di Silvia Mari

Mancano pochi giorni alla data di chiusura, il 15 settembre,  della mostra di Sebastiao Salgado all’Ara Pacis di Roma. Per chi non avesse ancora avuto modo l’invito è di andare.  Per chi non può slegare il valore assoluto dell’estetica e del bello dalla tensione etica e filosofica, la galleria di fotografie in bianco e nero è un “santuario” imperdibile. “Genesi” questo il nome del progetto che, parallelamente a Roma, è partito a Londra, Rio de Janeiro e Toronto vuole catturare la bellezza del pianeta senza alterarla, restituendola alla sua purezza.

Animali, clima, vegetazione e uomo convivono in un equilibrio perfetto in cui i piani del dominio sono - ove ci sono - quelli della natura e della legge della vita, anche nelle sue note più crude e primitive. L’ambizione è quella di proteggere il pianeta dalle avventure di uno sviluppo distruttivo e scellerato. Antartide, Patagonia, Etiopia, Indonesia e altri luoghi remoti rappresentano i fotogrammi di un viaggio che protegge, custodisce e denuncia.

A questo proposito, come ricorda la moglie del fotografo curatrice della mostra, Lelia Wanick Salgad, da questo lavoro è nato un progetto che fa capo alla Fondazione no–profit sorta nel 1998 per il rimboschimento di circa 800 ettari di Amazzonia distrutta e ridotta a sabbia bruciata.

Le fotografie non rappresentano quindi le velleità di uno scienziato della natura, né quadri di un pittore che tende a sovrapporre il piano di un sogno o di un dramma personale. Le immagini vivono, parlano e, come Salgado dice di sé, nascono dallo sguardo di un uomo curioso che non si accontenta della contemplazione, ma cattura il cuore di uno splendore tanto perfetto quanto fragile.

L’obiettivo è quello dell’arte, ma il momento dell’opera immortalato è tutto giornalistico. Racconta, segue in movimento animali, uomini e donne in riti e tradizioni, foglie di palma e castelli di ghiaccio polare, denuncia il rischio di cose che possono finire, utilizzando il ripetersi di quadri viventi che vogliono rammentare al visitatore che tutto quello che è messo in cornice esiste davvero in punti precisi del nostro pianeta. La mostra come un lungo viaggio.

Da Parigi, la città in cui vive, Salgado non ha smesso infatti di essere un viaggiatore. Non un apolide, fatto di sola inquietudine, ma uno che ama ricordare. Da qui la promessa di restituire un po’ di foresta rubata al Brasile, tutelandola con un impegno che è anche politico ed economico, nonché ecologico.

Sono in molti a rimproverargli di aver fatto fortuna sul dolore dei drammi umani. L’arte non ha bisogno, nella sua accezione più romantica, di un fine morale per essere riconosciuta nel suo assoluto valore. Ma è certamente vero che quando il bello catturato da un artista colpisce una coscienza, l’arte è già altro da sé.

E’ il desiderio di un impegno, un pensiero, una smorfia di concentrazione o stupore rivolta a se stessi. Quella che l’occhio di Salgado, in un raffinato bianco e nero, coglierebbe senza esitazioni. Non il volto di quella donna, al termine della visita, fotografato nella sua ovale armonia, ma la ruga più nascosta che ne racconta il pensiero di quel preciso momento. La bellezza più fragile.

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