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di Sara Michelucci
Massimo Dapporto è Otello, nello spettacolo teatrale firmato da Nanni Garella, il quale ha deciso di “rivisitare” il capolavoro shakespeariano mettendo in evidenza lo scontro fra Oriente e Occidente. Il Moro di Venezia è una delle figure più celebri del teatro, simbolo di quella fragilità a cui la gelosia può far cedere un uomo, anche se egli rappresenta un valoroso combattente. Dapporto si cala nei panni di un uomo vinto dal dubbio nei confronti della sua giovane moglie, Desdemona, interpretata da Lucia Lavia.
Sicuramente ben riuscita l’interpretazione di Maurizio Donadoni, che è Iago, l'infido alfiere che tenta in vari modi di far destituire il luogotenente Cassio, riuscendoci infine con uno stratagemma, grazie all'aiuto di Roderigo. Attraverso la moglie Emilia, ignara di ciò che suo marito sta architettando, Iago fa arrivare un fazzoletto regalato da Otello a Desdemona, nelle mani di Cassio, convincendo il Moro del tradimento della bella moglie. Le false difese di Cassio da parte di Jago, e le sue studiate reticenze, sono parte di quell’opera di persuasione che poi porterà Otello a uccidere Desdemona nel letto nuziale, accecato dalla gelosia.
“Non una tragedia della gelosia, ma un dramma d’amore, in cui il protagonista si trova preda di un sentimento tanto potente da fargli perdere la ragione”, afferma il regista Nanni Garella che descrive il suo Otello come “un grande dibattito sulla fragilità della natura umana”.
Si va oltre, allora, al tradizionale tema della gelosia, toccando argomenti come il pregiudizio razziale, lo scontro tra Occidente e Oriente, la fragilità umana e la complessità dei rapporti di coppia. Due mondi che si contrappongono, allo stesso modo dei punti di vista di Otello e Iago. La bellezza, l’armonia, la nobiltà e la lealtà di Otello si scontrano con la disonestà di Iago, che pensa ad un mondo volgare e senza nessuna ideologia, dove regna l’arrivismo e la smania di potere.
“Nell’Otello di Shakespeare - scrive il regista nei suoi appunti di drammaturgia - alla fine perdono tutti, i nobili e i malvagi: Desdemona, Emilia, Roderigo assassinati, Otello suicida, Iago travolto dai suoi stessi inganni e dalle sue trame scellerate. Tutti fanno scelte sbagliate. Il mondo non ritrova il suo equilibrio, dopo l’atto estremo di Otello e il sacrificio di sua moglie: come dopo un’eclissi di sole e di luna - stralcio simbolico di una immagine barocca - l’uomo resta sotto un cielo vuoto”. Insomma non ci sono vincitori, ma solo vinti.
Dapporto è stato scelto dalla produzione in sostituzione di Alessandro Haber, cacciato dal cast a pochi giorni dalla prima dopo una furente lite con la Lavia. Forse ci si aspettava un Otello più vigoroso, nonostante Dapporto sia un attore navigato che sa ben dosare gestualità, parole e presenza scenica.
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di Mario Braconi
Un recente scritto dello scrittore premio Nobel Gunther Grass, ospitato la scorsa settimana sul quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, ha provocato un putiferio in Israele: si tratta di un insolito componimento poetico, che in effetti suona più come un breve pamphlet politico, nel quale l’intellettuale ottantacinquenne, partendo dal senso di colpa tedesco legato al disastro nazista, si esercita su quella che egli sente come un’urgenza (politica, ma anche umana, esistenziale): fornire un contributo alla sterilizzazione di quello che egli correttamente identifica come il più pericoloso focolaio di infezione bellica globale, ovvero la recente escalation della tensione nucleare tra Israele e Iran.
Le parole di Grass sono state ricevute nello stato ebraico come il sale su una ferita: non poteva essere diversamente, in un paese, che pur essendo l’unica democrazia del Medio Oriente, sembra al momento ostaggio di un manipolo di politici destrorsi irresponsabili e imbevuti di retorica belligerante, sostenitori del “tanto peggio, tanto meglio”.
Ad aprire le danze, inevitabilmente, il commento del Ministro degli Esteri Avigor Lieberman, che, commentando le scomode esternazioni di Grass, non si è fatto sfuggire la ghiotta occasione per sputacchiare in giro un po’ di paranoia: oggetto della sua esecrazione “l’egoismo dei cosiddetti intellettuali occidentali, che ancora una volta desiderano sacrificare il popolo ebraico sull’altare di pazzi anti-semiti, solo per vendere qualche libro in più ed accreditarsi [come filoarabi doc]”.
Di certo Liberman parla per esperienza personale ed attingendo al suo repertorio politico, quando conclude la sua tirata condannando i “piccoli semi di odio, che accendono grandi incendi”. A nulla sono servite le parole di Grass, che domenica, in un’intervista “riparatrice” ad un giornale tedesco, ha ribadito che obiettivo polemico della sua poesia “Ciò che deve essere detto” non è il popolo ebraico, ma il governo israeliano. Il quale, per tutta risposta lo ha dichiarato “persona non grata”, vietandogli l’ingresso nel Paese.
Tra gli argomenti impiegati senza risparmio da chi intende crocifiggere Grass c’è quello secondo cui una critica al governo israeliano equivarrebbe ad un appoggio incondizionato al governo iraniano. Ad esempio, sulle parole di Grass si è così espresso il ministro degli interni israeliano Yishai: “se Gunther desidera continuare a pubblicare i suoi lavoro falsi e distorsivi, gli consiglio di andare a farlo in Iran, dove troverà un pubblico che lo accoglierà con calore”.
A lui, come a tutti gli altri politici israeliani che gareggiano tra loro a chi è il più oltraggiato deve essere sfuggito il passaggio della poesia di Grass nella quale egli scrive: “Ho rotto il mio silenzio / perché sono disgustato dall’ipocrisia dell’Occidente / e spero pure che molti vengano liberati / dal loro silenzio, e possano chiedere che / i responsabili di questo chiaro pericolo / che stiamo affrontando rinuncino all’uso della forza, / ed insistano a pretendere che tanto il governo / israeliano che quello iraniano autorizzino una autorità internazionale / ad effettuare ispezioni libere ed aperte del potenziale e delle capacità belliche di entrambi i paesi.”
Ciò che però brucia particolarmente ai politici israeliani e a tutti quelli che vogliono apparire campioni dell’amicizia con il governo israeliano indipendentemente dalle misure che esso pone in essere, è ovviamente considerare la democrazia israeliana e la dittatura teocratica iraniana alla stessa stregua. Un’argomentazione in teoria anche sottoscrivibile, se non fosse per un piccolo dettaglio: ovvero che una democrazia si dovrebbe valutare non tanto in base al punteggio ottenuto al club del Primo mondo, quanto piuttosto sulla valenza democratica dei suoi atti politici.
Ecco, pur riconoscendo la positiva peculiarità della presenza di un parlamento in Israele, non si possono passare sotto silenzio i risultati pratici che tale democrazia al momento sta dimostrando di produrre: l'assedio ai palestinesi, sempre al limite di trasformarsi in guerra totale, il sostegno agli insediamenti a dispetto di qualsiasi legalità, e, per finire, la minaccia dell’uso di armi nucleari contro uno stato islamico nemico vicino per... impedirgli di accedere alle medesime tecnologie belliche.
Tutto questo solo per ribadire l'ovvia considerazione che la democrazia è un metodo ideale, che però non garantisce, anzi talora cospira attivamente contro, la pace. Senza contare che, per tornare alla querelle sorta attorno al caso Grass, un paese realmente democratico non dovrebbe temere le idee, anche e soprattutto quelle non confortanti. Non dovrebbe abbassarsi al rango di un qualsiasi regime dittatoriale vietando ad un intellettuale di attraversare i suoi confini per incontrare i suoi cittadini, per dibattere, anche vivacemente se necessario, le sue idee, non importa quanto controverse e/o non gradite esse possano risultare.
Ad esempio, in un altro passo della sua accalorata omelia, Grass chiama a responsabilità i tedeschi, mettendoli in guardia contro i danni che potrebbero provocare rendendosi complici, con le loro esportazioni di materiale bellico in Israele, di un crimine che è già visibile, e la connivenza con il quale non potrà essere respinta in futuro con “le solite scuse”. Non risulta che tali parole abbiano destato particolari reazioni in Germania, né che Grass sia stato sottoposto a qualche forma di censura formale o meno per le sue parole, non meno urticanti rispetto a quelle destinate a Israele e all’Iran.
Fermo restando il pieno appoggio allo scrittore tedesco, e la denuncia di ogni forma di censura (di stato o non), resta però un dato: Gunter Grass, la cui biogafia è obiettivamente macchiata dalla militanza giovanile in un corpo nazista, avrebbe certamente reso un miglior servizio alla sua condivisibile causa pacifista se avesse lasciato ad altri intellettuali, ugualmente “visibili” dal punto di vista mediatico, ma meno compromessi storicamente, il suo sfogo appassionato e sincero.
Israele ha infatti avuto gioco facile a ridurre la portata dei ragionamenti di Grass alle esternazioni antisemite di un ex nazista: non a caso, per impedirgli l’accesso al paese, si è fatto leva proprio non sul contenuto delle sue recenti esternazioni, ma su una legge israeliana che prevede questa misura nei confronti di chiunque si sia in qualche modo compromesso con il regime nazionalsocialista tedesco.
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di Sara Michelucci
È quel genio pazzo e arrabbiato di Charles Mingus a ispirare il nuovo lavoro dei Quintorigo che propongono un originale melange di suoni e generi: dal classico al rock, dal punk al blues. È la commistione l’elemento che piace ed entusiasma e sui cui il gruppo sapientemente costruisce lo spettacolo, con pezzi che strappano numerosi applausi.
La stessa commistione cara a Mingus, che studia il trombone e il violoncello prima di passare al contrabbasso e che era ossessionato dagli atteggiamenti di razzismo nei suoi confronti, sia da parte dei bianchi che dei neri, viste le sue origini meticce. Questo gli darà una spinta in più che lo condurrà verso il successo.
Quintorigo Play Mingus è l’ultimo spettacolo che Visioninmusica propone, già protagonista di una fortunata tournée nei più prestigiosi teatri e festival d’Italia, con il quale i Quintorigo hanno trionfato nel referendum Top Jazz come migliore formazione jazz, oltre a piazzare il relativo album fra i migliori tre dell’anno. Il gruppo propone al pubblico una rilettura moderna e affascinante di uno dei più innovativi geni del jazz moderno.
Il progetto nasce proprio a 30 anni circa dalla scomparsa del grande contrabbassista e nel concerto vengono proposti gli arrangiamenti in stile Quintorigo dei brani più celebri di Mingus, affiancati dalle letture di alcuni passi significativi della sua autobiografia e alcuni elementi scenografici che danno un quid in più all’esibizione. Quasi un dialogo, quello che si crea, tra i Quintorigo e Mingus, fra jazz e contaminazioni. Un modo altro per offrire anche uno spaccato sulla società americana dell’epoca, con elementi politici, di costume e razziali ben connotati.
La soluzione scenografica porta indietro nel tempo, all’epoca dei jazz club newyorkesi anni ’50 e l’intercalare tra musica e letture aiuta a ricomporre il complesso puzzle Mingus. Un’attenta riflessione, dunque, mossa da un amore incondizionato da parte del gruppo nei confronti del musicista e dell’uomo Charles Mingus.
I tributi al genio del jazz esistono, come quelli di Joni Mitchell e Bill Frisell, ma nessuno ci si era mai cimentato in Italia. Non esiste nemmeno un’opera monografica sul grande compositore, nella sua esperienza artistica ed esistenziale. Per questo il gruppo ha deciso di dar vita a questo progetto organico, con l’intento preciso di far conoscere al vasto pubblico del jazz (e non solo) una consistente parte dell’opera di Mingus. Quintorigo play Mingus è quindi un progetto articolato, che si muove e si sviluppa tra il disco e le esibizioni dal vivo.
I Quintorigo si fanno conoscere al grande pubblico partecipando al Festival di Sanremo 1999 con il pezzo dal titolo Rospo. Lo stesso anno vincono il Premio Tenco e si presentano nuovamente a Sanremo nel 2001 con Bentivoglio Angelina. Nel 2005 John De Leo (voce) si separa dal gruppo e da questo momento i Quintorigo si dedicano al progetto su Charles Mingus con la voce femminile di Luisa Cottifogli. Dal 2008 inizia la collaborazione con il cantante Luca Sapio.
Fra le collaborazioni più importanti ricordiamo quelle con Roberto Gatto, Franco Battiato, Enrico Rava, Gabriele Mirabassi (presente in uno degli ultimi spettacoli all’auditorium Gazzoli di Terni), Antonello Salis, Carmen Consoli e Ivano Fossati. E, come ha detto il grande Mingus, “Anyone can make the simple complicated. Creativity is making the complicated simple” (Chiunque può rendere complicata una cosa semplice. La creatività è rendere semplice una cosa complicata).
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di Sara Michelucci
La musica è uno degli elementi fondamentali dei film firmati dal grande regista Stanley Kubrick. Strumento centrale, che accompagna il racconta e sottolinea i momenti ‘sacri’ del film. Tutti ricorderanno il “Ludovico Van” di Alex che celebra la sua ultraviolenza in Arancia Meccanica, o lo swing dolce che sancisce la chiusura de Il dottor Stranamore.
Immagine e suono danno vita a un connubio unico nei film di Kubrick, raccontano a loro volta sentimenti e danno vita a situazioni, stravolgendo tutto ciò che è convenzionale. La musica è utilizzata come qualcosa che taglia in due i personaggi e svela quello che c’è dietro. E la musica è l’elemento ispiratore di Ears Wide Shut, idea nata un paio di anni fa tra quattro amici cinefili e cultori di Stanley Kubrick: Stefano Senni, Mauro Campobasso, Mauro Manzoni, Pino Bruni.
Tra chiacchiere a ruota libera, discussioni appassionate e giochi dell’immaginazione maturò l’idea di realizzare un montaggio di sequenze dai film di Kubrick per musicarlo con una nuova colonna sonora: il tutto in un concerto multimediale. Il progetto è stato prodotto dalla “Società del teatro e della musica Luigi Barbara” di Pescara, nell’ambito della stagione 2008-2009. Un’idea nata anche sulla scia di una mostra su Kubrick curata a Pescara da Pino Bruni, che aveva fatto incontrare i musicisti con la moglie del registra, Christiane Kubrick e il cognato Jan Harlan. “D’altra parte - dice Stefano Senni - questa prossimità al mondo kubrickiano, la vivevamo già grazie a Emilio d’Alessandro, uno degli storici collaboratori del regista, cui da qualche tempo ci legava e ancora ci lega una profonda e affettuosa amicizia.
Il jazz che accompagna i film (ovviamente muti) è diventato una sorta di sottogenere fortunato. Ma con Kubrick è un’altra storia. Anzitutto si tratta di cinema sonoro: il montaggio, forzatamente senza audio per consentire l’esecuzione della nuova musica, va a eliminare un elemento essenziale dell’opera, che può uscirne snaturata e impoverita”.
Il concerto, penultimo evento della rassegna di Visioni in Musica, utilizza quindi due linguaggi: quello della musica e quello delle immagini che, mute, scorrono sullo schermo. Si guarda e si ascolta, dunque, e lo si fa immergendosi totalmente in un montaggio sapiente che riesce bene a rappresentare tutti i momenti fondamentali del percorso autoriale di Kubrick e in una musica che sa innovare pezzi conosciuti, dando qualcosa in più.
Dai celebri brani classici come il Rossini di “Arancia meccanica” o lo Schubert di “Barry Lyndon”, alle canzoncine stile “I Want to marry a lighthouse keeper” che esce da una radiolina accesa nella casa dei genitori di Alex in Arancia Meccanica, Kubrick inventa un nuovo modo di mettere insieme cinema e musica. Non solo accompagnamento puro e semplice, ma parte integrante e fondamentale della narrazione.
Le danze irlandesi di Barry Lyndon, i pezzi ballabili anni Sessanta in Lolita, il romantico tema d’amore Spartacus e standard come Blame it on my Youth in Eyes Wide Shut sono tutti elementi ispiratori per il quartetto. “Il repertorio kubrickiano preso nel suo insieme può offrirsi quale punto di partenza per nuove musiche - raccolto, smontato, rielaborato - senza che questo stravolga l’originale rapporto con i film. È con questo spirito che è stato creato “Ears Wide Shut”, sviluppato musicalmente sulla traccia visiva montata per associazioni iconografiche e tematiche da Pino Bruni”, aggiunge Senni.
L’esperimento probabilmente sarebbe piaciuto al grande regista americano, che amava la sperimentazione e per secondo cui “Ci sono certe aree del pensiero e della realtà - o dell'irrealtà e dei desideri - che sono chiaramente inaccessibili alle parole. La musica può accedere a queste aree”.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Lo scorrere frenetico delle nostre vite 2.0 raramente ci lascia spazio per apprezzare i dettagli. Tra una ricerca su Google e un update del profilo su Facebook, lanciare un twit con il menù del nostro brunch è spossante. In un certo senso, l'epidemia del Ventunesimo secolo si chiama ADHD, deficit di attenzione e iperattività. Siamo passati dall'era della information technology alla TMI, o come direbbero gli Americani - Too Much Information!
D'altra parte ci sono alcune discipline per cui la cura dei dettagli, persino i più minuscoli, è essenziale. Per esempio la creazione artistica. Ma non ne abbiamo proprio il tempo, dobbiamo controllare le nostre email! In realtà l'arte si presta, come tutte le attività umane, ad un apprezzamento superficiale dalla parte del fruitore... ma può l'artista permettersi di essere approssimativo?
“L'ossessione per i dettagli è nient'altro che Manierismo”, dice Taliesin, pseudonimo curioso per il portavoce dell'Immediatismo. Si tratta di un nuovo movimento artistico il cui motto “L'Italia è morta? Viva l'Italia!” fa la sua prima comparsa all'ArtExpo 2012, in esibizione al Molo 92 a Manhattan. Le opere in mostra, a quanto pare, possono vantare l'apprezzamento del pubblico: Taliesin ha venduto vari quadri già nei primi due giorni della mostra; un risultato non comune, specialmente in questi tempi di crisi nera per il mercato dell'arte.
Un'ottima strategia promozionale è stata senz'altro la scelta di tenere il listino a un livello abbordabile, in confronto ai prezzi esorbitanti della maggior parte degli altri artisti, per quanto emergenti, che spesso raggiungevano le decine di migliaia di dollari. Con il record esorbitante di quattrocentomila dollari per una strutture metalliche sferiche di uno scultore italiano.
Fondatore e artista del movimento dell'Immediatismo, Taliesin è il tipico artista in grado di restare a galla nel tempestoso mercato del lavoro: architetto, scultore, pittore, graphic designer - di tutto un po'. Per arrivare alla quarta settimana bisogna proprio sapersi arrangiare. Taliesin ha portato con sé oltreoceano i suoi attrezzi di artista e fa mostra dello strumento che ha costruito per gocciolare il colore sulle tele. Una via di mezzo tra un catetere e una siringa da pasticciere.
Artisticamente parlando, in cosa consiste questa nuova corrente? Potete trovare sul sito immediatismo.it le immagini dei dipinti in mostra all'ArtExpo. Potremmo definirla hipster art: così laconica da sembrare ironica. Uno strano incrocio tra una versione embrionale del Futurismo e l'ovvia ispirazione del gocciolamento sulla tela alla Pollock, scremato di ogni dettaglio barocco.
Ma il tratto distintivo è nella realizzazione, nel metodo: è arte istantanea. Una creazione al primo colpo, che in un battere di ciglia ci trasmette il messaggio nudo e crudo, senza fronzoli né dettagli. Vi fate un'idea dell'opera con una breve occhiata, per poi tornare a spedire sms ai vostri amici sulla mostra che state visitando.
In un certo senso, l'Immediatismo è l'incarnazione artistica di un curioso effetto noto agli psicologi sotto il nome di peak shift. Quando pensiamo con l'occhio della mente ad una forma complicata, come per esempio ad un volto, in realtà ci basta richiamare alla memoria soltanto i suoi tratti più salienti: occhi, bocca. Se poi veniamo messi di fronte ad uno smiley, quelle faccette rotonde gialle e nere, capiamo istantaneamente che si tratta di una faccia, anche se la somiglianza pixel per pixel tra uno smiley e un volto vero non potrebbe essere più distante.
Ai nostri occhi, il messaggio contenuto nello smiley e persino più pregnante di una fotografia del viso di qualcuno. Se non altro, gli Immediatisti hanno un pregio immediato: bastano pochi secondi per apprezzare la loro opera. Invece di fissare per ore una tela alla ricerca del dettaglio cruciale. Come direbbe Andrea Pazienza, il segno si decifra, l'apparenza non si decifra. E siccome siamo tutti molto impegnati di questi tempi, é una novità che certamente riscuoterà consensi...