di V, il protagonista del film “V per Vendetta” del 2005, oggi “marchio di fabbrica” della galassia “anti-Wall Street” e del movimento di hacker etici “Anonymous”.

Non tutti hanno dimostrato uguale intelligenza: quando l’ambasciatrice slovena in Giappone Helena Drnovšek Zorko ha firmato l’ACTA il 26 gennaio, le si è abbattuta contro una comprensibile tempesta di proteste. A quel punto la signora ha ammesso di “aver agito con leggerezza dal punto di vista delle mie responsabilità istituzionali” e di “aver perso l’opportunità di esercitare l’obiezione di coscienza, ammessa anche per noi burocrati”. C’è da sperare che al Parlamento Europeo le cose vadano diversamente e che i deputati dimostrino per una volta di essere rappresentanti dei cittadini anziché servi del potere economico. Noi italiani, per dire, abbiamo firmato - senza pensarci troppo su, e senza pentimenti postumi.

di Mario Braconi

Come noto, lo scorso 19 febbraio il Federal Bureau of Investigation ha chiuso il Megaupload e spiccato una serie di ordini di cattura a carico delle figure apicali delle società che controllavano il popolare sito: Finn Batato, Julius Bencko, Sven Echternach, Mathias Ortmann, Andrus Nomm, Bram van der Kolk (detto anche Bramos), oltre naturalmente a Kim Dotcom (conosciuto anche come Kim Schmitz e Kim Tim Jim Vestor), fondatore, ex amministratore delegato e attuale Capo dell’Innovazione del sito oscurato.

Dotcom, Batato, Ortmann e van der Kolk sono stati arrestati dalla polizia di Auckland (Nuova Zelanda), sulla base di un “provisional arrest warrant”, un dispositivo giudiziario utilizzabile quando c'è il rischio che l'imputato fugga, e che comporta la detenzione nel paese terzo fino all'estradizione. Lo scorso giovedì Finn Batato and Bram van der Kolk sono stati rilasciati su cauzione, mentre Andrus Nomm è stato arrestato dalla polizia olandese. Gli altri due uomini sono attualmente ricercati.

Nel corso dell’operazione, la polizia neozelandese ha perquisito una decina tra uffici e abitazioni private, compresa l'ormai leggendaria dimora di Kim Dotcom, stipata di giocattoli costosi che non sfigurerebbero in un video di rapper molto buzzurri: video al plasma fino a 100 pollici, auto di grossa cilindrata (tra cui una Rolls Royce coupé), personalizzate con targhe esilaranti - (MAFIA, HACKER, GUILTY (colpevole) - GOD (Dio), GOOD (buono, o bene), EVIL (cattivo, o male)  -, un elicottero privato, una statua del mostro cinematografico Predator...

L’offensiva lanciata dalla FBI in seno al National Intellectual Property Rights Coordination Center (IPR Center), con il coordinamento dell’Ufficio Immigrazione e delle dogane degli Stati Uniti deve essere stato un vero mal di testa giudiziario: basti pensare che la società accusata ha sede ad Hong Kong, alcuni degli  imputati vivono in Nuova Zelanda (anche se hanno nazionalità tedesca e slovacca, e residenze, spesso doppie, oltre che in Germania, ad Hong Kong, in Turchia, in Estonia, e nei Paesi Bassi).

Per dire, Kim Dotcom (per quanto assurdo, questo è il nome del capo di Megaupload) è residente sia ad Hong Kong che in Nuova Zelanda, e ha cittadinanza finlandese e tedesca. Come spiega tronfio il comunicato stampa del Dipartimento di Giustizia del 19 gennaio, gli arresti non sarebbero stati possibili senza i contributi delle polizie e delle autorità giudiziarie neozelandese, hong-kongese, olandese, britannica, tedesca, canadese e filippina. Il tallone d'Achille del colosso è stata infatti la sua infrastruttura tecnologica: Megaupload disponeva infatti di 525 server in Virginia (USA) e di altri 630 in Olanda.

Ma quale reato ha spinto gli zelanti funzionari del Federal Bureau of Investigation a scatenare una caccia grossa tanto complicata e (vedremo) dagli esiti tanto incerti? Si tratta forse di terrorismo internazionale? Che i signori finiti alla sbarra in Nuova Zelanda siano coinvolti nel contrabbando di materiale radioattivo? O si trovino alla testa di una rete di adescatori di bambini? Niente di tutto questo. Secondo le accuse del Bureau, Dotcom e compagni avrebbero messo in piedi una geniale macchina per far soldi violando le leggi del diritto d’autore. A questo punto, forse è meglio fare un passo indietro e spiegare di che cosa si occupasse Megaupload.

Ufficialmente il sito offriva ai suoi clienti un “armadio digitale”, ovvero uno spazio su internet per poter condividere file di grandi dimensioni che non potrebbero essere inviati per e-mail. Ovviamente questa struttura offre la possibilità di caricare (e quindi di condividere illegalmente con altri “soci” del sito) materiale coperto da copyright. L'iscrizione a Megaupload era gratuita, ma, pagando una quota, era possibile rendere magicamente più veloci i download.

All'apice del suo successo Megaupload aveva ben 150 milioni di utenti registrati, 50 milioni di visitatori giornalieri, pari a circa il 4% del traffico internet globale complessivo: numeri difficilmente compatibili con un uso “innocente” da parte di utenti ingenui e ben intezionati, desiderosi, che so, di scambiare con gli amici foto o filmini delle vacanze. Del resto, a quanto risulta all’accusa, Megaupload avrebbe fatto guadagnare illecitamente ai suoi soci ben 175 milioni di dollari tra introiti pubblicitari e quote “vip” (pare che che Dotcom abbia realizzato 42 milioni di dollari nel solo 2010) facendone perdere 500 alle major.

Sarebbe ingenuo pensare che Dotcom e soci siano le verginelle che dietro le sbarre ora fingono di essere (Dotcom, per dire, ha precedenti giudiziari per frode informatica e insider trading): non è certamente esatto sostenere, come fa Dotcom, che essi “non hanno nulla da nascondere”. Tuttavia, di qui a considerarli responsabili di un’associazione criminale dedita ad attività che possono comportare anche venti anni di carcere ce ne passa.

Da un punto di vista etico, i manager di Megaupload “sono diventati multimilionari scroccando le fatiche altrui (proprio come certi magnati della musica e del cinema)” - lo sostiene Paolo Attivissimo, giornalista, blogger nonché infaticabile cacciatore di bufale su internet. Anche se Attivissimo ritiene che la gravità dei capi d'accusa di cui Dotcom e soci sono chiamati a rispondere (tra cui il riciclaggio) li renda impresentabili, al punto che prendere le loro parti sarebbe un autogol per il fronte che si batte per le libertà in Rete.

La cosa curiosa è che diversi artisti in passato non si sono dimostrati ostili a Megaupload, anzi: alcune star del mondo della musica e del cinema, che non potevano ignorare che su Megaupload si scambiava materiale illegale, hanno addirittura prestato il loro volto e la loro voce ad uno spot (tuttora visibile su YouTube) in cui si pubblicizzava il servizio Megaupload, “perché è veloce da morire” e “perché è gratis”... Tra loro Puff Daddy, Kim Kardashian, Snoop Dogg, Chris Brown, Kanye West, Jamie Foxx, Smary J Blidge, Alicia Keys e suo marito, Swizz Beatz, rapper e produttore americano, nonché … amministratore delegato di Megaupload (anche se a suo carico non è stato mossa nessuna accusa, finora: che sia perché è cittadino americano?). Il suddetto video promozionale ovviamente ha fatto infuriare l’Associazione dei Discografici Americani, la RIAA (Recording Industry Association of America), ovviamente convinta che gli artisti sotto contratto delle major siano delle bestie da soma, e che non debbano far pubblicità a nulla, a meno che a loro non convenga.

La cosa divertente è che a suo tempo Megaupload ha realizzato e messo a disposizione delle major uno strumento informatico per individuare e rimuovere i contenuti piratati sul suo sito: ad un certo punto, secondo quanto riportato dal sito Ars Technica, la Time Warner buttava giù circa 2.500 link “illegali” al giorno; dietro l'insistenza della società, Dotcom si sarebbe addirittura spinto a raddoppiare questo numero. Dotcom avrebbe inoltre negoziato con la Universal un accordo relativo alla gestione dei diritti, e si sarebbe fatto parte attiva contro i siti concorrenti di Megaupload che a suo dire avrebbero violato i diritti d'autore: il tutto è provato da una e-mail che lo scaltro manager tedesco-finlandese avrebbe scritto a PayPal, annunciando una prossima azione legale contro di essi.

L'atteggiamento (almeno apparentemente) cooperativo e dialogante di Dotcom con le major, e comunicazioni come quella sopra citata a PayPal renderanno molto difficile provare oltre ogni ragionevole dubbio che alla Megaupload fossero consapevoli di commettere scientemente e reiteratamente dei reati. Certo, sono venuti fuori nei giorni scorsi scambi e-mail e chat tra dipendenti che potrebbero risultare imbarazzanti; ed è anche vero che, per ogni link ufficialmente rimosso ne rimanevano in piedi altre decine, che continuavano a puntare sul materiale illegale. Così come è vero che non esisteva all'interno del sito un motore di ricerca degno di questo nome, perché avrebbe reso le violazioni esplicite; e che la lista dei più “scaricati” era invariabilmente taroccata. Tuttavia, con gli eccellenti avvocati su cui può contare Dotcom, potrebbe non risultare impossibile provare che al più egli sarebbe un ingenuo e/o un pessimo imprenditore...

Al di là della questione giudiziaria e senza innalzare Dotcom al ragno di vittima innocente (perché tale non è) il dato incontrovertibile è che la serrata di Megaupload e gli arresti dei suoi soci arrivano in un momento storico segnato dalla follia delle major, che, pur di proteggere i propri interessi, non hanno esitato a prendere in ostaggio il Congresso americano. Il risultato, come noto, sono le due proposte di legge SOPA e PIPA, che minacciano di limitare drasticamente i diritti digitali di americani e non. Alla levata di scudi generalizzata contro le deliranti proposte di legge, le major rispondono mostrando i muscoli e tentando un'azione di blando terrorismo. Tra i fornitori di servizi simili a Megaupload si respira già un’atmosfera di panico, mentre è tutta da chiarire la ragione per la quale tutti coloro che condividevano materiale legale su Megaupload siano stati privati dei loro beni digitali dalla FBI, che per questa ragione sembra si sia beccata una denuncia da parte del Partito Pirata spagnolo.

Non sembra casuale, poi, la scelta di un operatore i cui manager risiedevano in un piccolo paese come la Nuova Zelanda, con cui gli Stati Uniti possono forse fare la voce grossa senza il timore di gravi conseguenze. Tuttavia sembra che anche questa volta la grande industria USA abbia vagamente sottovalutato il nemico. Al di là della maschera dello spaccone, Dotcom tutto sembra fuorché un nerd sprovveduto che ha fatto (centinaia di) milioni di dollari quasi per caso. C'è da scommettere che le major dovranno soffrire ancora molto prima di cantare vittoria. Se mai ci riusciranno.

di Mario Braconi

Come noto, negli USA, le due proposte di legge contro la pirateria digitale in discussione al Senato e alla Camera dei Rappresentanti hanno dato vita ad una mezza rivoluzione: sembra ormai chiaro che alla grande maggioranza dei cittadini americani l’idea di far gestire la propria libertà di espressione e di parola alle major dell’intrattenimento proprio non vada giù. Se negli USA dovesse essere approvata una legge del tenore di SOPA o PIPA, infatti, un provvedimento dell’autorità giudiziaria richiesto dalla parte presumibilmente lesa potrebbe portare in pochissimi giorni alla chiusura dei siti sospettati di consentire la fruizione illegale di materiale coperto da copyright.

Non solo: secondo alcuni commentatori americani, verrebbe rovesciato il modus operandi  dell’attuale legislazione in materia (il Digital Millenium Copyright Act, o DMCA). Il DMCA garantisce all’internet provider la possibilità di non incorrere nei rigori della legge qualora accetti volontariamente di rimuovere i contenuti di cui viene contestata dal proprietario la legittimità di fruizione (questa scappatoia si chiama “safe harbor”, ovvero porto sicuro... dai guai giudiziari).

Secondo gli oppositori dei progetti paralleli di legge, invece, l’obiettivo è quello di rovesciare su chi gestisce il sito l’onere della vigilanza sui contenuti; non sarebbe insomma sufficiente ottemperare celermente alla richiesta di ristoro da parte un presunto danneggiato. Per non rischiare guai legali seri, occorrerebbe controllare che ogni singolo contenuto caricato dagli utenti non violi le leggi sul diritto d’autore. Una follia che, infatti, è riuscita a mettere assieme un fronte di oppositori smisurato ed estremamente eterogeneo, che va dagli hacker anarchici ad una coalizione di big corporation internet, tra cui Google, Facebook, Twitter, Mozilla ed Ebay)...

Grazie all’aumento di consapevolezza collettiva guadagnato grazie al tam-tam su internet (la stampa, per ragioni di conflitto d’interesse, si è tenuta generalmente a distanza da questa storia giornalistica) tutti i politici americani che in qualche modo hanno sostenuto o espresso simpatia per le norme liberticide contenute in SOPA e PIPA sono diventati rapidamente oggetto di pubblica esecrazione.

Non mancano i contributi creativi, come ad esempio l’applicazione per iPhone che, attraverso la lettura del codice a barre dei prodotti che stiamo per comprare ci avvisa se stiamo o meno dando soldi ad un sostenitore della censura di stato su internet. Né quelli militanti, come lo “sciopero” messo in atto lo scorso 18 gennaio da Wikipedia in lingua inglese e Reddit, assieme ad alte centinaia di siti meno noti ma molto frequentati.

Le corporation che dettano legge alla Casa Bianca sono scatenate: non solo vorrebbero incatenare l’intero popolo americano, ma in qualche modo stanno costringendo i diplomatici americani a ricattare in ogni possibile modo anche i governi stranieri percepiti come meno interessati alla repressione della violazione dei diritti d’autore del materiale made in USA.

Dopo le lamentele e le minacce di ritorsioni dell’ambasciatore americano (di cui abbiamo avuto notizia grazie a Wikileaks), il nuovo esecutivo spagnolo ha deciso di compiacere lo zio Tom approvando la cosiddetta legge Sinda. Così la Spagna è finita nel club dei paesi che la Electronic Frontier Foundation definisce “dei punti di strangolamento globali” della Rete.

Il governo italiano, che non si fa fatica a definire espressione pura del padronato (banche, finanze, corporation), non poteva essere da meno. Giovedì 19 gennaio è stato approvato dalla XIV Commissione Permanente per le Politiche dell’Unione europea alla Camera l’emendamento dell’On. Fava alla proposta di legge Centemero (ed altri) “in materia di responsabilità e di obblighi dei prestatori di servizi della società dell'informazione e per il contrasto delle violazioni dei diritti di proprietà industriale operate mediante la rete internet”.

Curioso, per inciso, constatare come la Lega, partito di estrema destra populista, in questo caso abbandoni il suo antiamericanismo, abbracciando la lucida follia che anima i politici americani che hanno concepito SOPA e PIPA. Forse l’idea di poter intervenire direttamente a castigare un sospetto “pirata digitale” senza perdere tempo a capire con un processo se sia colpevole o meno deve avere eccitato il peone Fava fino a confonderlo.

Sia come sia, grazie al suo prezioso emendamento, concepito in puro stile SOPA, quando un qualsiasi “soggetto interessato” dichiari che un dato contenuto in Rete viola il suo diritto d’autore, al provider conviene rimuoverlo alla svelta: se infatti non lo facesse potrebbe anche essere considerato complice del violatore, al pari dell'inserzionista che faccia pubblicità sul sito che, secondo un “soggetto interessato”, non un giudice, ripetiamo, starebbe violando la legge sul copyright.

Come spiega l’avvocato Guido Scorza, siamo di fronte al tentativo di “privatizzazione della giustizia che affida la libertà di manifestazione del pensiero sul web all’assoluta discrezionalità di soggetti privati: il segnalante, libero di chiedere la rimozione di ogni contenuto “sgradito” e il provider, obbligato ad assecondare la richiesta o ad assumersi in prima persona la responsabilità della eventuale effettiva illegittimità di un contenuto che non ha prodotto, non conosce, non può valutare”.

L'emendamento Fava, come del resto i parenti americani che l'hanno ispirato, è una delle più chiare dimostrazioni dell'aperto fastidio che il mondo degli affari oggi sembra provare nei confronti delle garanzie normalmente offerte dai sistemi giudiziari ai presunti colpevoli; le quali vengono a quanto pare, negli USA e ora anche in Italia, sono considerate un fastidioso impaccio per l'agenda dei “manovratori”.

Come è accaduto in Spagna per la legge Sinda, anche l’emendamento Fava è la conseguenza di pressioni diplomatiche da oltre Oceano. Che l’interessato, che in questi giorni “casualmente” sta incontrando negli USA diversi politici sostenitori di PIPA e SOPA, non fa nemmeno il tentativo di nascondere. Ha dichiarato al Corriere della Sera che “qui negli Usa mi hanno chiaramente detto che se non regoliamo il settore, i dazi commerciali rimarranno altissimi”.

di Mario Braconi

Qualcosa deve essere scattato nella testolina di Rupert Murdoch lo scorso venerdì, mentre partecipava al Consumer Electronics Show di Los Angeles; è successo proprio durante la presentazione di Google TV, il servizio del gigante di Mountain View che, grazie ad un piccolo aggeggio elettronico, consente di vedere contenuti internet direttamente sul televisore del salotto.

Mentre lo speaker di Google spiegava il modo in cui si può andare a caccia di film e serie TV su Google TV, il vecchio tycoon ha chiesto quale esito darebbe la ricerca di un film di grande cassetta su Google TV (c’è chi dice che il titolo proposto fosse “Mission Impossible 4, Ghost Protocol”, chi invece, forse ironicamente, “I Pirati dei Caraibi”). “Lo stesso che si avrebbe con una normale query sul motore di ricerca”, è stata la risposta. Murdoch incalza l'interlocutore: “Google suggerirebbe anche link a siti che contengono materiale piratato?”. La risposta è stata la peggiore che si potesse immaginare: “Certamente, a meno che i siti non siano stati rimossi dai risultati di ricerca [in seguito ad un ordine dell’autorità giudiziaria]”.

Sembra che a quel punto il disappunto di Murdoch sia stato evidente. Non solo: la sua rabbia e frustrazione hanno continuato a defluire attraverso Twitter, dove si è espresso con la delicatezza e la diplomazia che contraddistinguono da sempre il personaggio: “Google è il re della pirateria, trasmette streaming gratuito di film e fa i soldi con la pubblicità: non c’è da meravigliarsi del fatto che investa milioni in attività di lobby”.

Non che sia troppo da stupirsi: da sempre i rapporti tra Google e il Citizen Caine dei nostri giorni sono tesi. Nel 2009, per dire, Murdoch dichiarò: “L’intero modello Google è basato sulla slealtà digitale. Tutto quello che fanno è il risultato di slealtà nei confronti dei creatori [di contenuti].” La polemica, allora, era causata dal fatto che Google, al pari di alcuni importanti siti che fungono anche da aggregatori (come The Drudge Report e The Huffington Post), genera una quantità formidabile di contatti sui siti di news, che però non producono entrate finanziarie per i destinatari. Un po' come avere un predicatore formidabile che riempie la chiesa, ma che non fa guadagnare un centesimo al prevosto... E’ questo il delitto più grande, almeno dal punto di vista del nostro formidabile Paperon de’ Paperoni degli antipodi, il quale non ha caso controlla due grandi giornali (il britannico The Times e l’americano Wall Street Journal), ai cui articoli online di accede solamente dopo aver sganciato dei soldi.

Ovviamente, la natura della relazione tra editori tradizionali e Google è complessa ed ambivalente: Murdoch potrà anche mangiarsi il fegato perché Mountain View non gli consente di spremere ogni dollaro / euro / sterlina possibile dai suoi potenziali clienti (anzi, magari gliene prende qualche centesimo). Eppure è difficile snobbare un attore così potente, ubiquo (“atmosferico”, scrive Anthony Wing Kosner su Forbes). Non a caso, sbollita la rabbia, il cinguettio successivo appare meno emotivo: “Google è una bella società che fa un mucchio di cose interessanti. Ho solo una lamentela, però importante”.

Come osserva Kosner, internet ha dimostrato il fallimento del modello economico basato su “comando e controllo”, che peraltro traspare con chiarezza dalle assurde proposte di legge contro la pirateria online attualmente allo studio presso le due camere del Congresso USA. La cosa ironica, però, è che “molti di coloro che sostengono lo Stop Online Piracy Act sono fieri sostenitori dei mercati totalmente liberi, almeno finché non siano a rischio i loro interessi particolari”.

Ed effettivamente Murdoch è tra i più convinti sostenitori dei due progetti di legge in corso di esame al Senato alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America (noti come PIPA e SOPA): si tratta di bozze (mal) scritte sotto la dettatura delle major, che, oltre a dimostrare un'invincibile ignoranza dei meccanismi dell'economia digitale (non risolvono infatti la questione della pirateria online), rappresentano una concreta minaccia alle libertà civili negli USA e nel mondo.

Secondo quanto risulta allo Huffington Post (non certo tenero con il magnate australiano, che con buone ragioni considera una reale minaccia alla libertà e alla democrazia globali) l’anziano tycoon avrebbe fatto attività di lobbying per sostenere entrambi i progetti di legge; di più, avrebbe perfino incontrato personalmente Mitch McConnell il Minority Leader repubblicano al Senato, estensore di un indirizzo di buon senso, con cui ha chiesto alla maggioranza al Senato di “riconsiderare la sua decisione di andare avanti con questa proposta di legge”, a causa della sua problematicità.

Nel frattempo, lo scorso giovedì la filiale britannica della News Corp ha dato il via ad una prima serie di rimborsi alle vittime della sorveglianza illegale subita per anni per mani di giornalisti delle testate popolari che facevano capo al gruppo di Murdoch (The Sun e News Of The World, che ha chiuso lo scorso luglio proprio a causa dello scandalo). Se il denaro ha cominciato a defluire dai forzieri di Rupert il significato è uno solo: come spiega un comunicato della stessa News Corp, “la società ammette che i manager e dirigenti della NGN (che controllava News of The World, oltre che al blasonato The Times ndr) erano a conoscenza degli illeciti commessi dai loro sottoposti e che essi hanno tentato di nasconderli ingannando deliberatamente gli investigatori e distruggendo prove”.

Le richieste d’indennizzo già pervenute sono per il momento una sessantina, ma fonti della polizia parlano di un numero di potenziali vittime vicino alle 6.000 unità. Si tratta di una vicenda sordida, costellata di episodi davvero esecrabili: intercettazioni illegali di telefonini in uso a vittime e/o parenti di vittime di assassini pedofili, e/o di soldati tornati in patria in posizione orizzontale dentro una busta di plastica; cancellazione di messaggi in segreteria al fine di permettere nuove registrazioni da rubare, corruzione di ufficiali di polizia, pedinamento fisico di personaggi celebri (e dei loro figli minorenni) perfino fuori dai confini del Regno.

Il tutto per fornire carburante rigorosamente umano all’oscena macchina di quella stampa che non può essere definita che con le immortali parole del poeta latino Catullo: “cacata carta”. Sarà anche carta igienica quella che gonfia di bigliettoni le tasche di Murdoch, ma il vecchio finora gli è stato affezionato. Per dirne una, l’amicizia non troppo disinteressata di Murdoch con l’attuale premier conservatore Cameron ha finito per mettere quest'ultimo seriamente in imbarazzo, al momento in cui si è dovuto prendere come spin-doctor Andy Coulson, ex capo-redattore di News Of The World, enfant prodige, visino da primo della classe e temperamento da teppista in gessato grigio.

Almeno a quanto risulta dai processi, il capo della comunicazione dei Conservatori e poi perfino del Primo Ministro è stato il vero deus ex machina dell’infame macchina di News Of The World. Coulson, almeno ha ammesso le sue colpe, ha perso tutto e si è fatto anche un breve passaggio nelle galere del Regno. Rupert, invece, è imperterrito e gli avanza tempo per dire che Google è “un'azienda di ipocriti”.


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