di Vincenzo Maddaloni
Che i generali del Pentagono abbiano una crisi di nervi quando gli si chiede se Israele li informa sui suoi piani d’attacco terrestri pochi lo sapevano, prima che lo rivelasse Mark Perry in un’inchiesta (Come l'esercito americano pensa che Israele potrebbe colpire l'Iran) pubblicata sulla rivista Foreign Policy. Un articolo dagli effetti deflagranti, considerato che è un momento nel quale più acceso è il dibattito sia negli Stati Uniti come in Israele sull’opportunità di un attacco armato contro l'Iran.
Perché la testimonianza raccolta da Mark Perry è quella di un generale a cinque stelle, il quale ha dichiarato senza mezzi termini che al Pentagono sono costretti a “volare alla cieca” perché Israele «non ci dice quello che pensa di fare e come intende attuarlo, come se fosse un grande segreto da non condividere nemmeno con noi». Infatti, pare che pure il segretario alla Difesa Leon Panetta abbia dovuto desistere dall’impresa per - come usa dire - non perdere la faccia.
Tutto questo è successo dopo che Benjamin Netanyahu, il primo ministro di Israele, aveva tenuto il famoso discorso della “linea rossa” alla 67esima Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York, più o meno un mese fa. In quella occasione, il premier israeliano aveva denunciato le minacce che incombono sul suo Paese soffermandosi su quella nucleare dell’Iran. Per rendere chiara la posizione di Israele sulla questione, Netanyahu aveva mostrato all’aula un cartello su cui era disegnata una bomba, divisa schematicamente in alcuni stadi. Con un pennarello rosso, egli aveva segnato una linea nell’area dello stadio finale di progettazione della bomba, spiegando che Israele non consentirà all’Iran di andare oltre un certo punto nello sviluppo dei suoi armamenti atomici.
Non so dove Benjamin Netanyahu fondi tanta certezza. L’Iran non è l’Egitto sgangherato della guerra dello Yom Kippur (24 ottobre 1973). Sicché, quando il presidente iraniano Amadinejad avverte che un qualsiasi attacco all’Iran sarebbe da considerarsi un attacco “a tutto l’Islam”, la sua minaccia non va affatto sottovalutata. Poiché determinante è il ruolo dell’Iran e soprattutto dell’Islam persiano nella civiltà musulmana.
Unico vero rivale dell'arabo, il persiano e la sua «accademia» sono stati per secoli gli strumenti di un modo diverso di pensare l'Islam, non necessariamente opposto ma il più delle volte complementare a quello più ufficiale dell'arabismo. I tentativi di inquadrare l'eresia musulmana in termini di sciismo contro sunnismo, religiosità popolare contro religione espressione del potere, sopravvivenze mitologiche contro storicizzazione libresca, Islam di second'ordine contro vero Islam, sono tutti immancabilmente fuorvianti, come la Storia degli ultimi lustri sta dimostrando. Anzi, oggi viene il sospetto che gli studiosi occidentali seminando per oltre un secolo queste idee, abbiano fornito l'ossatura ideologica a certi rigorismi dell'Islam contemporaneo, che molte fazioni hanno fatto propri per meglio diffondere la propria visione religiosa povera e iconoclasta.
Dopotutto il fattore che determina l’importanza dell’Iran nel panorama politico mondiale non é soltanto la sua posizione geografica e le risorse energetiche di cui dispone, ma è sopra ogni cosa la sua estensione culturale, nel senso più letterale del termine. Infatti, l’Iran è al centro di quell’area dell’Asia sud-occidentale che è in contatto diretto con l’Eurasia, la Cina, l’India, il Caucaso, la Russia, il Medio Oriente, la penisola arabica.
Oggi, come nel passato, l’Iran è il punto d’incontro tra le grandi civiltà: la civiltà indiana, la civiltà islamica e la civiltà europea. L’Iran, insomma, è soprattutto la culla millenaria della civiltà indo-iranica, dove la civiltà iranico-islamica (a partire del VII secolo) e la civiltà iranico-europea (a partire del XVII secolo) si incontrano. Stando così le cose, essere presenti sul territorio iraniano significa avere la possibilità operativa di controllare e dominare uno scacchiere che va dal Pacifico al Mediterraneo, comprese le aree limitrofe.
Infatti in tutte queste aree, l’Iran storicamente ha una presenza e un’influenza culturale radicata. Oggi più di ieri, questa presenza è legata alla natura dell’attuale potere in Iran, poiché esso è gestito dagli ayatollah, che rappresentano le varie anime del clero sciita. In Pakistan, un quarto della popolazione è di fede sciita, così come sono sciite le minoranze consistenti dei musulmani nel resto del subcontinente indiano. Nell’Asia centrale - Uzbekistan e Tagikistan - forte è la componente islamica, ma lo è anche quella iranica. Nel Caucaso meridionale, la maggioranza della popolazione è di fede sciita in Azerbaijan, per esempio.
In Iraq (la culla storica dello sciismo, con i seminari di Najaf e Kerbala, dove risiede la leadership religiosa) gli sciiti, in sintonia con quelli dell’Iran e dell’area siro-libanese, sono la maggioranza della popolazione e risiedono nelle zone petrolifere del Sud del Paese. Pure negli sceiccati petroliferi del Golfo Persico sono forti e attive le comunità sciite. Nel Bahrein esse rappresentano l’80 per cento della popolazione e anche il petrolio saudita viene estratto in buona parte dalle regioni orientali dove è numerosa la presenza sciita. E così pure in Siria, nello Yemen e nel Kashmir, e fino al Mediterraneo, dove gli sciiti del sud del Libano hanno stretti legami ideologici e familiari con la Repubblica islamica di Teheran. Naturalmente, anche l’Islam combattente s’ispira alle varie anime che formano il potere degli ayatollah (Jihad islamica, Hezbollah nel Libano, sciiti iracheni, sauditi e yemeniti del Bahrein).
Zbigniew Brzezinski, (ex consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense durante l’amministrazione democratica Carter), pensava all’area petrolifera del Medio Oriente che gravita materialmente, storicamente e culturalmente intorno all’Iran quando spiegò, sulle pagine di The National Interest, che «il controllo del Medio Oriente da parte degli Stati Uniti conferisce loro un potere indiretto, ma politicamente decisivo, sulle economie europee e asiatiche, che dipendono anch’esse dalle esportazioni energetiche provenienti dalla regione».
Pertanto avere l’Iran come alleato o sotto il proprio controllo, significa poter gestire le risorse energetiche racchiuse tra il Golfo Persico e il Mar Caspio; il che vuol dire governare l’intera economia mondiale, poiché Europa, Giappone, Cina e India, tutti dipendono da quest’area geografica. Così meglio si capisce perché gli Stati Uniti avrebbero accettato per la prima volta la proposta iraniana di negoziati diretti sul controverso programma nucleare di Teheran. Lo ha riferito qualche giorno fa il New York Times citando fonti dell'amministrazione Obama, e aggiungendo che gli iraniani hanno posto come condizione di attendere le elezioni del 6 novembre negli Usa per sapere se dovranno trattare con Barack Obama o con Mitt Romney.
Una settimana prima - quale straordinaria coincidenza - era stato l’ex segretario di Stato americano e premio Nobel per la Pace Henry Kissinger ad affrontare la questione in una intervista al Washington Post. Secondo l’ex segretario dovrebbero essere soltanto dagli Stati Uniti a gestire la crisi con l’Iran poiché se non lo fanno, “darebbero a Israele una delega con la quale si sentirebbe autorizzato ad attaccare”. E dunque, «gli Stati Uniti non possono subappaltare una decisione così importante a Israele», aveva ripetuto come un mantra l’ex segretario di Stato americano. L’America insomma ci riprova.
Malgrado il sottofondo di smentite da entrambe le parti, secondo il New York Times il desiderio di negoziare è condiviso. Negli Stati Uniti molto vi ha influito l’impantanarsi della macchina bellica statunitense, poiché i forti legami degli ayatollah di Teheran con gli ayatollah di Najaf e con gli sciiti dell’Iraq (cioè con il 65 per cento della popolazione irachena) insieme ai tradizionali rapporti etnico-culturali tra i curdi iracheni e le popolazioni dell’Iran, lo stallo in Siria e, infine, la déblâche in Afghanistan hanno attenuato gli ardori imperiali degli Usa basati sulla forza.
Tuttavia non li hanno spenti anche perché per i potentati economici, la riconquista dell’Iran significherebbe prima di ogni altra cosa: controllare quasi completamente tutte le aree circostanti e, come abbiamo già detto, le risorse energetiche racchiuse tra il Golfo Persico e il Mar Caspio; mettere l’Europa e il Giappone, la Cina e l’India - gli attuali e futuri maggiori importatori e consumatori di idrocarburi - in una condizione di dipendenza dal nuovo assetto impostato da Washington.
Poi gli consentirebbe di tenere sempre sotto osservazione Russia, Cina, India e di esercitare un’influenza diretta sull’Asia centrale ex sovietica, sul mondo arabo e sul subcontinente indiano. Infine, l’Amministrazione a qualsiasi colore appartenga, potrebbe imporre con il supporto della potente comunità iraniana d’America la reintroduzione del modello monarchico e divulgare l’American lifestyle in un Paese che, per la sua millenaria peculiarità culturale, ha attratto popoli e civiltà in uno spazio che va dal Kashmir (la famiglia di Khomeni era originaria di quelle terre) al Mediterraneo (in particolare il Libano).
Se questo è nell’immaginario americano - l’ultimo confronto televisivo tra Obama e Rommey lo conferma - meglio si capisce la benevola rassicurante tolleranza del Pentagono nei confronti di Israele: «Diamo uno sguardo ai loro [israeliani] mezzi e alle loro capacità di fuoco, ci mettiamo nei loro panni e ci chiediamo come ci comporteremmo se avessimo quello che loro hanno. Così, mentre stiamo fantasticando ci facciamo un’idea di quello che possono e non possono fare», confidava il generale a cinque stelle al redattore del Foreign Policy.
Beninteso non sono queste chiacchiere da salotto. E’ da un anno e più che il Centcom, il quale sovrintende le attività militari degli Stati Uniti in Medio Oriente, ha il compito di studiare il possibile attacco israeliano all’Iran. I suoi funzionari si sono incontrati più volte nella sede Centcom di Tampa, in Florida, con gli ufficiali della Quinta Flotta della Marina a Doha, in Qatar, per confrontarsi sulle rispettive conclusioni.
Quel che si è riusciti a sapere è che la “linea rossa” di Benjamin Netanyahu non li ha turbati più di tanto. Poiché, «questa è una questione politica, non è una questione di guerra. Pertanto non è nella nostra corsia. Stiamo soltanto preparandoci perché un attacco israeliano potrebbe arrivare in qualsiasi momento», ha spiegato l’ammiraglio in pensione Bobby Ray Inman.
Dopo tutto fu sempre Henry Kissinger a ricordare al mondo che «gli Stati Uniti hanno le armi migliori, abbiamo roba che nessun altra nazione ha, e useremo queste armi nel mondo quando sarà il momento giusto». Lo disse nel novembre dell’anno scorso durante un’intervista al giornale satirico inglese The Daily Squib suscitando non pochi clamori in Medio Oriente dopo che essa apparve anche su Al-Ahram il maggior quotidiano egiziano e del mondo arabo. Tant’è che è riemersa - dopo l’ uscita di Netanyahu sulla “linea rossa”- ed è stata stigmatizzata dalla stampa araba come una profetica minaccia. Perché da quelle parti non se l’immaginerebbero mai un Kissinger pervaso di humor, supposto che lo sia veramente.