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di Sara Michelucci
Un rapporto stretto quello che c’è tra gli animali e gli esseri umani. Tanto che per ogni uomo esiste un corrispondente nel mondo faunistico, che ne rispecchia le caratteristiche. E così le aragoste sono i nuovi ricchi, difficili da prendere e che non provano dolore. È la metafora che Piero Balzoni usa nel suo romanzo d’esordio, Come uccidere le aragoste (Giulio Perrone editore), per raccontare la storia di Claudio Amodio, 34enne che lavora per una organizzazione non governativa, adora lo stadio, fuma hashish.
Claudio perde la vita a bordo del suo scooter, dopo essere stato travolto da un’auto pirata sulla tangenziale. Un Suv nero che corre via e non si ferma a prestare soccorso. Spetta a suo fratello Luca ricevere la notizia e comunicarla ai suoi genitori. Ma ben presto Luca si metterà a caccia degli assassini di suo fratello, in una Roma che è sempre più misera moralmente e dove la prepotenza ha la meglio sulla vita degli individui.
“Avevo scritto una prima raccolta di racconti, Animali migratori, che era il tentativo di raccontare gli essere umani attraverso gli animali”, spiega Balzoni. “Successivamente è nata l’idea di realizzare un romanzo e il rapporto che c’è tra animali e esseri umani è diventato quasi una filosofia di pensiero. In ogni essere umano, infatti, si può riscontrare una particolare tipologia di animale. Le aragoste nel mio romanzo sono i nuovi ricchi e mi serviva questa immagine per raccontare la storia di Luca”. Nel romanzo “la metropoli si popola di essere viventi che appaiono a Luca come animali”.
Un modo, questo, per raccontare anche una città difficile come Roma. “Ho sempre provato ad andare via da Roma - prosegue Balzoni - ma sono sempre stato restio a lasciarla. Ho un rapporto di amore e odio con la mia città e nel romanzo non poteva non essere una delle protagoniste. Anzi forse è la vera protagonista. Una città prepotente e dove la violenza è alla base di ogni gesto. Mi interessava, però, parlare di una vicenda umana, personale, non politica, ma che attraversa quella prepotenza. Il mondo in cui si muovono i miei personaggi è fatto di aggressività e di soprusi”.
Un mondo sicuramente sbagliato, ma reale, concreto e che non è difficile da riconoscere come vicino alla propria esistenza. “Quello in cui Luca trova a doversi destreggiare è un universo che non lo considera, un mondo dove è difficile avere giustizia, sostiene Balzoni”.
E in Luca c’è sicuramente parte del suo autore. “Ovviamente mi sento vicino a questo personaggio. Mi ci ritrovo nell’immobilismo, nei concetti primitivi che si fanno azione, nella ricerca di giustizia, nella solitudine e nella incapacità totale di rispecchiarsi in un ambito preciso”.
Balzoni racconta in un certo senso la normalità, ma lo fa mettendo l’accento sulle difficoltà di relazionarsi con una metropoli difficile. “Non è né povero né ricco. Fa parte di una famiglia che tutto sommato ce l'ha sempre fatta. Tutto quello che ha fatto fino al momento dell’incidente lo ha fatto pensando che il fratello maggiore potesse rappresentare per sempre la sua guida. Invece sarà costretto a diventerà la guida di se stesso”.
La mancanza di un punto di riferimento fermo e preciso, è un altro tema che si ritrova nel romanzo. “É vero che anche la nostra generazione non ha mai avuto una guida, abbiamo sempre avuto delle figure 'adottive' mutuate dal passato. Da Pasolini a Che Guevara, passando per miti musicali o cinematografici. Figure di leadership che non appartengono al nostro tempo, in cui mancano totalmente”.
E anche il concetto stesso di fare cultura diventa uno spunto: “La cultura è una cosa spontanea, che nasce come un fungo, quindi naturalmente. È vero, però, che va coltivata, rilanciata e sostenuta. Certo è che, come paese, non siamo stati capaci di stimolare e di far cresce alcuni movimenti culturali che ci sono stati e che rappresentavano delle occasioni importanti”.
Come Uccidere le aragoste è vincitore del Premio Orlando Esplorazioni 2015 e si è guadagnato un secondo posto al Premio Letterario Nazionale Città di Forlì XI edizione.
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di Vincenzo Maddaloni
BERLINO. Per celebrare i loro fasti coloniali, l'approccio degli inglesi sicuramente non sarebbe stato lo stesso. Avrebbero rispolverato le cornamuse, i pifferi, tra un grande sbattere di tacchi e l'arroganza che li contraddistingue., Diverso infatti è il tono usato dei tedeschi. Discreto, sommesso, quasi pretesco ma non per questo meno pervaso di orgogliosa solennità.
Ne è una riprova la mostra “Dance of the Ancestors Art from the Sepik of Papua New Guinea” (resterà aperta fino al 15 di giugno al Martin-Gropius-Bau di Berlino), che offre lo spunto per ricordare che è esistito pure l'Impero coloniale tedesco il Deutsche Kolonien und Schutzgebietee che durò soltanto 35 anni.
Infatti, la Nuova Guinea è stata dal 1884 un protettorato tedesco che comprendeva il territorio della parte nord-orientale del Paese e alcuni arcipelaghi vicini, che rimasero appunto sotto il controllo coloniale germanico fino al 1919 quando, a seguito della sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale, furono ceduti con il Trattato di Versailles all'Australia.
E così il defilé di sculture e di antiche immagini nella mostra al Martin-Gropius-Bau di Berlino fa tornare in mente Christa Wolf quando scrive che “il passato non e? morto; e non e? nemmeno passato”, sebbene, “noi ci stacchiamo da esso fingendoci estranei”.
Beninteso la memoria del passato - tra rimozione ed eterno ritorno – non ci guadagna in profondità e in complessità, piuttosto in semplificazione, superficialità, e sempre più spesso in manipolazione. Non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria pubblica, collettiva e politica, costituita da moltissimi elementi a loro volta condizionati dalla volgarizzazione della cultura di base realizzata con le forme moderne di retorica e di populismo, messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Sicché i potenti non possono che esserne soddisfatti.
A loro modo lo facevano anche gli antichi romani: panem et circenses (letteralmente «pane e giochi [del circo]» e, quindi, dando a tutti la percezione di condividere un’idea di civiltà, di bene comune. E' l'universalismo, la globalizzazione che ha dato vita a queste società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo, ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. Pertanto la partecipazione civile si limita sempre di più a funzioni che permettono di raccomandare un contenuto, una memoria storica, un gesto politico con il fatidico e il semplice “mi piace”.
I tedeschi – finché possono – mantengono le distanze da questo universalismo dirompente che tanto piace agli anglosassoni che lo impongono. Ai tedeschi viene naturale prima evidenziare le differenze e poi, eventualmente, unirsi. Poiché è l’insicurezza cosmica che da sempre li guida nelle cose del mondo. È quella che li ha indotti a riformare la loro economia quando gli altri, America in testa, folleggiavano. Un segno di avvedutezza che li legittima nella guida d’Europa. Ne vanno fieri.
E'una consuetudine di governo che ha radici antiche. Infatti la bandiera tedesca fu piantata nel Pacifico non dalle armate del sovrano, bensì da Herr Adolf von Hansemann, direttore della Disconto-Gesellschaft, una delle più importanti banche tedesche dell'epoca e fondatore della Compagnia della Nuova Guinea Tedesca, la Deutsche Neuguinea-Kompagnie creata il 26 maggio 1884 con lo scopo di fondare una nuova colonia commerciale nella regione della Nuova Guinea non ancora occupata dalle altre potenze coloniali.
Il governo tedesco però vi giunse due anni dopo, poiché l'intraprendente direttore, sommerso dalle difficoltà, fu costretto a “girare” allo Stato il mandato della Deutsche Neuguinea-Kompagnie.
Raccontano i libri di storia che soltanto il 1º aprile 1899 la Germania prese ufficialmente il controllo del territorio e il 30 luglio di quello stesso anno, a seguito di un trattato con la Spagna, acquisì dei nuovi territori, diventando una potenza coloniale da tutti paesi riconosciuta.
Come tale durò poco poiché, come detto, allo scoppio della prima guerra mondiale le forze australiane occuparono Kaiser-Wilhelmsland mentre il resto dei possedimenti coloniali della Nuova Guinea Tedesca vennero invasi dal Giappone. Dopodiché con il Trattato di Versailles l'avventura coloniale germanica si estinse.
Di questo e di altro se ne fa cenno nel catalogo della mostra al Martin-Gropius-Bau, ma soltanto per ricordare che la Grande Guerra bloccò l'opera degli esploratori tedeschi i quali avevano scoperto le foci del fiume Sepik dopo aver per primi navigato quelle acque sulla nave tedesca Ottilie. E chissà quant'altro avrebbero scoperto ancora se non ci fosse stato il conflitto, lascia intendere la breve nota della mostra.
Naturalmente essa ricorda pure che la spedizione (1912-1913) del Königliches Museum für Völkerkunde (Museo Reale di Etnologia) di Berlino è bastata per far capire al mondo che la zona intorno al fiume Sepik è una delle regioni più importanti per la ricerca etnografica e scientifica nei mari del Sud. La conclusione è - anche se non è scritto in modo esplicito - che da quando il mandato della Società delle Nazioni è stato affidato all'Australia con il nome di Territorio della Nuova Guinea, si è fatto ben poco, quasi niente.
Ricordo che quando negli anni Settanta attraversai per la prima volta l'ex Kaiser-Wilhelmsland diventato Papua Nuova Guinea; dalla capitale Port Moresby a Mount Hagen, da Angoram sul fiume Sepik fino a Wewak che si affaccia sul Mare di Bismarck, di tedesco oltre il nome del mare era rimasto ben poco, almeno così sembrava al primo impatto.
Invece, per essere nel vero, erano rimaste le parrocchie luterane e cattoliche, più numerose le prime delle seconde, sebbene le cattoliche siano ancora oggi le più “fortunate” per numero di fedeli, poiché i loro riti ecclesiali meglio si conciliano col folclore dei culti dei nativi. Inoltre, ancora si parlava e si parla tuttora una sorta di lingua locale mescolata alla lingua germanica denominata Unserdeutsch oppure il Creolo tedesco di Rabaul, la città che fu per oltre un ventennio il quartier generale della Nuova Guinea Tedesca.
Insomma, se si tiene a mente che il 30 per cento della popolazione pratica culti tradizionali, per lo più combinandoli con il Cristianesimo e il restante 69 per cento degli abitanti dichiara di praticare esclusivamente la religione cristiana, ben si capisce che i tedeschi hanno lasciato un segno indelebile. E quel risultato non l'hanno gridato, anzi non l'hanno nemmeno celebrato nemmeno adesso, con la mostra.
Un altro segnale di avvedutezza che rientra nelle abitudini tedesche. Non vi è Paese in Europa dove il dibattito politico sia così attutito dal bisogno di non spaventare gli elettori e i vicini. Non vi è mai nulla di gridato. Decisamente l'opposto di quanto accade in Italia. La differenza si vede. Il Paese è competitivo, stabile come mai lo è stato e il governo di Angela Merkel è inattaccabile per chiunque voglia criticarne i risultati.
Eppure George Friedman, americano di origini ungheresi, presidente del think-tank Stratfor, “un’autorità” in materia di intelligence tattica e strategica globale,come lo ha definito il NYTimes, parlando della Germania ha usato parole pesanti come pietre: “Per gli Stati Uniti la paura fondamentale è che il capitale finanziario e la tecnologia tedeschi si saldino con le risorse naturali e la mano d’opera russe”. Ha aggiunto che è “l’unica alleanza che fa paura agli Stati Uniti, cerchiamo di impedirla da un secolo”.
E ancora: “Mentre gli Stati Uniti stendono il loro cordone sanitario fra Europa e Russia, e la Russia cerca di tirare l’Ucraina dalla sua parte, non conosciamo la posizione della Germania che con la Russia ha relazioni particolari”.(per esempio l’ex Cancelliere Schoeder oltre a presiedere il consorzio NorthStream è nel cda di Gazprom).
Friedman parlava al Chicago Council of Global Affairs, una sorta di sede distaccata dell’influente Council of Foreign Relations nel cui board figura anche Michelle Obama.
Eppure il presidente del think-tank Stratfor non s'è posto complessi quando ha concluso ribadendo con veemenza: “La Germania è la nostra incognita. Cosa farà? Non lo sanno nemmeno loro, i tedeschi”. Insomma per Friedman la Germania “gigante economico, ma fragile a livello geopolitico è l'eterno problema. Dal 1871 la questione europea è questione tedesca”.
Non v'è stato un cenno ai comportamenti dell'Italia, per non dire della Francia e di tutto il resto dell'Europa. Dopotutto, “io sono il primo servitore dello Stato”, lo disse Federico, re di Prussia, mica altri.
Se lo si confronta con l'irrefutabile "L'Etat c'est moi" di Luigi XIV rifulge in tutta la sua dimensione la diversità tedesca. Essa offre sempre nuovi pretesti agli americani per erigersi a dominatori del mondo; innervosisce gli inglesi, mette in crisi di identità i francesi, mentre i polacchi e i baltici si affannano riverenti a sostenere le mire americane, gli italiani titubano e quel che resta dell'Unione balbetta.
Quanto basta perché l'Europa si ritrovi di nuovo in guerra per colpa dei tedeschi? E' il post martellante che i neoconservatori americani diffondono. Attendendosi il “mi piace”.
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di Fabrizio Casari
Nato in un paese di andanti, di migrazioni mai insultate e di destini mai definitivi, di cognomi misti e storie intrecciate, di malinconie e poesie senza la noia dell’ovvio, Eduardo Galeano, giornalista e scrittore, ha sedotto almeno tre generazioni di lettori. L’uomo che volava scrivendo, nemico acerrimo di ogni dittatura ed entusiasta amico di ogni rivoluzione, ebbe a muoversi dal suo Uruguay, obbligato dai militari che, giustamente dal loro punto di vista, non ne apprezzavano la penna e la parola.
Dall’Uruguay all’Argentina, poi in Spagna, Eduardo Galeano dovette migrare per colpa di pensieri e parole poco gradite ai gorilla in uniforme che schiacciavano libertà e persone. Riuscì a fuggire dalle manette dei militari e da quelle delle opportunità e, per quanto l’esilio lo colpì, non divenne mai estraneo a nessuna terra e in nessun luogo.
A riconoscere il suo valore furono proprio i golpisti, che proibirono la circolazione del suo libro più importante, Le vene aperte dell’America Latina. In quel libro, tradotto in tante lingue e vietato in alcuni paesi, Galeano raccontò tutto quello che la regola dell’amnesia proibisce. Fu il libro che il presidente venezuelano, Hugo Chavez, nel 2009, regalò a Obama affinchè lo statunitense potesse comprendere la storia autentica del saccheggio e del sangue.
Lunga e variegata fu la produzione intellettuale che accompagnò i sentimenti di Galeano. Da Le vene aperte dell’America Latina alla trilogia Memorie del fuoco, da Giorni e notti di amore e di guerra, a L’America non è stata ancora scoperta, e poi l'incursione nel calcio con Splendori e miserie del gioco del calcio, quindi Il libro degli abbracci, Il mondo a testa in giù, Mujeres e tante altre pubblicazioni. Fondatore della rivista Brecha, collaboratore di molti dei giornali migliori dell’America latina, chi lo leggeva anche solo una volta trovava insopportabile poi non leggere tutto quel che scriveva.
Non c’è posto del mondo dove le persone sono state sottomesse al denaro, dove il disordine creativo sia stato imprigionato dalle leggi dell’invisibile mercato, che non abbia visto Eduardo Galeano a raccontare l’urgenza della memoria viva, il bisogno del rifiuto.
A spiegare come nacque l’impero e chi ne pagò il prezzo, come la crescita smodata del poderoso riposò sui cadaveri degli umili, come il sottosviluppo dei deboli non sia l’infanzia del loro sviluppo bensì la conseguenza dello sviluppo dei forti. Affascinato dalla cultura dei popoli indigeni d'America, raccontava di come Maya, Atzechi, Incas, senza il rumore degli stati moderni, conoscevano e diffondevano, apprendevano mentre insegnavano.
Ha raccontato l’umanità andante e ferita, i dannati della terra e le vittime designate del grande gioco della diseguaglianza, le carni e le idee di quei tanti, tra uomini e donne, capaci di vincere quando non c’era niente da perdere e capaci di perdere vincendo. Sembravano carezze le parole scritte, che anche quando incolpavano e condannavano riuscivano a trovare il tono dell’anima.
Come in una lettera all’umanità, come a voler riparare i torti della storia e le colpe delle amnesie, Eduardo Galeano sapeva accarezzare gli occhi e svegliare coscienze. Ha raccontato di criminali e di giusti senza mai incedere nel peccato della ragionevolezza.
In un mondo che rincorre il denaro e il successo, che misura ciò che si è a seconda di quanto si ha, Galeano ha rappresentato la ribellione delle parole, la rivoluzione del senso comune, i dettagli che formano le cose e le persone che poi cambiano la storia.
Insubordinato permanente alle regole dell’editoria consigliata, violatore impenitente dell’ordine consentito, ha contestato tutta la vita la dittatura della paura, mentre ha raccontato l’epopea degli umili con un amore assoluto, trasformando le parole d’amore nella più contagiosa delle armi. Terapista dell’indifferenza, insegnava a tenere dritta la spina dorsale.
La sua ultima migrazione lo vede andare ora, come sempre ha fatto, in ogni dove. Vi prenderà la residenza senza chiederne il permesso. E magari anche da lì scriverà per ricordarci che cessiamo di essere quando dimentichiamo chi siamo e che solo il batterci per il riscatto degli ultimi potrà permetterci di sentirci vivi.
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di Liliana Adamo
Una lunga storia di biodiversità marina? Senz'altro, ma introduciamo i fatti percorrendo una suggestione tra sogno e scienza per indicare un contesto di per sé tanto fragile, quanto straordinario. La trama è di Folco Quilici, giornalista, scrittore e fotografo: “Mare Rosso”, che completa una trilogia (“Alta Profondità” e “L’abisso di Hatutu”), tra il fantasy e, appunto, la scienza (intesa come biologia e tecnica della navigazione), è un modello non omologato di perenne ricerca.
Certo, come in ogni storia che si rispetti, ci sono i protagonisti e i loro caratteri, ci sono le imprese sottomarine nell’arcipelago delle Dahlak, a sud del Mediterraneo, di fronte alla Dancalia, una zona arida in superficie i cui fondali celano meraviglie inusitate. Foreste madreporiche policrome e rigogliose, senza pari al mondo e, chissà perché, il luogo rammenta vagamente la splendida Berenice, all’estremo sud dell’Egitto, a ridosso col Sudan… e chi non ha vaneggiato, una volta nella vita, d’essere artefice e primo attore di un’avventura negli abissi profondi fra creature inusitate, barriere coralline e antichi vascelli sommersi, o almeno, chi ama intensamente andar per mare.
Nel racconto di Folco Quilici, questo scenario è crocevia di un vasto e redditizio traffico d’armi, droga, merce umana, pirateria. E se nel frattempo le operazioni sottomarine si spostano dallo studio dei reef madreporici al rinvenimento (a sorpresa), di un sommergibile, ci s’imbatte anche in un salvataggio in extremis (alla maniera delle action stories), della protagonista femminile, Sarah, presa in ostaggio da moderni pirati, perfino più disinvolti e pericolosi, rispetto a quelli di un tempo.
Non tutto è frutto di fantasia: il contrabbando (di droga, armi e bambini - merce umana, appunto), esiste già da tempi non recenti, nello stretto di Bab – El – Mandeb, detto anche “ La Porta del Mare”, tra Africa e Penisola Arabica (posto funambolico, cui raccontava, appunto, anche Jules Verne, in le “Mirabolanti avventure di Mastro Antifer”). “Una nave sconosciuta, con un capitano sconosciuto, va alla ricerca, su un mare sconosciuto, di uno sconosciuto isolotto…”.
La Porta della lamentazione funebre (in arabo: Bab al-Mandab), separa lo Yemen da Gibuti, congiungendo il Mar Rosso al Golfo di Aden e dunque all’Oceano Indiano. In un’estensione di soli trenta chilometri, si trova un’isola (Perim), che divide esattamente in due lo stretto, formato da più canali, come B?b Iskandar (Porta di Alessandro) e Daqqat al-M?yy?n: la mitologia araba vuole che questo sia il luogo delle lacrime versate per il distacco dell’Africa dall’Asia, ma il nome rimanda pure all’estrema rischiosità delle sue acque per chi vi navigasse e vi navighi tuttora.
Estendendosi a sud del Mar Rosso – che va, ricordiamolo, dall’estremo lembo della penisola del Sinai e da quasi cento anni collegato attraverso il canale di Suez, al Mediterraneo - questa profonda cavità rettilinea che divide i due continenti, è in parte, zona di malaffare e pirateria, ma anche un sito unico nel suo genere, biologicamente attraente, come d’altronde possono definirsi tutte le specificità e le anomalie di questo mare.
Il fondale che più a nord raggiunge i tremila metri di profondità, presenta da sé, già un evento singolare, risalendo fino a cento metri sul pelo dell’acqua, grazie a un curioso fenomeno di marea, vale a dire un movimento in superficie, ondeggiante in modo quasi compatto: si sposta verso il basso d’alcuni metri a un’estremità, per risollevarsi d’altrettanti parametri nella parte opposta.
Secondo gli storici, fu proprio in un momento di depressione particolarmente smorzata nel livello di marea, che, passando nel Mar Rosso attraverso la Porta della lamentazione funebre, gli Ebrei di Mosè abbandonarono l’Egitto per raggiungere il Sinai.
Ma torniamo al romanzo di Quilici: come in ogni avventura sottomarina che si rispetti, c’è un relitto da rinvenire, anzi, in realtà, un sottomarino, per giunta italiano, carico di denaro fuori corso. Come spiega l’autore, nel caso di “Mare Rosso”, la ricerca è stata complessa: la storia (autentica e ufficiale), di siluranti italiani inabissati nell’area e in parte, distrutti dai gas sviluppatosi al loro interno, è di per sé un fatto storicamente comprovato, privo comunque di dossier circostanziati e soprattutto di mappe sulla dislocazione dei resti.
Basti ricordare che le operazioni militari nell’ambito della cosiddetta Campagna dell’Africa Orientale Italiana, vincolate alla guerra del ‘40 (fino alla caduta di Massaua, nell’aprile del ‘41), intrapresero un’opera di potenziamento nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden, per porti e basi navali come guarnigione e da ostruzione al traffico marittimo inglese.
Cacciatorpediniere e sommergibili oceanici (la flotta era composta da: Archimede, Galileo Galilei, Evangelista Torricelli, Galileo Ferraris, Luigi Galvani, Alberto Guglielmotti e due sommergibili costieri, Perla e Macallè), con altre unità ausiliarie, erano in condizioni obsolete, privi di un equipaggiamento ad hoc per operare in quelle condizioni climatiche di caldo torrido. Se mettiamo in conto, per esempio, impianti elettrici mal funzionanti (per l’elevata umidità ambientale) e installazioni per condizionamento a cloruro di metile (gas tossico e pericoloso, che, in più di un’occasione fu causa d’avvelenamento per interi equipaggi), il regime monsonico di un mare per il quale questi scafi non erano stati progettati, il quadro generale, sull’inabissamento dei sommergibili italiani, sembra essere preciso.
La riserva di biodiversità più vicina all’Europa
Lambito a ovest dalle propaggini orientali del Sahara, a est dal deserto arabo, isolato dalle acque circostanti per lo scarso ricambio che si produce, a nord, attraverso l’esiguo sbocco nel canale di Suez e a sud, grazie all’apertura del Bab-El-Mandeb, arroventato tutto l’anno dal tropico del Cancro, privo d’apporti da sorgenti e fiumi immissari o da piogge, il Mar Rosso è una grande salina naturale. Con il 44% di sali minerali (l’8% in più rispetto al valore di un oceano), una temperatura media pari a 23° C (il 10% in più rispetto a quella degli altri mari), nei suoi fondali si è formato un ecosistema eccezionale per la varietà di forme vitali (vegetali e animali), fra le più ricche del pianeta.
Duecento chilometri di barriere coralline contengono fra le più alte biodiversità, fonte di nutrimento e rifugio per svariate specie animali e molluschi, echinodermi, crostacei. La ricerca sulla sua fauna, grazie anche all’esigua distanza che lo separa dal continente europeo, comincia relativamente presto, già nel diciottesimo secolo, per continuare tutt’oggi con nuove scoperte. La peculiarità è proprio basata sulle specie endemiche in altissima percentuale, dovute sostanzialmente alle caratteristiche appena descritte.
Dalla deriva dei continenti, la formazione di questo meraviglioso bacino sembrerebbe piuttosto recente, appena venti milioni d’anni fa, quando i movimenti tettonici originarono la separazione della placca africana da quella euroasiatica.
Esempio classico di “mare chiuso”, nel corso della sua storia geologica, il Mar Rosso è rimasto più volte separato dall’oceano. La prima esclusione per così dire “temporanea” risale a cinque milioni d’anni fa, verso la fine dell’Era Terziaria, cagionata dall’innalzamento nel fondale dello Stretto di Bab – El – Mandeb. Percorso da un’intensa attività sismica (soprattutto nella sua parte centrale), che determina un ampliamento di circa cinque centimetri l’anno, il Mar Rosso diventerà il quarto oceano del pianeta e lo dimostrano i campioni delle rocce basaltiche raccolte nei fondali: i requisiti sono esattamente quelli di un oceano in formazione.
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di Liliana Adamo
Percezione primaria, secondo l’effetto Backster: quando nel 1966, Cleve Backster collegò ad una pianta gli elettrodi di un poligrafo, ottenne delle letture che indicavano come le cellule viventi si armonizzano e rispondono al loro ambiente, così alle emozioni e alle intenzioni umane. Ogni mattina ti svegli ponderando due possibilità: far saltare una diga oppure mettersi a scrivere; Derrick Jensen sembra aver favorito la seconda ipotesi, anche se, qualche volta, dubita della sua scelta.
Ne è a tal punto perplesso, da evocare in noi l’urgenza d’accelerare l’andamento disgregativo della civiltà occidentale, innovando una fresca compatibilità tra umanità e natura. Derrick Jensen non è pazzo, un facile sensazionalista a caccia di notorietà ad esiti populistici, non è un giovane “arrabbiato” tout court, né un profeta della new age.
Come quasi tutti i geni letterari, la sua non è storia semplice. Figlio di un’America raccapricciante e di un padre-padrone della middle class che abusava sessualmente dei propri figli, ha percorso dentro di sé una dolorosa scomposizione tra identità ed eccesso, ponendosi di fronte alla sua vita per contrapporvisi e ricomporla, venirne fuori, a quarant’anni, da scrittore e attivista forte e pensante, muovendosi in scelte difficili ma fondamentali.
Derrick Jensen è scomodo perfino agli engagés delle varie organizzazioni pacifiste d’oltreoceano, che si sono mosse in dissenso alle tesi contenute nel discusso “Endgame part II, Resistance”, una delle sue ultime opere, la più emblematica. Lo scrittore è stato subissato di e-mail e telefonate a dir poco “intimidatorie” da quegli stessi attivisti che non gradiscono l’espressione tratta dal suo libro e largamente adoperata: “To bring down this culture by any means necessary…”, lasciando intuire di non gradire meno che mai, presunti metodi smodatamente “radicali” per attuare un possibile cambiamento di rotta.
L’autodifesa dell’autore? Assediati da una sorta di patologico “lifestylism”, i pacifisti hanno concentrato l’attenzione su un solo concetto, estrapolandolo da una condizione; perché è così difficile ritenere la fine della civiltà come fine di uno sbaglio, perché è così difficile per tutti noi, ammettere che il nostro modello di cultura ponga termine?
Giunto ormai ad una fase discendente, massimamente basato sull’economia postindustriale, sgretolatasi tra sfruttamento e profitto, lo sviluppo occidentale è “sentito” dall’autore conforme alla sua famiglia d’origine, una famiglia in cui l’abuso diventa norma di vita, la violenza, una minaccia costante, le vittime, indifese e dipendenti dal loro stupratore. Un’immagine estrema, patologica a sua volta? Robin Morgan, ispiratrice di battaglie al femminile, parla di una “democrazia della paura”, Jensen, di un “mondo di ferite”.
Enumerarle qui, una per una, è difatti un’eccedenza, ma un concetto primario vale la pena rilevare poiché colpisce nella sua evidente e palese ineluttabilità: per sopravvivere a un mondo simile abbiamo bisogno di raccontare a noi stessi una gran quantità di frottole. Per Jensen, questo è un sistema basato sulla menzogna e mentire è indispensabile per andare avanti. Esempio evidente di sistema abusivo sta nell’identificazione col nostro habitat. Tutti gli animali per sopravvivere ne hanno bisogno e noi, esseri civilizzati serrati nel nostro “ambiente ideale”, siamo pronti a difenderlo fino all’ultimo poiché da questo dipende la nostra vita.
Ma le ragioni di questo sistema edificato sulle menzogne, hanno dimostrato di non preservare il nostro habitat, tanto meno noi stessi; esse sono state installate a dovere per proteggere un unico attore, chi abusa. In pratica, “la democrazia della paura”, si serve della cosiddetta “sindrome di Stoccolma”, allorché la vittima si allea con il suo carnefice, obbedisce ad una sottomissione psicologica col suo carnefice, nella convinzione d’averne un’assoluta necessità per sopravvivere.
Non solo: è perniciosa l’immedesimazione con la sensibilità di chi abusa. Tutte le soluzioni proposte per il riscaldamento globale impugnano un solo dato, quello del capitalismo industriale, unica linea di partenza. Pertanto, sappiamo esattamente che non è quella la linea di partenza, ma il mondo reale, il mondo fisico rappresenta l’origine cui far partire tutte le nostre decisioni; privi della relazione con quel mondo noi non siamo nulla, non andiamo da nessuna parte.
Che fare? Riformare la civiltà? A Jensen è un obiettivo che non interessa, è una faccenda riservata a gran parte di quei pacifisti. Leviamoci le false speranze! La sua è una posizione netta e decisa, una chiamata all’azione: le tesi di“Endgame vol. II” non confidano in una cultura occidentale così accorta da determinare intenzionalmente un modo sensato e sostenibile di vivere. L’evoluzione storica documentata fino ad oggi e i fatti reali dimostrano che non succederà.
Un quesito supplementare esamina come e quando, per libera scelta, questa cultura smetterà di ridurre a niente il mondo naturale, cancellare le altre culture indigene, sfruttare i poveri e uccidere chi sposta l’asse delle nostre regole strategiche. Un interrogativo senza risposta, nessuno sa, siamo troppo occupati fingendo che, fulmineamente, la nostra civiltà subirà una trasformazione magica.
A Jensen interessa che in Canada non ci sono più i gufi maculati (per esempio), e ne stiamo perdendo l’ultimo, e allora, la prima cosa da fare, il primo obiettivo, è capire veramente cosa desideriamo fare del mondo e l’azione che seguirà sarà permettere a tutti i costi che quella creatura sopravvive, è il punto sostanziale, restituirle il suo habitat. Di cosa hanno bisogno i salmoni per continuare a nuotare nei grandi fiumi del nord America? Che siano rimosse le dighe, per ricreare un ambiente naturale appena decente; hanno bisogno che si arresti la pesca industriale (non che si fermi ogni tipo di pesca, ma che ci siano attività selettive), che non s’intensifichi l’agricoltura su scala industriale, causa di scoli inquinanti, che sia sostituita dall’agricoltura biologica.
Jensen non è impregnato di velleità, a lui interessa ridurre il riscaldamento globale e annichilire l’obsoleta economia industriale; adeguatamente potremmo porre ovvie richieste: che introito ci sarà abbattendo una diga per salvare i pesci? Dove sono i proventi immediati salvando gli oceani, i grandi reef, fermando la caccia alle balene? Per salvare noi stessi e il pianeta, siamo tenuti a decidere cos’è primario e cos’è secondario con l’obbligo d’essere drasticamente severi.
“Lungamente abbiamo posto lo spreco a danno della nostra salute, lungamente abbiamo dimenticato come si fa a ritenersi liberi; la maggior parte di noi non ha idea di come si vive nel mondo reale…Non ho mai visto un fiume in piena ricco di pesci. Non ho mai visto un cielo oscurato per giorni da una singola moltitudine di uccelli (tuttavia ho visto cieli oscurati perennemente dallo smog). Come la libertà, egualmente bellezza e fecondità ha il mondo in sé. E’ duro amare qualcosa che non hai mai conosciuto. E’ duro convincersi di lottare per qualcosa che ami ma che credi non sia mai esistito…” (Da “Endgame” vol. I.)
La difesa del mondo naturale come emblema di vita. Chi è Derrick Jensen.
Vive in una piccola città della California del nord e nel 2006, in qualità di scrittore, è stato insignito “persona dell’anno” dalla “Press Action”, tiene corsi di fisica mineralogica e ingegneria alla “Colorado School of Mines” e presso l’MFA, insegna scrittura creativa presso la “Eastern Washington University”, ha creato un laboratorio permanente per i reclusi del penitenziario del “Pelican Bay State”, in California; eppure Derrick Jensen, si distingue soprattutto come attivista ed ecologista.
Da “Language Older Than Words” fino ai due volumi di “Endgame”, egli mette costantemente in discussione la società contemporanea e i suoi valori. I media americani lo indicano vicino al movimento “anarcho-primitivist” di John Zerzan, per il quale l’ascesa del nostro sviluppo è intrinsecamente insostenibile, basata sui rapporti di forza, in disaccordo con l’ambiente e le popolazioni indigene.
Con l’ausilio di una scrittura impareggiabile, le opere di Jensen analizzano scrupolosamente le dominanze presenti nella cultura occidentale nella sua interezza: abuso, odio, violenza, misoginia, distruzione ambientale, ingiustizia. Di conseguenza esorta i lettori a concorrere (fino agli estremismi), perché si esaurisca il ciclo della civiltà industriale.
Lo stesso autore percepisce il mondo naturale come un organismo traslato, una metafora pulsante di vita in opposizione al credo occidentale più comune, secondo cui il mondo è fatto d’oggetti e di risorse da sfruttare. Di questa cultura, la sua scrittura penetra a fondo il sistema economico che genera (inevitabilmente) non solo “rapporti di forza”, ma anche solitudine, alienazione, giungendo alle massime conseguenze con le guerre di potere, l’odio e la disumanità. Lo stile creativo del non-romanzo unisce la sua voce artistica a motivi di profonda logica e discussione.