di Massimiliano Ferraro
Esattamente cinquant’anni fa, una nave mercantile con a bordo diciannove marinai italiani scomparve nel nulla nel Canale di Sicilia. «Mare in tempesta forza 8», riferì l’ultimo messaggio inviato via radio. Poi il silenzio. Un silenzio assordante che circonda tutt’oggi la verità sul mistero della nave Hedia, dispersa a largo delle coste del Nord Africa il 14 marzo 1962.
Benché la furia del Mediterraneo ispiri da sempre spaventose leggende che tormentano le notti dei marinai, il presunto naufragio della Hedia venne seguito da illazioni e voci contraddittorie che ipotizzarono il siluramento del bastimento da parte della marina militare francese. Un tragico errore, evidenziato qualche mese dopo da una foto che ritraeva alcuni dei marinai italiani imprigionati in Algeria. Riconosciuti «senza possibilità di equivoci» dai familiari, cercati e mai ritrovati. Forse finiti loro malgrado nelle trame di un intrigo internazionale con sullo sfondo la guerra franco-algerina. A distanza di cinquant'anni è giusto provare a sollevare il velo d’oblio steso troppo frettolosamente sulla sorte toccata a quegli uomini, ripercorrendo la storia dimenticata di quello che Gianni Roghi definì sull’Europeo il «più incredibile giallo marinaro di questo secolo».
Un viaggio tranquillo
Per la nave da carico Hedia, 4300 tonnellate di stazza, bandiera liberiana, doveva essere l'ultimo viaggio. Da Ravenna fino in Spagna e ritorno con uno scalo intermedio a Casablanca. Poi basta, la società armatrice, la Compagnia Naviera General S.A. di Panama, aveva intenzione di farla rottamare. Quarantasette anni in mare erano troppi persino per una robusta barca di fabbricazione svedese, appena revisionata e apparentemente in buone condizioni.
La mattina del 16 febbraio 1962, sotto il cielo grigio della costa romagnola, la Hedia prese il largo con a bordo venti persone: diciannove italiani e un gallese. La cronaca di quei giorni trasmessa puntualmente via radio dal comandante Federico Agostinelli di Fano alla moglie, fece pensare ad un viaggio tranquillo, senza problemi, almeno fino al 5 marzo, quando la nave scaricò come da programma alcune tonnellate di concimi chimici a Burriana, ripartendo successivamente vuota verso il Marocco. Il 10 marzo a Casablanca, i marinai italiani caricarono quattromila tonnellate di fosfati attesi a Venezia e ripartirono per l'ultima volta, incuranti della burrasca che infuriava in quelle ore nel Canale di Sicilia.
Proprio per questo motivo il comandante fece telegrafare all'armatore l'intenzione di non passare per lo Stretto di Messina, ma di seguire invece la rotta che porta a sud della Sicilia. La Hedia passò sicuramente Gibilterra, costeggiò la costa algerina, e poi svanì all'improvviso in prossimità dell'isola tunisina di La Galite il 14 marzo. Nessuna richiesta d'aiuto, nessun apparente segno del naufragio. Anche la radio della signora Agostinelli non ricevette più alcun messaggio dal marito dopo quella data.
Segnali che trovarono un riscontro preoccupante una settimana più tardi, al mancato arrivo della nave in acque italiane. Subito si pensò al peggio, ad un naufragio dovuto al condizioni proibitive del mare. Onde alte cinque metri agitavano ancora il Canale di Sicilia, quando iniziarono le ricerche congiunte delle unità della Marina Italiana con il supporto di una nave militare statunitense. Tentativi imponenti in un tratto di mare tanto piccolo e trafficato, al punto che qualcuno, forse, temette che la Hedia venisse ritrovata per davvero.
Così si spiegherebbe lo strano depistaggio che nove giorni dopo la scomparsa del mercantile portò su una falsa pista proprio mentre si stavano svolgendo le perlustrazioni. «Il Centro radio di Malta, ieri 22 marzo alle ore 19.34» riportò il quotidiano La Stampa «ha intercettato un messaggio a tutti i mezzi naviganti, lanciato dal comando di porto di Tunisi, con il quale si informavano le unità in navigazione che il giorno 21 marzo, alle ore 10.14 il piroscafo Hedia aveva notificato la sua posizione e si trovava in difficoltà a ridosso dell'isola La Galite». Ma era tutto falso. La stessa radio Tunisi messa alle strette dal consolato italiano, prima confermò a parole di aver inviato il dispaccio e poi lo smentì ufficialmente tre giorni dopo. Di dare altre spiegazione nemmeno a parlarne, fine delle trasmissioni.
Il giallo del siluramento
Cosa accadde alla Hedia? Come mai il suo equipaggio, conscio di un’imminente tragedia dovuta a qualsivoglia motivo, non trovò il tempo per lanciare un mayday? Quale evento improvviso e inaspettato li colse di sorpresa? Dodici giorni dopo la scomparsa, sul destino della nave cominciò a pesare l'ombra sinistra del mistero.
Finalmente il 26 marzo tre pescherecci di Lampedusa comunicarono di essere in possesso da ben sette giorni di alcuni rottami appartenenti al mercantile disperso: due salvagenti con la scritta “Hedia-Monrovia”, una cintura di salvataggio con la scritta “Milly-Monrovia” (Milly era nome originario della Hedia n.d.a.), e due tavoloni di boccaporto con macchie di nafta e olio. Basta. Troppo poco per avere la certezza che il cargo sia colato a picco. Tuttavia la mancanza di notizie fece lentamente venir meno la speranza dei familiari dei marinai di riabbracciare i propri cari.
Chi si rifiutò di arrendersi ad una evidenza suggerita da molti, non certo indiscutibile, fu Romeo Cesca, padre di Claudio Cesca, marconista diciannovenne della Hedia, che per venire a capo della scomparsa del figlio si mise a tempestare di telegrammi la presidenza della Repubblica, i ministri e la Rai. Fino a quando i1 27 marzo il signor Cesca ricevette una telefonata dal ministero della Marina Mercantile. «Mi dicono che la nave sta lentamente risalendo l’Adriatico» raccontò all'Europeo, «matto di gioia, dopo dieci giorni, corro a Venezia e tutto il 28 e il 29 li passo sul molo. Arrivano navi e navi, e a ogni prua che si affaccia io muoio di speranza. La Hedia non arriva. Ritelefono il 30 al ministero. Mi avvertono che si sono sbagliati, che smentiscono e tanti saluti».
La delusione per l'incredibile errore non scoraggiò però Romeo Cesca, che subito dopo decise di inviare un suo cugino in missione in Tunisia con il compito di battere palmo a palmo l'arcipelago de La Galite in cerca di informazioni sulla nave. Il tentativo si rivelò inutile anche a causa della riluttanza delle autorità tunisine a fornire informazioni. In ultimo il cugino si rivolse direttamente al comandante della base strategica di Biserta, il quale gli suggerì di stendere una relazione da inviare a Parigi. Ma per quale motivo il governo francese avrebbe dovuto essere al corrente della fine della nave liberiana?
Più fortunata sembrò essere l'iniziativa della fidanzata del marconista Cesca, la quale facendo appello alla Croce Rossa riuscì a far interessare al caso il quotidiano tunisino La Presse. Bastò un articolo relegato nelle pagine interne del giornale per suscitare la veemente reazione di protesta del ministero della Guerra francese. «Stupore di chi segue la faccenda», annotò Roghi sull'Europeo, «che c’entra il ministero della Guerra francese? Perché le autorità tunisine e francesi sono tanto suscettibili ogni volta che si parla della Hedia?».
La risposta a queste domande non giunse mai ufficialmente, ma a cinquant'anni di distanza possiamo fare alcune considerazioni. La prima riguarda il falso messaggio di SOS da Tunisi che costrinse i mezzi di ricerca a convergere su La Galite, probabilmente per coprire altre operazioni in atto appena quindici miglia a nord-est, dove sembra accertata la presenza della portaerei francese La Fayette. Meno chiara è invece l’origine delle «luci misteriose sul mare», rosse e bianche che, secondo la Stampa Sera, vennero scorte in quella stessa zona la notte del 23 marzo dai comandanti di due navi in transito, la Malmee (inglese) e la South River (panamense). Potrebbe sembrare che qualcun altro, oltre agli italiani, cercasse la Hedia o ciò che ne rimase. In questo contesto è da ricercare l’origine delle voci che vollero la nave vittima di siluramento.
Forse a causa della tempesta il capitano Agostinelli e i suoi uomini si trovarono fuori rotta, nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Forse, il mercantile liberiano venne scambiato per uno dei bastimenti carichi di armi che rifornivano da sette anni e mezzo gli indipendentisti algerini del Front de Libération Nationale (FLN). Forse delle armi la Hedia le trasportava davvero. Chi lo dice? Voci. Si bisbigliò senza uno straccio di prova delle presenza nella stiva di casse sospette imbarcate in Spagna o in Marocco. Un’eventualità che «non si può escludere», scrisse il nostro Ministero degli Esteri in un esposto ufficiale. Come dire, meglio pensare che i nostri fossero criminali che vittime di un’ingiustizia della quale chiedere conto.
Quel che è certo è che proprio in quei giorni di marzo del 1962 la cruenta guerra franco-algerina viveva ore cruciali. Mentre il 14 marzo la Hedia si trasformava in una nave fantasma, Algeri e Parigi erano pronte al tanto atteso cessate il fuoco deciso dall’accordo di Evian e infine decretato tra tensioni e reciproche diffidenze il giorno 19. Una sospirata tregua dopo i massacri, il terrorismo e il napalm, alla quale non avrebbe certo giovato la notizia di una nave affondata per sbaglio dal grilletto ancora caldo dei francesi.
La polveriera algerina
Vennero mesi d’attesa in Italia e mesi di sangue in Algeria. Nei novanta giorni successivi al cessate il fuoco l’OAS (l’Organisation armée secrète), contraria alla decolonizzazione, tentò in tutti i modi di interrompere la tregua con il FLN.
Nel solo mese di marzo del 1962 scoppiarono nella colonia francese una media di 120 bombe al giorno. Inutili massacri, l’OAS si arrese il 17 giugno e il 3 luglio il presidente De Gaulle proclamò l’indipendenza dell’Algeria. Ma invece di un periodo di serenità, la partenza dei francesi aprì la strada ad un tremendo periodo di anarchia. Settimane in cui il paese africano parve sull’orlo di un’altra guerra, questa volta interna, tra certi militari e l’ufficio politico provvisorio, accusato di sostenere «traditori e neocolonialisti». Nella gravissima situazione per l’ordine pubblico si moltiplicarono i rapimenti dei pochi europei rimasti. Centinaia di persone vennero rinchiuse in campi di prigionia per civili, mentre Algeri e il suo porto vennero trasformati in proprietà privata di un pugno di ufficiali.
Nel bel mezzo di questo marasma e nonostante fossero trascorsi sei mesi, Romeo Cesca, descritto dalle cronache dell’epoca come «un uomo sereno e obiettivo, di poche parole, non facile alle suggestioni», continuò a nutrire buone speranze di poter rivedere suo figlio. La fiducia sembrò premiata quando un amico, ufficiale di marina, gli fece sapere in via confidenziale che l’equipaggio era salvo. Ma dove? Nella polveriera algerina? Il militare si rifiutò di aggiungere altri dettagli sul luogo trincerandosi dietro la ragion di stato e a «gravi motivi di sicurezza».
«Senza possibilità di equivoci»
Il 14 settembre il Gazzettino di Venezia riferì dei gravi disordini avvenuti in Algeria pubblicando una telefoto d’agenzia scattata da un reporter inglese: «Algeri, il gruppo di prigionieri europei rilasciati dagli algerini attende nei giardini del Consolato francese che si concludano le formalità burocratiche». Fu allora che per uno scherzo del destino la signora Maria Balboni riconobbe tra gli uomini ritratti proprio il marito Ferdinando, cuoco della Hedia. Tra i familiari dei dispersi la notizia della fortunosa coincidenza corse in un baleno per l’Italia, da Chioggia a Sciacca. Così anche la madre del secondo ufficiale Dell’Andrea trovò suo figlio nella stessa foto, e lo stesso accade ai congiunti del fuochista Onofrio, del marinaio di coperta Grafeo e del marconista Cesca. Tutti firmarono il riconoscimento davanti ad un notaio «senza possibilità di equivoci».
Quali avventure condussero i marittimi nelle carceri algerine non è chiaro, ma è possibile che i pochi sopravvissuti al naufragio siano in qualche modo riusciti ad arrivare a riva finendo poi nelle mani dei miliziani indipendentisti.
Improvvisamente la nebbia fitta che attanagliava il destino dei venti marittimi sembrò dissiparsi, ma l’ottimismo e la speranza per la felice conclusione del caso durarono pochissimo. Da Parigi l’agenzia proprietaria della telefoto fece sapere che lo scatto risaliva al 2 di settembre. Dunque perché nessuno di loro riuscì mai a mettersi in contatto con l’Italia dopo la liberazione?
Si scoprì ben presto che il consolato francese di Algeri in cui venne scattata la fotografia fu attaccato quello stesso giorno dai clan delle fazioni belligeranti, e che dei prigionieri presenti in quel momento nell’edificio non si seppe più nulla. Che ne fu di quei superstiti allo sbando nella capitale messa a ferro e fuoco nelle tragiche giornate di guerra civile? Furono giustiziati o caddero incidentalmente, mentre le colonne di camion e cannoni del futuro presidente Ben Bella accerchiavano Algeri?
Ma in questa vicenda contorta i misteri continuarono anche quando ne sembrò prossima la parola fine. Lo testimonia l'avventura di Vitaliano Pesante, giovane giornalista veneziano, che in accordo con la compagnia assicuratrice della nave e con le famiglie dei marinai partì per l'Algeria, ormai pacificata, determinato a venire a capo di una verità nascosta da un clima ostile. Per tutto il suo soggiorno in Nord Africa il ragazzo venne pedinato e perquisito, ma nonostante ciò riuscì a rintracciare un certo Jean Solert, che figurava come primo uomo a sinistra nella fotografia degli ex prigionieri. Costui negò fermamente che nel consolato ci fossero degli italiani e come prova gli suggerì quella che sostenne essere la reale identità del presunto marinaio Grafeo, tale Pierre Cocco, barista di Algeri. Peccato che non si poté contattare direttamente, perché fuggito a Marsiglia senza lasciare un indirizzo.
Contattati da Pesante, alcuni conoscenti di Cocco lo riconobbero comunque senza esitazioni nella telefoto comparsa sul Gazzettino, la medesima che «senza possibilità di equivoci» suscitò speranze nei cari dell'italiano Grafeo. In Algeria si trovò anche chi sostenne che l'ipotetico cuoco Balboni rispondesse al nome di Joseph Agnello Cefariello, ex detenuto partito per Tolone. Anch'egli irreperibile.
In Italia l'esito della spedizione di Pesante venne accolto con rabbiosa incredulità dai parenti dei marinai. Il coro di risposta ai giornali fu unanime: «pensate davvero che non riusciamo a riconoscere i nostri cari dopo solo nove mesi?». Non si seppe più cosa pensare. Dopo qualche mese la Liberia chiese ai Lloyd's la cancellazione della Hedia dal registro navale, l'assicurazione pagò 110 milioni di lire all'armatore, la Cassa marittima versò quattrocentomila lire di assegno funerario per ogni marinaio e il Regno Unito fece sapere di considerare presumibilmente morto l'unico straniero dell'equipaggio, Anton Nerusberg di Cardiff. Infine anche L'Europeo si arrese: «Penso che questa non è un’inchiesta», scrisse sconsolato Gianni Roghi, «che roba può essere? Una storia senza senso».
L'ora della verità
Nell'ultimo atto parlamentare riguardante la Hedia di cui si ha notizia, datato 14 aprile 1965, l'allora ministro della Marina Mercantile Spagnolli concluse così la sua risposta ad una interrogazione: «Benché le probabilità di far luce sulla scomparsa della nave sembrino ormai divenute oltremodo esigue, non si mancherà di svolgere ogni ulteriore indagine qualora dovessero emergere nuovi concreti elementi».
Sono ormai passati dieci lustri e certe risposte, seppur tra evidenti e comprensibili difficoltà, bisognerebbe andarsele a cercare. Pretenderle, per amore di giustizia.
Presidente Monti, ministro Terzi, voi che potete, chiedete ufficialmente alle autorità francesi notizie sulla fine dei nostri diciannove connazionali imbarcati sulla Hedia. Se fanno finta di non sapere insistete, ditegli di cercare bene. È molto probabile che a Parigi sia conservato da qualche parte un fascicolo impolverato che racconta la storia di una nave, colpita e affondata per sbaglio nel Mediterraneo, diciott'anni prima del DC-9 di Ustica.