di Massimiliano Ferraro
Sono tutte lì, negli occhi della signora Rosa, novantacinque anni, le domande rimaste senza risposta sulla fine del piroscafo Hedia e sulla sorte toccata ai suoi marinai. Occhi che si riempiono ancora di lacrime quando nella sua casa di Sciacca, tra i vecchi documenti che raccontano l'enigma della nave scomparsa nel Canale di Sicilia nel marzo del 1962, spuntano fuori le ultime lettere inviatele da suo figlio Filippo. Filippo Graffeo era uno dei venti marinai svaniti nel nulla dopo il presunto naufragio della Hedia. Un affondamento avvenuto senza testimoni, senza che venisse lanciata nessuna richiesta d'aiuto via radio e spiegabile, almeno apparentemente, con le cattive condizioni del mare.
Ma se come sosteneva Tiziano Terzani, il dovere del giornalista è quello di vedere se c'è una verità alternativa dinnanzi a quella ufficiale, nel caso del piroscafo Hedia non si può ignorare l'ipotesi che il bastimento sia stato silurato per sbaglio dalla marina militare francese: una nave scambiata per un'altra, una di quelle che in quei mesi contrabbandavano armi destinate ai miliziani algerini lungo le coste del Nord Africa. Un errore che sarebbe stato svelato solo alcuni mesi dopo dalla foto di alcuni dei marinai italiani imprigionati in Algeria. Riconosciuti «senza possibilità di equivoci» dai familiari, cercati e mai ritrovati. Forse finiti loro malgrado nelle trame di un intrigo internazionale con sullo sfondo la guerra franco-algerina.
Quella della Hedia è dunque una storia che dopo cinquant'anni attende ancora un finale. Una tragedia di cui la politica si è completamente dimenticata, avvenuta diciotto anni prima di Ustica e compiuta forse dalla stessa mano: quella francese. Sospetti apparsi e poi svaniti dalle cronache di un'Italia distratta dal sogno del boom economico, voci contraddittorie sepolte dalla confusione di un paese africano assetato di indipendenza e altrettanti silenzi custoditi probabilmente tuttora in un archivio, da qualche parte, a Parigi.
Un inestricabile giallo - «Sono il nipote dello scomparso Filippo Graffeo di Sciacca», si presenta così Accursio Graffeo, perito industriale elettrotecnico di quarantadue anni, attualmente dipendente presso un'azienda ospedaliera, dopo aver letto un articolo di chi scrive. Un pezzo che aveva riproposto, a cinquant'anni di distanza, il mistero della sparizione nel Mediterraneo del piroscafo Hedia e con esso anche un po' la storia della famiglia Graffeo. «Sapevo della scomparsa di zio Filippo dal racconto vago di mio padre, ma oggi attraverso il suo articolo ho scoperto delle notizie interessanti ad incominciare dal nome della nave».
Nel 1961 Filippo Graffeo aveva 19 anni ed era alla ricerca del suo primo imbarco su una nave mercantile. Siciliano di Sciacca, era arrivato a Venezia nel mese di settembre con il fratello maggiore Luigi, marinaio già con diversi anni di lavoro sulle navi petroliere. Dopo alcuni giorni passati nella Casa del Marinaio in attesa di trovare l’aspirato imbarco, nonostante fosse più inesperto fu proprio Filippo a trovare per primo un lavoro. Fortuna del principiante, direbbe chi sa poco della fortuna e nulla di questa vicenda.
Il giovane Graffeo venne assunto 16 ottobre 1961 dall'armatore Nello Patella, rappresentante italiano della Compagnia Naviera General di Panama, per imbarcarsi come marinaio di coperta sulla nave Generous, una vecchia imbarcazione da carico battente bandiera liberiana. I primi viaggi toccarono i porti di Ravenna, San Antioco, Benisaf (Algeria), Messina, Fiume (Jugoslavia) e Siviglia (Spagna). Poi, nel mese di febbraio del 1962, la Generous effettuò dei lavori di manutenzione al termine dei quali venne ribattezzata con un nuovo nome: Hedia. Il piroscafo Hedia salpò il 6 febbraio 1962 con a bordo venti persone: diciannove italiani e un gallese. Viaggio da Ravenna fino in Spagna e ritorno con scalo intermedio in Marocco.
Il 10 marzo a Casablanca, i marinai italiani caricarono quattromila tonnellate di fosfati e ripartirono facendo rotta verso Venezia, incuranti della burrasca che infuriava in quelle ore nel Canale di Sicilia. Proprio per questo motivo il comandante Federico Agostinelli fece telegrafare all’armatore l’intenzione di non passare per lo Stretto di Messina, ma di seguire invece la rotta che porta a sud della Sicilia. La Hedia costeggiò la costa algerina e poi scomparve in prossimità dell'arcipelago tunisino di La Galite il 14 di marzo. Nessuna richiesta d’aiuto, nessuna traccia di un incidente. Subito si pensò al peggio, ad un naufragio dovuto alle condizioni proibitive del mare. Onde alte cinque metri agitavano ancora il Canale di Sicilia, quando iniziarono le ricerche congiunte delle unità della Marina Italiana con il supporto di una nave militare statunitense. Tentativi imponenti in un tratto di mare tanto piccolo e trafficato, al punto che qualcuno, forse, temette che la Hedia venisse ritrovata per davvero.
Così si spiegherebbe lo strano depistaggio che nove giorni dopo la scomparsa del mercantile portò su una falsa pista proprio mentre si stavano svolgendo le perlustrazioni. Il comando del porto di Tunisi informò infatti che il 21 marzo, cioè sette giorni dopo la scomparsa della nave, il piroscafo Hedia «aveva notificato la sua posizione e si trovava in difficoltà a ridosso dell’isola di La Galite». Ma era tutto falso. La stessa radio Tunisi messa alle strette dal consolato italiano smentì ufficialmente il messaggio, rifiutandosi però di fornire delle spiegazioni. Stranezza nella stranezza, anche un dispaccio ufficiale del nostro ministero della Marina Mercantile che dava la nave in salvo nell'Adriatico venne incredibilmente smentito dopo tre giorni. Finalmente il 26 marzo tre pescherecci di Lampedusa comunicarono di essere in possesso di alcuni rottami appartenenti al mercantile disperso: due salvagenti con la scritta “Hedia-Monrovia”, una cintura di salvataggio con la scritta“Milly-Monrovia” (Milly era il nome originario della Hedia prima ancora di Generous n.d.a.), e due tavoloni di boccaporto. Basta. Troppo poco per avere la certezza che il cargo sia colato a picco.
Cosa accadde alla Hedia? Non è facile far sparire una nave e la leggenda del vascello fantasma non è adatta per raccontare i dettagli di un naufragio avvenuto in pieno XX secolo. Cinquant'anni dopo a casa Graffeo le opinioni sono discordanti. «Mio padre Luigi è convinto che la nave sia affondata per via del mare forza 8», riassume Accursio Graffeo, «secondo lui la nave era piccola e non dovevano navigare con il vento in poppa, ma io la penso diversamente». In seguito alla scoperta della storia di suo zio Filippo, Accursio è ora intenzionato a far luce sulla sparizione dell'equipaggio della Hedia. Il fatto che siano stati ritrovati pochissimi pezzi del piroscafo non lo convince: «Quello che hanno ritrovato i pescherecci di Lampedusa è davvero poco, il salvagente con su scritto il nome della nave, mi sembra qualcosa già visto in qualche film». Poi aggiunge: «È capitato anche a me di ritrovare dopo una mareggiata dei salvagenti o delle pedane di legno, ma non mi pare che appartenessero a navi affondate».
Ma nell'intricatissimo mistero della Hedia c'è anche dell'altro a destare dei dubbi. In primo luogo la già citata ostilità delle autorità tunisine si manifestò nuovamente nel momento in cui uno dei parenti dei marinai dispersi cominciò a battere palmo a palmo l’arcipelago de La Galite in cerca di informazioni sulla nave. Fu in questa occasione che il comandante della base strategica di Biserta suggerì all'uomo di stendere una relazione da inviare a Parigi. Ma per quale motivo il governo francese avrebbe dovuto essere al corrente della fine della nave liberiana? E soprattutto, perché nei giorni che seguirono bastò un solo articolo sulla Hedia pubblicato dal quotidiano La Presse per far andare su tutte le furie il ministero della guerra francese?
Sembrò evidente che le autorità tunisine e francesi fossero inspiegabilmente molto suscettibili riguardo alla scomparsa della Hedia. In questo contesto è da far risalire l’origine delle voci che vollero la nave vittima di un siluramento. Forse a causa della tempesta il capitano Agostinelli e i suoi uomini si trovarono fuori rotta, nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Forse, il mercantile liberiano venne scambiato per uno dei bastimenti carichi di armi che rifornivano da sette anni e mezzo gli indipendentisti algerini del Front de Libération Nationale (FLN). Quel che è certo è che proprio in quei giorni di marzo del 1962 la cruenta guerra franco-algerina viveva ore cruciali. Mentre il 14 marzo la Hedia si trasformava in una nave fantasma, Algeri e Parigi erano pronte al tanto atteso cessate il fuoco decretato tra tensioni e reciproche diffidenze il giorno 19. Una sospirata tregua dopo i massacri, il terrorismo e il napalm, alla quale non avrebbe certo giovato la notizia di una nave affondata per sbaglio dal grilletto ancora caldo dei francesi.
Naufragata, silurata o catturata? –Trascorsero sei mesi senza che in Italia giungessero notizie della Hedia e del suo equipaggio: Federico Agostinelli di Fano (comandante), Colombo Furlani di Fano (primo ufficiale), Elio Dell’Andrea di Venezia (secondo ufficiale), Otello Leonardi di Fano (capo macchina), Michele Marangia di Molfetta (secondo ufficiale macchina), Claudio Cesca di Trieste (marconista), Giorgio Bandera di Mestre (capo fuochista), Giuseppe Orofino di Catania (fuochista), Ferdinando Balboni di Venezia (cuoco), Filippo Graffeo di Sciacca (marinaio di coperta), Nicola Caputi di Molfetta (marinaio), Corrado Caputi di Molfetta (ingrassatore), Cosimo Gadaletta di Molfetta (marinaio), Damiano Bufi di Molfetta (marinaio), Giuseppe Uva di Molfetta (giovinotto), Giovanni Pagan di Chioggia (marinaio), Dino Bullo di Chioggia (marinaio), Giovanni Salvagno di Chioggia (marinaio), Edoardo Nordio di Chioggia (marinaio), Anton Narusberg di Cardiff (macchinista). L'attesa diventò angosciante. Nonostante ciò i Graffeo e gli altri parenti dei marinai continuarono a nutrire la speranza di poter riabbracciare i loro cari. Una fiducia che sembrò essere stata premiata quando il padre di uno degli scomparsi, Romeo Cesca, riuscì a sapere in via confidenziale da un ufficiale di marina che i venti uomini erano salvi e tenuti in una località segreta. Ma dove? Il militare si rifiutò di aggiungere altri dettagli sul luogo, trincerandosi dietro la ragion di stato e a «gravi motivi di sicurezza».
Finalmente in settembre alcuni marinai italiani vennero riconosciuti in un gruppo di prigionieri ritratti in una telefoto scattata nel cortile del consolato francese di Algeri e pubblicata per caso sul Gazzettino di Venezia. Così la signora Maria Balboni riconobbe tra quegli uomini proprio suo marito Ferdinando, cuoco della Hedia e lo stesso accadde per i parenti del secondo ufficiale Elio Dell’Andrea, del fuochista Giuseppe Orofino e del marconista Claudio Cesca. Anche a Sciacca esultarono firmando il riconoscimento di Filippo Graffeo davanti a un notaio fuor di ogni dubbio. «Ma oggi siamo divisi», ammette Accursio, «non tutti in famiglia dicono che l'uomo nella foto gli somiglia, anche se noi nipoti siamo convinti che quello della foto può essere zio Filippo». Se così fosse, non è chiaro quali avventure condussero i marinai italiani nelle carceri algerine. È possibile che i pochi sopravvissuti al naufragio o al siluramento siano in qualche modo riusciti ad arrivare a riva finendo poi nelle mani dei miliziani indipendentisti e infine tornati o ritornati nelle mani dei francesi. Rimane comunque da chiarire perché nessuno di loro riuscì mai a mettersi in contatto con l’Italia dopo la liberazione anche se esiste una spiegazione plausibile.
Da Parigi, l’agenzia proprietaria della telefoto fece sapere che lo scatto risaliva al 2 di settembre, proprio il giorno in cui il consolato francese venne attaccato e dato alle fiamme dai clan delle fazioni belligeranti algerine. Dei prigionieri presenti in quel momento nell’edificio non si seppe più nulla. Che ne fu dunque di quei superstiti allo sbando nella capitale messa a ferro e fuoco nelle tragiche giornate di guerra civile? Furono giustiziati o caddero incidentalmente, mentre le colonne di camion e cannoni del futuro presidente Ben Bella accerchiavano Algeri?
Vitaliano Pesante, giovane giornalista veneziano, cercò di svelare l'arcano e partì per l’Algeria, ormai pacificata, determinato a venire a capo di una verità nascosta da un clima ostile. Arrivato sul posto venne costantemente pedinato e perquisito, ma nonostante ciò riuscì a rintracciare un certo Jean Solert, che figurava come primo uomo a sinistra nella fotografia degli ex prigionieri. Costui negò fermamente che nel consolato ci fossero degli italiani e come prova di quanto affermato gli rivelò la vera identità del presunto marinaio Graffeo, tale Pierre Cocco, barista di Algeri. Peccato che non lo si poté mai contattare direttamente, perché fuggito a Marsiglia senza lasciare un indirizzo. Rintracciati da Pesante, alcuni conoscenti di Cocco lo riconobbero comunque senza esitazioni nella telefoto comparsa sul Gazzettino, la medesima che «senza possibilità di equivoci» suscitò tante speranze in quel di Sciacca. In Italia l’esito di queste indagini sul campo venne accolto con rabbiosa incredulità dai parenti dei marinai: «Pensate davvero che non riusciamo a riconoscere i nostri cari dopo solo nove mesi?». Non si seppe più che cosa pensare. «Sono cadaveri che le correnti trascinano sui fondali marini?», domandò Nicola Adelfi dalle colonne de La Stampa, «oppure fantasmi suscitati dall'amore dei congiunti! O uomini vivi, creature di carne e ossa, che circostanze a noi ignote rendono muti?».
Di lì a poco la Liberia chiese ai Lloyd’s la cancellazione della Hedia dal registro navale, la Cassa marittima versò quattrocentomila lire di assegno funerario per ogni marinaio e il Regno Unito fece sapere di considerare presumibilmente morto l’unico straniero a bordo, Anton Narusberg di Cardiff. Inoltre, secondo la risposta scritta data in Parlamento il 14 aprile 1965 dal ministro della Marina Mercantile, Spagnolli, il 17 agosto 1964 l'assicurazione Vittoria di Milano pagò alla società armatrice «l'intera somma assicurata ammontante a 110 milioni di lire, aggiungendo che, malgrado le laboriose indagini svolte, non era stata in grado di stabilire la sorte toccata alla nave, all'equipaggio e al carico». Telenovela finita? Nemmeno per sogno. «È questa una storia maledetta», scrisse ancora La Stampa, «un'altalena continua tra le speranze che rasentano la certezza e i dubbi più laceranti».
Estate 2012 – Da Sciacca, dove è tornato dal Nord per trascorrere le sue vacanze, Accursio Graffeo si dà un gran da fare. Dieci lustri trascorsi senza alcuna novità sulla sorte dell'equipaggio della Hedia non lo scoraggiano. Raduna i parenti, fa domande a genitori, zii, conoscenti e va a trovare sua nonna Rosa (madre dello scomparso Filippo Graffeo) nella speranza di conoscere altri dettagli su questa vecchia storia di famiglia. Ed ecco che il suo impegno fa riemergere un particolare fino ad ora inedito: uno dei fratelli dello scomparso, Michele, riuscì a rintracciare in un paese vicino a Marsiglia Pierre Cocco in persona, ovvero il presunto sosia di Filippo Graffeo. Sosia? «Trovare Pierre Cocco fu un'impresa ma alla fine si scoprì che era un uomo di quarant'anni e che non poteva essere certo scambiato per un ragazzo di venti». L'ennesimo depistaggio? «Un altro particolare da non trascurare», continua Accursio, «è che questo signor Cocco si mostrò molto nervoso, voleva scappare, come se fosse a conoscenza di qualcosa...». Sapeva forse di non essere la persona ritratta nella telefoto? Secondo la famiglia Graffeo nelle cineteche di Parigi dovrebbe esserci il filmato originale della liberazione dei prigionieri di Algeri, una prova importante che potrebbe essere richiesta dalle nostre autorità.
Ora il nipote di Filippo Graffeo sta pensando alla possibilità di fondare un'associazione per riaccendere i riflettori sul giallo della Hedia. Sarà dura: «Dopo tutto questo tempo, in tanti ci avranno messo una pietra sopra e magari i più anziani, che vorrebbero sapere, non hanno dimestichezza con internet». Proprio come la signora Rosa, che dopo cinquant'anni aspetta ancora di sapere cos'è successo a suo figlio, in quel lontano preludio tormentato di primavera.