di Vincenzo Maddaloni

MOSCA. Boris Leonidovic Pasternak se ne stava accanto alla finestra e vedeva le ragazze con gli abiti chiusi fino alle caviglie che passeggiavano su e giù tenendosi per mano, facendo  scorrere il tempo sotto gli archi di pietra lungo i muri delle case dalle facciate austere. Era la via Mjasnitskaya nella Mosca più antica, oggi disseminata di gallerie d’arte.

Al numero ventuno c'era la celebre "Scuola di pittura, scultura e architettura", dove suo padre, Leonid Osipovich di cui quest’anno si celebrano i 150 anni della nascita (Odessa, 4 April 1862), famoso pittore e ritrattista, insegnava. Un giorno del 1911 capitò che vi si iscrivesse un giovane dall'aspetto  malinconico arrivato dalla Georgia: era Vladimir Majakovskij. A maggio, dalle crepe del selciato veniva fuori un primo odore tiepido. D'inverno, la strada era tormentata da un vento gelido.

Dalla primavera all'autunno c'era quel continuo brusio che filtrava tra i vetri e accompagnava le musiche di Ciajkovskij che la madre di Boris, Roza Kaufmann, suonava al pianoforte. In ogni stagione la casa si riempiva di artisti come Makovski e Surikov, Repin e Miasoedov, di poeti come Rilke e Verhaeren, di storici come Kljucevskij e Zelinskij, di personaggi come Aleksandr Scrjabin che con Sergej Rachmaninov era il più straordinario innovatore della musica russa.

Pasternak lo ricorda nel poema L'anno 1905: «Un giorno/che il baccano dietro il muro/è incessante come la risacca/ed il gorgo delle stanze immoto/e la strada avvivata dal gas,/squilla il campanello,/voci si avvicinano:/Scrjabin./Oh, dove fuggire/dinanzi ai passi del mio idolo/». Era nei momenti degli incontri che suo padre lavorava con più frenesia. Seduto in un angolo, mentre la moglie suonava al pianoforte, Leonid Osipovich Pasternak, l'album sulle ginocchia, tracciava i profili dei suoi ospiti osservandone i movimenti, cogliendone i gesti, i sorrisi, i tratti poiché, come diceva: «Bisogna saper disegnare rapidamente perché i personaggi non devono accorgersene: non mi piace che si mettano in posa».

Era un pittore affermato da quando s'era legato da grande amicizia a Lev Nikolaevic Tolstoj per il quale aveva disegnato le illustrazioni del romanzo “Resurrezione”. In seguito gli fu riconosciuto il merito di aver "fotografato" con le sue opere il confine tra due epoche, un periodo tra i più ricchi di fermenti della cultura russa. Aveva fissato sulla carta quel percorso di sentimenti e di ambientazioni che sarebbero poi stati sconvolti dalla rivoluzione bolscevica. Per questo motivo Leonid Osipovich è collocato tra i grandi della pittura russa.

Ma i suoi quadri non furono esposti nei musei sovietici. Molti furono distrutti, altri confinati nei magazzini. Il suo nome, quando uscì il romanzo “Il dottor Zivago” e cominciò la persecuzione di Boris Pasternak, fu persino cancellato sull'Enciclopedia sovietica, come se non fosse mai esistito. È per questo che adesso la gente fa sempre la coda ogni qual volta si organizza una mostra con i suoi quadri. La gente vuoIe vedere quegli ambienti dove Boris Pasternak aveva consumato la sua giovinezza, maturato la sua poesia, pensato al suo famoso romanzo che gli valse il Nobel.

Poiché, come scrisse Kornelij Zelinskij, la sua ispirazione «sorse in un punto dei piccoli appartamenti professorali della Mosca prerivoluzionaria, tra il pianoforte, dove ancora giacevano i manoscritti di Scrjabin, e lo scrittoio dello studio con le poltrone di pelle, dove alle pareti erano appesi i quadri e sotto la lampada si sfogliavano Kant, Cohen, Nartop, mentre oltre la finestra una cultura di molti secoli, molte lingue frusciava col silenzio delle meditazioni. Là forse si sentivano i contrafforti della vita: ormai alle spalle c'era una rivoluzione». La gente vuoIe "leggere" e “rileggere” questa storia dei Pasternak, che non era mai apparsa prima. Se n'era incuriosita fin da quando sulle pagine di Novi Mir era cominciata - trent'anni dopo che il libro era uscito  in tutto il mondo - la pubblicazione a puntate del Dottor Zivago.

Ma questo popolo dalla pazienza infinita dovrà attendere un anno ancora per sapere altri particolari della vicenda. A fornirli fu la Literaturnaja Gazeta, il settimanale degli scrittori, il quale promuovendo la prima esposizione ufficiale (agosto 1989) delle opere di Leonid Osipovich ne aveva ripercorso la storia, ricordando che molti dei lavori erano raccolti nella dacia di Peredelkino e che molti erano stati distrutti durante la guerra,quando vi alloggiavano i soldati i quali usavano la carta coi disegni per fabbricarsi i samokrutki, cioè le sigarette.

Evgheny Pasternak, il figlio dello scrittore - una vita dedicata alla memoria del padre - mi raccontava con una profonda amarezza che, «Alcune delle opere del nonno decoravano la stanza dove mio padre scriveva, incontrava gli amici, passava gran parte della sua giornata. Sapevo quanto ci teneva a quelle tele, a quegli schizzi, e non si pacificava per quelli che erano andati perduti. Purtroppo nel l’Ottantaquattro nella casa di Peredelkino sono piombati i rappresentanti dell'Unione degli scrittori dell'Urss, i miliziani e i giudici, e in meno di dodici ore ci hanno sfrattato, hanno sfasciato quel che restava delle memorie nostre più care, hanno seminato il prato coi disegni strappati di mio nonno. La casa intanto è rimasta vuota e non si capisce che cosa abbiano deciso di farne». Era appunto nell’agosto del 1989 che incontrai Evgheny Pasternak che  aveva da poco compiuto i sessantaquattro anni.

Oggi ci si arriva comodamente in treno alla dacia trasformata in  casa-museo di Boris Pasternak  che si trova al numero 3 di via Pavlenko. E' aperta dalle 10 alle 16, dal martedì alla domenica e l'ingresso costa 100 rubli (poco meno di 3 euro). La dacia dove nacque Zivago è lontana dalla stazione ferroviaria, sepolta nel bosco di Peredelkino, da sempre il "villaggio degli scrittori". È come una nave che galleggia su un fiume di verde. Nella stanza da letto spoglia e nello studio sono rimasti i suoi stivali, il cappotto e il cappello così come lui li lasciò. Sulla luminosa veranda, il tavolo è apparecchiato con le tazze e il samovar.

E’ sulla veranda, nelle giornate d'estate, protetto dal sole e dagli acquazzoni che Boris Pasternak appuntava su dei sottili quaderni i ricordi e la sua quotidiana esperienza: «Mi aggrappai a quel lavoro e cominciai a lavorare con passione raddoppiata. Ma proprio quella passione avrebbe rivelato all'osservatore esperto che non sarei mai divenuto uno scienziato. lo vivevo lo studio della scienza con più intensità di quanto richiedesse la materia. Una specie di pensiero vegetativo operava in me. La sua particolarità era nel fatto che ogni concetto secondario, spiegandosi illimitatamente nella mia interpretazione, cominciava a prendere cibo e ogni sorta di cure e quando io sotto la sua pressione mi rivolgevo ai libri, non ero mosso dall'interesse spassionato per il sapere, ma dalle citazioni letterarie che lo suffragavano».

In queste parole è racchiuso il segreto della poesia di Pasternak, la sua passione per l'oggetto, per il particolare,per i significati della vita e della morte. E un'estate, siamo nel 1913, a ventitré anni «si mise a scrivere versi non per eccezione, ma di seguito,  con costanza, allo stesso modo con cui si dipingono i quadri o si compone musica». Certo, la poesia la rincorreva da tempo, soprattutto da quando aveva scoperto Rainer Maria von Rilke su una copia di Mir zu Feifer, che il poeta austriaco aveva regalato al padre, Leonid, quando era stato in visita a Jasnaja Poljana da Tolstoj. La scoperta di Rilke risale al 1907. Nell'autunno del 1913, a Mosca, Pasternak incontrò Verhaeren, che stava ottenendo un gran successo in Russia: Brjusov l'aveva tradotto, BeIyj lo definì un «Dante dell'età  contemporanea». Leonid Osipovich gli stava facendo un ritratto, e Boris lo intratteneva durante le pose: gli chiese se conoscesse Rilke, e Verhaeren gli rispose che era il miglior poeta d'Europa.

Di tutte le letture giovanili, si può dire che solo Rilke abbia avuto un'influenza diretta sui suoi versi: molti anni più tardi, nel 1926, inviandogli un suo volume di rime, Pasternak deve averglielo scritto, se Rilke rispondeva così: «Come posso ringraziarvi d'avermi permesso di vedere e di sentire quello che avete  moltiplicato dentro di voi così miracolosamente! Il fatto che abbiate potuto attribuirmi una messe così ricca nella vostra sensibilità dice le lodi del vostro cuore generoso».

Ho riferito questi episodi della sua biografia per meglio far capire quant'erano stretti i rapporti tra padre e figlio, che non s'interruppero nemmeno quando nel 1921  Leonid Osipovich si trasferì a Berlino per far curare la moglie ammalata, che morì diciotto anni dopo. E proseguirono quando il pittore raggiunse la figlia in Inghilterra, a Oxford, dove soggiornò fino alla morte, il 31 maggio del 1945. Evgheny Pastenak mi raccontava come suo padre fosse «ammaliato dalla grande capacità di mio nonno di concentrarsi sul lavoro. Nelle lettere ne sottolineava la maestria rara di saper cogliere al volo gli oggetti, le persone in  movimento, le scene della vita quotidiana, poiché era accaduto in un'epoca in cui l'artista d'abitudine se ne stava rinchiuso nell'atelier. Figurarsi l'amarezza di mio padre quando seppe, negli Anni Trenta, che molte opere, si trattava soprattutto dei ritratti dei personaggi più noti della rivoluzione, erano state distrutte o esiliate nei musei  periferici di Vologda e di Celiabinsk, in Siberia».

Boris Pasternak riprese a scrivere “Zivago” un anno dopo la morte del padre, nel 1946. L'aveva già interrotto due volte: nel 1918 e nel 1936, perché non aveva abbastanza denaro. Lo scrisse assicurandosi da vivere con le traduzioni. Un lavoro sfibrante: traduceva in russo una tragedia di Shakespeare in due mesi e poi tornava a scrivere. L'epilogo è noto: Zivago divenne causa di un terribile scandalo politico.

Non lo vollero pubblicare in Urss e fu pubblicato in Italia. Poi a Pasternak arrivò il Nobel, che gli fu dato per tutta la sua opera, e quando Krusciov lo seppe da una notizia proveniente dagli Stati Uniti, scoppiò un putiferio enorme e lo scrittore fu costretto a mandare un telegramma con il quale rinunciava volontariamente al premio.

Evgheny mi ricordava che pur in quel travaglio il padre continuava a lavorare ogni giorno, continuava a scrivere poesie, e non partecipava alle riunioni che si facevano su di lui e sul caso letterario che aveva provocato. Dalla sua dacia di Peredelkino, tra i ritratti muti dei personaggi dipinti da suo padre, e quei paesaggi che gli avevano ispirato la storia di Lara, mandava messaggi al mondo raccomandandosi che  la sua opera non fosse strumentalizzata ai fini politici.

«No, non mi fece mai segreto dei suoi scritti», raccontava Evgheny. «Leggevo i capitoli del libro, ne parlavamo: era parte della nostra esistenza. Alle mie esitazioni mio padre rispondeva citandomi la regola di vita più amata da Tolstoj: "Fai quel che tu devi, sia quel che sia". Poi il discorso ogni volta scivolava inevitabilmente ai periodi vissuti a Jasnaja PoIjana, nella casa del grande patriarca, con il nonno che dipingeva le scene di Resurrezione, e i lunghi conversari che vi si svolgevano. Soltanto questi ricordi riuscivano a rasserenarlo».

La tomba di Pasternak è sotto una quercia nel piccolo cimitero contadino dagli steccati di legno turchese, accanto alla chiesetta bianca e luminosa che risale ai tempi di Ivan il Terribile. Ci sono sempre i sentierini delicati che separano ogni tanto un recinto dall'altro per consentire il passaggio dei parenti che vanno a deporre fiori e cibo sulle tombe dei loro morti.

Cancelletti minuscoli permettono di infilarvi il braccio in modo che le offerte raggiungano il centro del tumulo. Soltanto la tomba di Boris Pasternak è più estesa delle altre, con quella lastra di marmo molto bianco sulla quale si distingue, in bassorilievo, la figura dello scrittore, che consente di riconoscerla da lontano.

Mi dicono che in passato poca gente andasse a Peredelkino sulla tomba di Pasternak. Ma non dev'essere del tutto vero, poiché oggi si dice pure che le sue esequie, nel Sessanta, furono la prima manifestazione di dissenso alla quale parteciparono diecimila persone. E poi in tutti questi anni puntualmente, affettuosamente, per chissà quali strade, si è fatto in modo di circondare lo scrittore, morto nell'indifferenza ufficiale, di quel rispetto che in vita gli venne a lungo negato.

Quasi a testimoniare che il Paese, nonostante tutto, è sempre riuscito ad individuare qual è il suo posto vero nella storia. Sebbene sia da sempre afflitto da prove terribili non ancora del tutto superate, zeppe di incongruenze e crudeltà, che si riassumono  in questa scartocciata bottiglia di plastica nella quale hanno infilato tre garofani, ed è davanti alla lapide  posta là a ricordare che Boris Pasternak è esistito.

www.vincenzomaddaloni.it

 

 

 

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