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di Silvia Mari
Il film di Mario Martone è un’immersione purissima e fedele nella biografia esistenziale e letteraria di Giacomo Leopardi. Con qualche incursione di modernità, forse un po’ forzata o soltanto inutile, e con un punto di vista interessante sulle inquietudini del giovanissimo poeta. Un bene e non un caso che si torni a ricordare Leopardi in un tempo storico cosi travagliato, come quello che attraversa l’Italia, proprio come allora.
Quando il paese cercava la sua unità, tentava di superare il giogo dei vari sovrani e serpeggiavano idee fresche e liberali, quando la coercizione di un papa imperatore soffocava la filosofia e l’arte.
In questo fermento e conflitto il giovane poeta di Recanati sfidava tutti per ingegno e per assenza di paura e pur nelle sue condizioni fisiche precarie portava con sé la forza di una novità incontenibile. Forse è un po’ questa la metafora che ricorre e che può restituire piena attualità all’opera di questo giovane che non fu mai soltanto del proprio tempo.
L’Italia piegata dalla crisi ha bisogno di ritrovare il suo passato, non quello sepolto e superato, ma quello che non è mai estinto e che è ancora gloria vivissima, ben al di fuori dei confini nazionali.
Ricordare Leopardi oggi è pensare al presente dell’Italia. Il suo genio e la sensibilità estrema asfissiati dalla morsa di Recanati, la sterminata biblioteca, la malattia e poi la morte della Musa Silvia dei Grandi Idilli:, tutto è riportato in un ritratto perfetto. Formidabile Elio Germano, piegato e ritorto in un fisico sofferente e provato che Leopardi trascinava nel suo viaggio per l’Italia, rivendicando nei salotti letterari e agli intellettuali del tempo la dignità filosofica e psicologica del suo male di vivere, senza scorciatoie legate alla sua condizione.
Un’anticipazione miracolosa dello spleen e delle grandi inquietudini dell’uomo del Novecento. Ateismo, materialismo, attaccamento forsennato all’esistenza, pur in una spietata filosofia del dolore cosmologico, emergono con forza nella scena dell’Italia attraversata da rinnovamento e ansie di restaurazione, restituendo a Leopardi un’originalità fuori dal tempo, dirompente. Non c’è la militanza politica che il Giordani prova ad instillare nel giovane Giacomo, ma non c’è nemmeno la compostezza e la sobrietà di Manzoni. Leopardi è oltre.
Il suo pensiero e la sua poetica non possono che creare disordine e scompiglio. Un tormento interiore vivissimo che non può andare d’accordo con le regole rigide del Conte Monaldo, tutto sovrano e Dio, e della ieratica madre Adelaide. Eppure non c’è militanza in alcun partito o corrente o appartenenza fissa ai salotti della letteratura. Perché nulla è abbastanza per contenere la visione del mondo di Leopardi.
Anche per questo, nel film, risulta un po’ stucchevole la colonna sonora melodica e moderna che accompagna la sua disperazione dopo il rifiuto della donna desiderata, Fanny. Per questo è troppo didascalica l’esplicita lettura psicologica che trasforma la natura delle Operette Morali in una grande statua di sabbia che ha il volto di Adelaide Antici. Come a voler spiegare per bene che tutto il dolore esistenziale provenisse dal mancato rapporto affettivo con la figura materna.
“Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” scriverà Montale un secolo dopo nella devastazione di una storia che non ha riferimenti e di una filosofia che non ha più sistemi.
Leopardi precorre tutto questo mente traduce l’Odissea all’impronta, scrive i suoi versi e annota le sue osservazioni matematiche in una sintesi tra passato e futuro unica e irripetibile. In cui manca con un silenzio assordante il presente. Quello che sfugge al telaio di Silvia. Che serve appena a rubare l’infinito dietro alla siepe. Quello che ai tempi del colera porterà Leopardi a finire in una fossa comune, lasciando vuoto il sepolcro che lo commemora ancora nella città di Napoli. Come accade solo agli immortali.
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di Emanuela Pessina
Berlino. Berlino, la città “povera ma sexi” per eccellenza - così come l’ha definita l’attuale sindaco Klaus Wowereit - non poteva che riservare un posto d’onore a Pier Paolo Pasolini, l’artista e intellettuale italiano che ha raccontato il fascino delle periferie più povere della Roma degli anni sessanta. E così, dopo la rassegna dedicata a David Bowie, ora il Martin Gropius Bau di Berlino ospita “Pasolini Roma”, una mostra interamente dedicata agli anni romani dell’intellettuale friulano.
“Pasolini Roma” racconta il rapporto intimo e imprescindibile che si sviluppa tra Pier Paolo Pasolini e la capitale italiana, divenuta sua città adottiva dai ventisette anni in poi. Eletta a teatro di molti dei suoi film e protagonista dei suoi migliori romanzi, Roma assume un ruolo cruciale soprattutto nell’evoluzione personale di Pasolini.
L’intellettuale sbarca a Roma dopo essere stato allontanato, a causa della sua omosessualità, dall’insegnamento e dal Partito Comunista locale a Casarsa della Delizia, in Friuli, il paese dove viveva,. La “voce pubblica” di Casarsa lo accusa di adescamento di giovani e lo costringe ad andarsene: la dea Fama è offesa e per Pasolini e famiglia non vi è più nulla da fare in un paese che conta oggi poco più di novemila anime.
Perché è proprio a Roma che Pasolini si riconosce finalmente come intellettuale a tutto tondo, accettando con coscienza la propria sorte di - come dice lui stesso - “poeta maledetto”. Negli anni ’50 Roma è una città piena di stimoli filosofici e letterari ed è culturalmente più aperta delle campagne del nord Italia. Gli anni romani per Pasolini significano letteratura, cinema e politica, così come periferie preindustriali, cultura di borgata e sessualità finalmente manifesta.
“Pasolini Roma” si apre con l’immagine di un treno che va, parte da Casarsa e arriva alla stazione Termini. Dai finestrini si vedono le foto del passato che Pasolini si lascia alle spalle: l’infanzia, i poeti con cui ha studiato la lingua friulana, i ragazzi cui insegnava e con cui giocava a calcio, la famiglia, il fratello Guido, morto con i partigiani a soli venti anni. Con un solo cortometraggio la rassegna risolve il passato friulano di Pasolini e introduce l’esperienza romana dell’intellettuale.
Ed è proprio qui, nella capitale, che si comincia a delineare l’elemento distintivo del Pasolini intellettuale, la sovrapposizione imprescindibile tra vita e arte: perché l’autobiografia, per Pasolini, non esiste se non come rappresentazione propria, e quindi interpretazione, di sé stesso, e la sua critica alla società non ha ragione d’essere senza i fatti che hanno caratterizzato la sua esistenza.
“Pasolini Roma” vuole mettere in risalto proprio il margine di sovrapposizione tra vita e arte dell’artista e lo fa attraverso le categorie di spazio e tempo che la città di Roma offre. La mostra si compone di sei sezioni cronologiche, comincia con l’arrivo di Pasolini a Roma nel 1950 e finisce con il raccontare la sua morte, avvenuta il 2 novembre 1975.
Ogni sezione è introdotta da immagini di Roma su uno schermo gigante e qualche frase in sovraimpressione che riassume il periodo che ci si accinge a raccontare dell’artista. Per il resto, le stanze sono coperte da scritti di Pasolini e immagini di suoi film, commentate dall’autore stesso. Ne esce un’autobiografia completa, raccontata dai commenti dell’autore stesso. Poi mappe, pannelli con stralci dei suoi film, fotografie.
I curatori della mostra definiscono Roma “la storia d’amore più importante di Pasolini”. Di sicuro la città è il frammento di vita che Pasolini sceglie per analizzare l’esistenza e la società, è il campione da scomporre ed esaminare. Al centro dell’arte di Pasolini ci sono le periferie romane, costruite dai fascisti, ci spiega l’artista, perché intese a essere “campi di concentramento per i poveri”. Pasolini ci vive mentre scrive i suoi primi romanzi e ne fa parte davvero, ci tiene a sottolinearlo. I suoi libri e i suoi film raccontano le periferie romane con lo stesso linguaggio delle borgate. Un vocabolario romanesco italiano introduce la prima stazione cronologica della rassegna.
Con la sua arte Pasolini ha affrontato tematiche primitive quali destino dell’individuo, vita contadina e borgate, religione e anticlericalismo, sessualità e morte, utilizzando sempre linguaggi che vanno al di fuori della consuetudine, immagini di una lucidità estrema. Ed è così che San Pietro diventa l’emblema di quella “religiosità senza colore, piatta, grigia, parrocchiale, uno dei prodotti più sconfortanti della stupidità”.
Con i suoi limiti di “città preindustriale”, Roma è tuttavia il posto in cui Pasolini “trova meglio di altrove il suo modo di vivere ambiguamente”, dove riesce a salvare “eros e onestà” e dove “l’omosessualità diventa un altro dentro di lui” con cui può tuttavia convivere.
Il sesso e la violenza, del resto, sono al centro delle sue opere e sono sempre bersaglio della critica dei moralisti e dei benpensanti e della censura. Un’intera parete delle sale del Martin Gropius è dedicata all’inchiostro consumato dalla stampa per raccontare i processi e le censure a carico delle sue opere, da Ragazzi di vita a Orgia, così come gli scandali nati dalla presentazione delle stesse.
Ma è proprio con le sue vicende personali che Pasolini da forza alla propria visione intellettuale, diventando così il più grande provocatore della società italiana cattolica e medio borghese, e una delle principali icone postmoderne. L’ultima stazione della mostra ricorda la morte di Pasolini solo attraverso il discorso funebre di Alberto Moravia.
I dubbi e le ipotesi sull’omicidio sono citati velocemente da un pannello fuori dalle sale della mostra, in una sorta di rispetto silenzioso. “La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne un male mortale”, scriveva Pasolini nel 1963 per Marilyn Monroe in una poesia indimenticabile. Piace pensare che per lui il male mortale sia stata l’intelligenza, non si vuole forse maltrattare ulteriormente il suo corpo.
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di Vincenzo Maddaloni
Tutto quest'odio delle milizie jihadiste dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (meglio noto come Califfato dell’ ISIS) verso gli Stati Uniti, ha scatenato una campagna mediatica che ci rimanda indietro di un decennio e più. E per certi versi all'America giova. Infatti tutto suonerebbe molto strano se non si sapesse che la religione è stata ed è un elemento fondamentale, sicuramente centrale, dell’identità americana, plasmata per quasi quattro secoli dai movimenti religiosi.
L’America è di gran lunga la più praticante delle altre nazioni industrializzate. Gli americani, o per essere più esatti la gran parte degli americani, rispecchia la propria identità nazionale nelle proprie origini e nella propria religione.
Anzi, secondo lo scomparso politologo di Harvard, Samuel Huntington, l’identità tradizionale americana è costruita intorno al ‘the Creed’ (“il Credo”), ossia la fede tipicamente americana nella libertà, nella democrazia e nei diritti individuali. Una matrice, secondo Huntington, pienamente anglosassone, intorno alla quale si saldano la cristianità, la lingua inglese, the rule of law, la responsabilità dei legislatori, i diritti del singolo, insieme a elementi spiccatamente protestanti come la fede nella capacità e nel dovere dell’uomo di provare a creare un paradiso in terra. Quella che gli ambienti evangelici chiamano ‘a city on the hill’ (“una città sulla collina”).
Huntington è rimasto un personaggio molto ascoltato e molto discusso da quando pubblicò, alla fine del secolo scorso, “Lo scontro di civiltà e la ricostruzione dell’ordine mondiale”, nel quale teorizza che “gli scontri tra civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal pericolo di una guerra mondiale”.
Dopo la tragedia dell’11 settembre Samuel Huntington aveva goduto di attenzioni sempre maggiori da parte dei media, americani e non. Prova ne fu il putiferio che nell’estate del 2005 aveva destato negli Usa l’uscita del suo ultimo libro, Who are we?, che si confronta con la questione dell’identità nazionale americana. “Anche Sparta e Roma sono infine cadute. È dunque giunta l’ora degli Usa?”, si chiedeva preoccupato l’autore. Sicuramente se lo domandano anche oggi in tanti mentre scorrono le immagini sull'Iraq.
Molto vi influisce anche il fatto che negli Stati Uniti vivono circa 6 milioni di musulmani, la maggior parte dei quali non ha origini arabe: il 40 per cento è afro-americano, il 25 per cento indo-pakistano e il restante 35 per cento è composto da arabi, afghani, turchi, africani e caucasici (uzbeki, turkmeni, tartari, eccetera). Circa i tre quarti degli arabi americani sono immigrati negli Stati Uniti dopo il 1965 quando l’Immigration Act ha portato ad un’estensione del sistema a quote.
Benché una parte consistente degli arabi americani non sia musulmana, ma cristiana (i primi gruppi di immigrati arabi negli Usa arrivarono alla fine dell’Ottocento e si trattava perlopiù di cristiani provenienti dalla Siria e dal Libano) non fa differenza per l'America “bianca”, che è tornata a vedere nemici dappertutto, come non accadeva dai tempi dell'attacco alle due Torri.
E' un sentimento di paura sul quale fanno leva personaggi come il senatore repubblicano John McCain, che è il leader dell'opposizione politica al presidente Obama, ma nello stesso tempo egli è pure uno dei suoi più alti funzionari perché, come ricorda il politologo Thierry Meissan, “McCain è dal 1993 il presidente dell'International Republican Institute (IRI), il ramo repubblicano della NED/CIA. Questa cosiddetta "Ong" è stata ufficialmente istituita dal presidente Ronald Reagan per estendere alcune attività della CIA in collegamento con i servizi segreti britannici, canadesi e australiani”.
Naturalmente quella che per noi appare come un'insanabile contraddizione, risponde a un disegno preciso che si riassume nello slogan: “Invece di essere il mondo a plasmare l’identità americana, sarà l’identità americana a ridefinire il mondo”. Insomma pur di tenere alto il concetto dell'Imperial America i repubblicani e i democratici si affratellano, poiché è opinione diffusa che sebbene la tesi di Huntington sullo scontro di civiltà si era rivelata superficiale e politicamente pericolosa, l’America se ne era servita per lanciare un'offensiva mediatica che giustificasse l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. E il risultato fu giudicato più che buono.
Su quella tesi aveva lavorato un piccolo nucleo di neoconservatori, a iniziare da Norman Podhoretz, Richard Pearle, David Frum, Bernard Lewis, Fuad Ajami e dal ‘prediletto’ del presidente George W. Bush, l’ex dissidente sovietico e politico israeliano di destra Natan Sharansky. Tutti uomini accomunati dalla stessa visione del mondo musulmano, descritto come un universo in decadenza continua, dovuta ai difetti culturali, psicologici e religiosi delle società islamiche.
E’ l'immagine dell'Islam che viene riproposta in queste settimane dalle televisioni, e fa da sottofondo mentre scorrono le riprese che giungono dall’Iraq. Di fronte a un terrorismo che, in qualsiasi momento, può ricorrere alle armi di distruzione di massa, (chimiche, batteriologiche, perfino nucleari) l’America - questo è il messaggio - non può aspettare, ma deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, eliminandone le tare e costringendolo a democratizzarsi. Il che vuol dire piantare city on the hill dappertutto anche con l'aiuto dei droni o dei carri armati se necessario.
Così conclamando gli Stati Uniti si assicurano ogni libertà d’azione, un po’ come nel secolo scorso accadeva con la minaccia del ‘socialismo reale’ dell’Unione Sovietica. E nel contempo essi si presentano come i veri “difensori della democrazia”, come il “modello di civiltà”. Sicché il Medio Oriente in fiamme, diventa la preziosa occasione per riaffermarsi agli occhi del mondo nel ruolo di superpotenza. Così l'Imperial America può regnare sovrana, senza il timore di essere sopraffatta, poiché, come ricorda il film con Alberto Sordi, “Finché c'è guerra c'é speranza”.
La veste di “difensori della democrazia”che gli Stati Uniti si assumono, è una configurazione teorica che mette insieme il fondamentalismo cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, per certi versi seducente nella sua perversione. Avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana si proietta verso l’esterno assumendo una forma aggressiva, unilaterale, arrogante, ma seducente agli occhi di chi la sostiene.
Infatti, in un’intervista rilasciata a Jeffrey Goldberg, giornalista dell’Atlantic, l'ex segretario di Stato Usa Hillary Rodham Clinton ha criticato duramente il presidente Barack Obama (ai minimi di popolarità negli Stati Uniti). Secondo Hillary Clinton, se lo Stato Islamico è riuscito a conquistare tanto terreno in Iraq è grazie a un vuoto di potere creatosi sul campo. Vuoto di cui gli Usa sarebbero diretti responsabili, a partire dalla decisione di non intervenire nella guerra civile siriana.
Insomma, ella ha lasciato capire senza mezzi termini, che considera l’ approccio del presidente Obama alla politica estera troppo cauto poiché è convinta che, “Obama deve prendere esempio da Netanyahu, perché se avessimo agito con la stessa decisione in Siria i combattenti della Jihad non ci sarebbero sfuggiti di mano, come poi è accaduto.”, ha concluso l’ex segretario di Stato.
Stando così le cose non c’è speranza di modificare - Obama vi ha tentato soltanto a parole - una politica estera indissolubilmente nazionalista stravolta da una de-secolarizzazione crescente. Infatti, il ‘the Creed’ è diventato quasi una sorta di ossessione. Non c'è discorso, commento, nel quale non venga menzionato. Questo spiega la facilità con cui si continuano a tollerare metodi come la tortura e si investe di poteri illimitati il Presidente, consentendogli di tenere in carcere indefinitamente persone che non solo non sono state giudicate, ma sovente nemmeno accusate.
Secondo Amnesty International, dopo l’11 settembre oltre 1200 persone di origine mediorientale (o appartenente a comunità musulmane) erano state arrestate. Più di un anno dopo, 327 erano ancora segretamente detenute, dopodiché il Dipartimento di giustizia ha smesso di fornire le cifre. Sicché la questione della sicurezza nazionale ha portato ad abusi (Guantanamo) che hanno scavalcato il drammaticamente famoso reticolato delle basi militari, diventando una pratica corrente, destinata a durare chissà per quanto tempo ancora.
Intanto, le ultime notizie del New York Times narrano di un governo americano che discute sulla possibilità di allargare alla Siria il suo impegno contro lo Stato Islamico (IS), la milizia di estremisti sunniti che - come detto - ha conquistato gran parte del nord dell’Iraq e della Siria orientale. A confermare la volontà degli Stati Uniti di aumentare l’impegno contro l’IS, Martin Dempsey, capo dello stato maggiore congiunto (cioè l’ufficiale di rango più elevato delle forze armate), ha dichiarato l’altro ieri, che non è possibile sconfiggere l’IS senza colpire in Siria.
Poche ore dopo, il segretario alla Difesa Hagel ha ammesso che al momento “tutte le possibilità sono prese in considerazione”. Anche i membri del partito repubblicano - e non potrebbe essere diversamente - sono favorevoli a un intervento maggiore. A togliere le ultime perplessità ci ha pensato il senatore John McCain, ricordando al Congresso che lo Stato islamico «è un cancro che si è diffuso nella regione e che può arrivare fino in Europa e negli Stati Uniti».
Riemerge così lo scenario del Golfo di dieci anni fa. E dunque, la guerra in Medio Oriente, la Jihad, offrono di nuovo il pretesto per riproporre il tema della superiorità della civiltà occidentale rispetto a quella islamica, o della religione ebraico-cristiana rispetto a quella musulmana.
Con l’intento di riaffermare le vecchie immagini, gli antichi capi d’accusa secondo i quali l’Islam è una religione violenta e che si è diffusa con l’uso delle armi; una religione dissoluta dal punto di vista morale, piena di false affermazioni e di consapevoli capovolgimenti della Verità.
Pertanto, Maometto, con tutte le sue debolezze morali, non poteva che essere il fondatore di una falsa religione e, come tale, uno strumento o un inviato del demonio. Dichiarazioni come quella del senatore John McCain, ci riportano di colpo all’epoca delle crociate, durante le quale la ricerca di un nemico detestabile per una guerra giusta e santa - la liberazione dei cristiani d’Oriente - necessaria alla creazione del mito aggregante dell’Europa attorno al papato, non indicò più i musulmani come la gens perfida Saracenorum del monaco Flodoardo del X secolo, ma a individuare nei musulmani il nemico da abbattere.
Si negava in tal modo alla cultura musulmana ogni significato spirituale o religioso attraverso gli scritti di Pietro il Venerabile, San Tommaso d’Aquino, Ricoldo di Montecroce. L’Islam diventava impostura, perversione deliberata della Verità, la religione della violenza e della spada, con Maometto che rappresenta l’anticristo, e via di questo passo. Così gli stereotipi negativi sul mondo musulmano hanno percorso l’Europa, varcato gli oceani sopravvivendo nella coscienza occidentale. Anzi sono riesplosi dopo che si è visto il video con l'esecuzione del giornalista americano James Foley.
Questo accade anche perché le insoddisfazioni sociali, la partecipazione comunitaria che nel secolo scorso erano espresse dalle ideologie marxista o nazionaliste, si sono incanalate sui percorsi religiosi assumendone i rituali e i linguaggi. Se l'America si avvita intorno alla city on the hill, al ‘the Creed’, l'Europa cristiana tende l'orecchio a papa Francesco e ne assorbe i consigli.
Dall'altra parte del Mediterraneo, il bisogno di sicurezze, di valori autentici in un’epoca così confusa e incerta ha ritrovato, dopo il fallimento delle tante primavere arabe, nell'Islam l'unico punto di riferimento. Il Califfato ne è la conferma?
Si tenga a mente che l’Occidente ha dedicato fondi ed energie per studiare gli usi e i costumi dei musulmani, ma nessuno ha mai veramente concesso agli altri di studiare gli usi e i costumi dell’Occidente. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalla possibilità per i musulmani agiati di andare a studiare a Oxford, a Parigi, ad Harvard. Perché una volta tornati a casa, sono proprio costoro che si arruolano per primi nei movimenti fondamentalisti? Perché hanno scoperto che in Occidente qualcosa non funziona? O le ragioni sono altre? Gli Stati Uniti la risposta l'hanno data, l'Europa in silenzio si associa.
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di redazione
Scritto, diretto ed interpretato da Simona Lacapruccia, con i danzatori Daniele Toti e Silvia Pinna, realizzato con la produzione GDO, lo spettacolo Bellissima - omaggio ad Anna Magnani è stato vincitore del concorso teatrale nazionale “Teatrando, oggi il teatro lo facciamo noi” nel 2013. Ora, dopo aver debuttato nel 2014 al teatro Tordinona e Studio Uno di Roma, è in questi giorni in concorso alla manifestazione del “Roma Fringe Festival” 2014.
Proprio a 40 anni della morte di Anna Magnani è giusto che venga ricordata e omaggiata una donna che tanto ha dato all’Italia, al cinema e al teatro con il suo lavoro, fatto con estremo amore e dedizione.
Bellissima - omaggio ad Anna Magnani, è uno spettacolo delicato che ripercorre le tappe più importanti della vita della grande attrice romana. Una donna forte, passionale ma anche dolce e sensibile, che metteva tutta se stessa nel lavoro e nei rapporti umani. Grazie all’intrigante connubio con la danza, che esemplifica nel gesto le parole, il pubblico si immerge nella vita di Nannarella, simbolo di Roma e del cinema internazionale.
Una vita piena, vissuta con coraggio; dall’infanzia priva degli affetti più importanti, quelli di un padre e di una madre, alla passione travolgente per la recitazione, dalle relazioni turbolente con uomini come Roberto Rossellini all’amore più forte, quello per l’adorato figlio Luca, malato di poliomelite. Ragazzo timido ma forte, che le rimase accanto fino alla fine con coraggio, quando un tumore al pancreas la portò via troppo presto ad una Roma in lacrime.
Attraverso il monologo, nel quale le parole di Anna Magnani risuonano, il pubblico entra nell’intimo dell’animo della grande attrice, delicata e passionale, taciturna e “caciarona”, nostalgica e intraprendente.
L’attrice metteva tutta se stessa nell’interpretazione dei personaggi, delle donne a cui dava voce, corpo e anima grazie a uno studio intenso e approfondito.
Pina, la protagonista di Roma città aperta, la monumentale e tragica Mamma Roma di Pasolini che balla lo struggente valzer con l’attore-figlio o Maddalena, protagonista divertente ma intensa di Bellissima, tutte le donne da lei interpretate avevano qualcosa di se stessa: la forza, la dolcezza, la poesia, il dolore, l’inconfondibile risata…Quello che si evince dallo spettacolo è che a rendere indimenticabile Anna Magnani sia stata proprio la passione.
Bellissima è scritto e recitato da Simona Lacapruccia in forma di monologo, come fosse una lunga lettera composta da tante ipotetiche lettere che Anna Magnani avrebbe potuto scrivere, alla madre che l’ha abbandonata troppo piccola, al figlio Luca, ma è anche una sorta di “confessione” o “sfogo” che l’attrice fa al suo pubblico.
La passione per il suo lavoro, per la vita anche se difficile, per gli uomini, per il figlio, per l’arte e per il cinema che l’ha tanto osannata quanto poco considerata alla fine della sua carriera come filo conduttore di una vita intera.
Come dice il figlio Luca, Anna Magnani si è fatta strada in un mondo maschile e maschilista e l’ha fatto da sola, spinta dall’amore per il suo lavoro, dallo studio profondo per migliorare, dall’essere autocritica e pignola e dall’amore per la recitazione.
Lo spettacolo è impreziosito e reso ancora più emozionante dalle coreografie dei danzatori, che danno corpo alle parole di Anna Magnani, arrivando a toccare con la loro danza le corde del cuore degli spettatori.
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di Vincenzo Maddaloni
Quando, giovedì 18 maggio del 1989, piazza Tienanmen si gonfiò di operai, contadini, massaie, in aggiunta alle migliaia di studenti impegnati in un drammatico sciopero della fame che li abbatteva a decine per sfinimento, e mentre l'esempio di Pechino veniva seguito dalle altre maggiori città del Paese, il sogno di libertà e democrazia sembrava - 25 anni fa - a portata di mano in Cina.
Infatti, non c'era stata nessuna violenza da parte dei dimostranti, i militari s'erano dichiarati non disposti a marciare «contro i nostri figli», le reiterate promesse di Zhao Zyang, segretario del Partito comunista cinese (che poi sarà punito dal regime cinese con gli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta all'età di 85 anni nel 2005), tutto insomma sembrava presagire l'arrivo di una "primavera" che si andava delineando da tempo e che si manifestava apertamente alla vigilia della visita in Cina del segretario del Pcus Michail Gorbaciov. Siccome gli studenti avevano cominciato a chiedere una informazione senza bavaglio, i giornali erano come non mai, in quei giorni, un osservatorio privilegiato su quanto andava accadendo.
"Hanno ragione gli studenti ad esigere la libertà di stampa», mi diceva Fan Rong Kang, "fanno bene i giornalisti ad accodarsi al loro coro: bisogna cambiare». Il signor Rong Kang a quel tempo era il vice direttore del Quotidiano del Popolo, 4 milioni di copie, l'organo del Partito. L'avevo incontrato nell'ultimo giorno del vertice russo-cinese, che era stato l' esatto contrario di quel "momento storico" che tutti noi “inviati a Pechino” ci eravamo immaginato di descrivere.
Le giornate di Michail Gorbaciov in Cina dovevano essere per Deng Xiaoping le giornate del trionfo, il punto culminante dei suoi settant'anni di carriera politica, che comprono la gran parte della storia del comunismo cinese. Deng rappresentava negli Anni '49-'58 l'amicizia con l'Urss, poi la rottura, della quale fu uno dei massimi protagonisti, il più esposto alle umiliazioni quando Krusciov nel luglio del 1960 ritirò i tecnici e i crediti con i quali la Repubblica popolare iniziava a risollevarsi dai disastri della guerra.
Il fatto che Gorbaciov avesse finito con l'accettare tutte le richieste poste dalla diplomazia cinese doveva essere appunto per Deng Xiaoping il coronamento della sua carriera di leader. Invece, dapprima la rivolta degli studenti che agitavano striscioni con su scritto "Liberiamo la Cina dal feudalesimo", e "Benvenuto compagno Gorbaciov, iniziatore della glasnost", e poi il dilagare della protesta nel Paese, gli avevano non soltanto eroso il prestigio, ma anche guastato la festa facendo prevalere, su ogni altra, l'immagine della gravissima crisi che stava vivendo nel 1989 il regime comunista cinese.
«La stampa ha la sua grande parte di colpa - mi spiegava Fan Rong Kang - i guai sono cominciati verso la fine di Aprile, quando gli studenti sono andati a protestare davanti alla sede del Partito. Sono nati dei tafferugli, gli studenti sostenevano di essere stati duramente picchiati dalle forze dell'ordine. Queste affermavano il contrario. I giornali hanno taciuto, a cominciare dal mio. Sarebbe bastato riportare le due versioni. Non lo si è fatto poiché, come è abitudine nei sistemi socialisti, le notizie non vengono diffuse prima che le indagini siano concluse. L'eccessiva prudenza, questa volta, ci si è rivelata fatale».
Per giorni e giorni c'eravamo chiesti come sarebbe finito l'assedio di piazza Tienanmen. Se avrebbe prevalso la ragione cercando il dialogo con la società e cogliendo l'occasione per ampliare alla sfera politica il rinnovamento già attuato in quella economica. Invece prevalse il folle istinto della restaurazione, tremenda fu la controffensiva di un gruppo di potere che si sdraiò sulle baionette dei suoi soldati lanciando anatemi contro «le forze controrivoluzionarie» che andavano liquidate con «una guerra ad oltranza».
Così, con raffiche delle mitragliatrici s'era disintegrata la posizione di prestigio che la Cina s'era conquistata in dieci anni di riforme. Il bagno di sangue l'aveva di nuovo isolata dal resto del mondo, aveva dissolto l'immagine di Paese pragmatico, interessato soprattutto alla crescita economica che Deng aveva pazientemente tessuto per quasi un decennio conquistandosi la popolarità internazionale.
E' proprio l'enormità del massacro, visto da milioni di occhi collegati via satellite alla piazza Tienanmen, che condannò la Cina al più cupo isolamento. La sproporzionata repressione, il ricorso al linguaggio del comunismo "puro e duro", l'improvvisa marcia indietro, restano a tutt'oggi incomprensibili. A meno che non si cerchi una spiegazione di quanto è accaduto nella Storia stessa della Cina. Infatti, il rifiuto d'una cultura arcaica che da secoli s'oppone ai cambiamenti, era stato da sempre il filo conduttore delle rivolte studentesche: dal 1919 alla guerriglia contro il Kuornintang, alla Rivoluzione culturale, ai moti del '74 e del '78 contro il maoismo, alle dimostrazioni per la democrazia dell'86 e dell'aprile-maggio di 25 anni fa. «Non ci accontentiamo di diventare adulti», gridavano i ragazzi cinesi. «Vogliamo diventare uomini».
Ricordo che in piazza Tienanmen avevano innalzato lo stesso tatzebao che un anno prima era affisso nel campus di Beida, il più prestigioso ateneo di Pechino. Vi era scritto: «Siamo una generazione con il senso dell'individualismo e dell'inventiva, ricca di ideali che la danneggiano, piena di curiosità inopportune, considerata l'atmosfera. Vorremmo dare un nostro contributo, ma le aspirazioni battono il naso nella realtà, i progetti si dimostrano inattuabili, lo spirito fa a pugni con il corpo. Che tristezza! I sogni e l'entusiasmo muoiono, a causa della contraddizione fra i diritti con cui ogni essere umano nasce e le catene che gli vengono imposte». E poi c'era la chiusa contro il potere: «Il Governo ci ha dato un po' di benessere, ma sul piano morale nulla: non ha valori da proporre alla società se non il valore dei soldi».
Gli universitari chiedevano la modernizzazione nella quale la democrazia, una democrazia minima, di base - libertà d'espressione, di riunione, di stampa - rappresentava soltanto l'aspetto politico. Più importanti erano le loro richieste d'ordine morale (pulizia nell'apparato amministrativo, lotta alla corruzione), e d'ordine culturale, che sono poi le caratteristiche del movimento studentesco cinese a cominciare dalla sua nascita, 95 anni fa, il 4 maggio del 1919.
«L'immagine che i giovani hanno oggi della classe al potere è la peggiore di questi quarant' anni per via della corruzione dilagante, con migliaia di funzionari del partito sotto inchiesta; per via degli squilibri che la riforma ha provocato nella società: la nuova povertà dei salariati e la nuova ricchezza dei piccoli imprenditori, dei commercianti, dei burocrati, che per firmare una licenza esigono tangenti», mi diceva Shen Rong, quasi certamente la più impegnata scrittrice cinese del Novecento.
Avevo chiesto a Shen Rong se davanti alla sfida della piazza, una sfida pacifica ma non per questo meno rivoluzionaria, il potere cinese avrebbe potuto cavalcare la tigre del malcontento aprendo alla democrazia con una soluzione "gorbacioviana". Lei aveva risposto richiamandosi al concetto chiave della civiltà cinese, quello dell'armonia sulla quale andrebbero monitorati i rapporti tra gli uomini. «Non possiamo compiere fughe in avanti. Con questo non voglio dire che non bisogna aprire alle tecnologie occidentali, ma tutte queste iniziative vanno intraprese cercando nel frattempo di imporre alla nostra società una crescita armoniosa. E non ci può essere armonia se accanto ai nuovi ricchi c'è una massa con degli stipendi da fame».
Più o meno ella mi aveva ripetuto quello che Lu Xun, l'ideologo della prima rivoluzione studentesca, scrisse nel 1919: «Il Paese corre verso il baratro. Ciò accade perché non possediamo una nuova morale e una nuova scienza. Ciò accade perché abbiamo una cultura che fa pietà, dopo essere stata tante volte demolita e tante volte rabberciata».
Venticinque anni dopo c'è ancora il silenzio su quelle immagini dei morti di piazza Tienanmen. Non c'è stato un chiarimento sulle cause vere che avevano provocato quella primavera di sangue. Cosa gridavano gli studenti in quei giorni di giugno del 1989? Gridavano: «Non ci proponiamo di abbattere il partito, ma semplicemente di spingerlo a prendere coscienza dei grandi cambiamenti che è stato capace di produrre negli ultimi dieci anni e ad adeguarvisi».
Chiedevano il riscatto dell'utopia cinese classica della Grande Armonia, secondo la quale la democrazia va appunto intesa come la grande armonia. Di fronte ai problemi di sempre: disoccupazione, sovrappopolazione, corruzione i giovani avevano rispolverato il concetto della Grande Armonia, senza sapere che né Zhao Ziyang, né tanto meno Li Peng avrebbero potuto creare dal nulla i dieci milioni di posti di lavoro per gli altrettanti studenti che si sarebbero diplomati nei tre anni successivi.
Tuttavia, quale altra protesta potevano sollevare se la loro esperienza storica sul progresso e sulla democrazia era tutta racchiusa negli ultimi 80 anni di Storia della Cina: il crollo del Celeste Impero, l'assorbimento del marxismo ancora in chiave confuciana, la rivoluzione di Mao, le riforme di Deng? Beninteso che le riforme, la politica della "porta aperta", la "grande apertura verso il mondo" avessero provocato storture e malesseri era prevedibile da tutti, ma nessuno si aspettava di vedere falciare tanti giovani dai cingoli dei carri armati. Meno che mai gli studenti di piazza Tienanmen.
Invece, dopo il massacro di quel 4 giugno del 1989 accanto a Deng Xiaoping riapparvero gli ottuagenari, i conservatori del "Consiglio dei saggi" usciti dalle tenebre dove erano stati ricacciati dal Congresso del 1987. Le telecamere si posarono su quei visi immobili, su quella gerontocrazia della Lunga Marcia che accumulava sospetti sulla perestrojka e sulla glasnost, moltiplicava le diffidenze sulla sincerità riformista di Gorbaciov e sul successo duraturo delle sue trasformazioni. Del resto la Cina con quel processo di “apertura" s'era già spinta più avanti della Russia di Gorbaciov. Una classe media si stava già consolidando, gli studenti educati con gli slogan della “porta aperta” esigevano una nuova morale, l'ala del partito che faceva capo a Zhao Zyang considerava già inevitabile il varo d'una riforma politica.
Nel 1989 in Cina, l'egualitarismo, l'obbedienza, il sacrificio erano diventati concetti desueti. Le riforme economiche stavano uccidendo la vecchia ideologia, senza crearne una nuova, perché il Pcc, una volta sfaldatasi la retorica socialista, non aveva saputo far altro che tentare la via del pragmatismo, che era stata poi quella che aveva dato lo spunto alla contestazione studentesca. Poi, come accadde nel 1966 ai tempi della rivoluzione culturale, la Cina fu riportata all'ordine dai militari e fu annunciato il nuovo rigore dal quale avrebbe dovuto nascere la nuova Grande Armonia orchestrata dai militari. Sicché Deng, l'uomo delle riforme che sembrava guardare con simpatia alla Russia di Gorbaciov, si consacrerà alla Storia come l'uomo che il 4 giugno del 1989 in piazza Tienanmen seppellì nel sangue un sogno.
A ben vedere, il "Diario di un Pazzo", scritto e pubblicato nel 1918, conserva il sapore della profezia, poiché Lu Xun - l'autore - raccolse l'appello comune che avrebbero voluto lanciare all'unisono tutti i giovani intellettuali cinesi dell'epoca, le cui idee nuove, le cui speranze, venivano frustrate dall'apatia, dalla rassegnazione, e dall'ottusità delle classi dirigenti e della società stessa. «Dovete cambiare, cambiare dal profondo dei vostri cuori. Dovete capire che non ci sarà più posto per i mangiatori di uomini in futuro. Se voi non cambiate, finirete tutti mangiati, gli uni dagli altri... finirete uccisi come i lupi dai cacciatori, come i rettili!». A distanza di così tanto tempo il suo appello è quanto mai attuale, e non soltanto in Cina. Provate a pensarci.