di Massimiliano Ferraro

«Per venti persone non si può fare una guerra». Rosa Guirreri Graffeo, 95 anni ben portati, si  ricorda bene quelle parole pronunciate nel 1963 dall'allora Presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, a margine di un incontro con le famiglie dei dispersi del piroscafo Hedia. Cosa volesse dire quella frase lei non l'ha mai capito, ma a dispetto dell'indifferenza, talvolta dell'ostruzionismo mostrato dalle istituzioni, Rosa la sua guerra personale per conoscere la verità sulla sorte toccata a suo figlio, Filippo Graffeo, e agli altri diciannove marinai scomparsi misteriosamente cinquant'anni fa nel Canale di Sicilia l'ha combattuta davvero.

Per cercare conferme alle voci che volevano alcuni membri dell'equipaggio salvi, ma trattenuti in Algeria durante la sanguinosa guerra civile del 1962, Rosa è arrivata dalla provincia di Agrigento fino a Parigi. Qui è stata trattenuta in uno stanzone, perquisita, e identificata solo perché avrebbe voluto porre delle semplici domande. «Per caso, pregiatissimi messieurs, sapete che fine ha fatto la barca su cui viaggiava il mio figliolo? È questo qui, in primo piano in una foto scattata nel vostro consolato di Algeri. Come mai non è ancora tornato a casa?». Ecco cosa avrebbe voluto chiedere Rosa a quei signori con la divisa se solo le fosse stato concesso di parlare. Magari si sarebbe addirittura scusata per averli disturbati: «Je suis désolé génerale, ma deve sapere che in Italia abbiamo dei politici che preferiscono farcire la nostra storia di misteri irrisolti piuttosto che chiarire i fatti». Ma niente, a Parigi nessuna spiegazione le era stata data.

Tornata in Italia, Rosa le aveva nuovamente tentate tutte per avere notizie del figlio. Ma niente. Così sono passati altri anni, tanti, fatti di silenzio e rassegnazione. La vita nella sua casa di Sciacca è inesorabilmente trascorsa riempiendo le stanze con altre fotografie in cui non c'era più Filippo, ma altri suoi figli e nipoti. Finché un giorno uno di loro, Accursio Graffeo, la va a trovare per chiederle notizie di quello zio scomparso. C'è un giornalista su al nord, le dice, che nonostante siano passati tanti anni crede che troppe cose non tornino in quel giallo marinaro rimasto senza una soluzione. È proprio quello che ha sempre pensato anche lei, che in fondo la “guerra” per suo figlio non ha mai smesso di combatterla.

La nave dei fantasmi – Il 14 marzo 1962 il piroscafo Hedia, bandiera liberiana e proprietà panamense, stava trasportando a Venezia un carico di fosfati imbarcato a Casablanca, quando scomparve durante una burrasca con mare forza otto al largo dell'arcipelago tunisino di La Galite. Nessuna richiesta d'aiuto venne lanciata dai venti membri dell'equipaggio, diciannove italiani e un britannico. Le ricerche congiunte effettuate nel Canale di Sicilia da unità della Marina Militare italiana con l'ausilio di una fregata statunitense si rivelarono infruttuose. La Hedia sembrò essersi dissolta in alto mare senza lasciare alcuna traccia. Non vennero ritrovati né corpi, né pezzi della nave, né chiazze di nafta a pelo d'acqua, circostanze che fecero nascere fin da subito moltissimi dubbi e interrogativi su quanto realmente accaduto.

Alcuni mesi dopo il quotidiano Venezia Notte ipotizzò che la motonave fosse «stata silurata con un ordigno esplosivo ad alto potenziale». La Hedia, uscita fuori rotta a causa del maltempo, sarebbe stata scambiata dalla marina militare francese per uno dei bastimenti fantasma che in quel marzo del 1962 seguivano le rotte del contrabbando per rifornire di armi gli indipendentisti algerini.

Nei mesi successivi non si ebbero però altre conferme dell'esistenza in vita dell'equipaggio. Finalmente il 2 settembre 1962 un fotografo inglese della United Press immortalò nel cortile del consolato francese di Algeri un gruppo di prigionieri europei, appena liberati dal Front de Libération National. La telefoto, pubblicata il giorno 14 settembre sul Gazzettino di Venezia suscitò gioia e commozione in alcuni parenti dei dispersi che si dissero certi di riconoscere in quegli uomini i loro cari dispersi.

Ma la possibilità che i prigionieri di Algeri fossero davvero i marinai della Hedia si fece concreta solo quando i congiunti di Filippo Graffeo, ritratto proprio in primo piano, firmarono il riconoscimento di fronte ad un notaio «senza possibilità di equivoci». Trascorsi dieci giorni, la grande felicità per i graditi sviluppi venne però smorzata dall'assenza di ogni altra notizia. Si scoprì solo allora che quello stesso 2 settembre il consolato francese era stato attaccato dai miliziani algerini e dato alle fiamme. Nello stato di totale anarchia, mentre le truppe del futuro presidente Ben Bella accerchiavano Algeri, degli europei presenti in quel momento nella sede diplomatica non si seppe più nulla.

Per provare a far luce sull'accaduto Vitaliano Pesante, giovane giornalista veneziano, d'accordo con l'assicurazione della nave e con i familiari degli scomparsi partì per l'Algeria. Qui riuscì a prendere contatto con uno delle persone ritratte nella foto, un certo Jean Solert, il quale negò fermamente la presenza nel consolato di cittadini italiani. Come prova di ciò Solert indicò al giornalista quella che sostenne essere la reale identità del presunto marinaio Graffeo: tale Pierre Cocco, barista di Algeri, già riparato in gran fretta a Marsiglia. Il 16 e il 17 gennaio 1963 il quotidiano La Notte scrisse che le speranze di ritrovare in vita i marinai della Hedia erano perdute e che i prigionieri ritratti nella foto erano tutti francesi. Eppure dal Veneto alla Sicilia l’esito delle indagini venne accolto con incredulità dai parenti dei marinai: «Pensate davvero che non riusciamo a riconoscere i nostri cari dopo solo nove mesi?».

Per cercare conferme sulla reale identità dell'uomo ritratto nella foto di Algeri, alcuni familiari degli scomparsi si recarono prima a Parigi e poi a Marsiglia deve, dopo non poche difficoltà, riuscirono a trovare il discutibile sosia di Filippo Graffeo. Stranamente messieur Cocco si mostrò molto nervoso e poco disposto al dialogo. «Voleva scappare», ricorda Michele Graffeo, fratello dello scomparso. Ma perché? Sapeva forse di non essere la persona ritratta nella telefoto?

Nonostante i tanti lati oscuri che caratterizzavano l'intera vicenda della Hedia, l'assicurazione pagò alla società armatrice l'intera somma assicurata: 110 milioni di lire, malgrado la stessa compagnia non fosse stata in grado di stabilire «la sorte toccata alla nave, all'equipaggio e al carico».

La foto misteriosa
A cinquant'anni di distanza la famiglia di Filippo Graffeo è ancora convinta che la parola fine sul caso della nave scomparsa è stata troppo affrettata. Chi erano i prigionieri fotografati nel consolato di Algeri? L'uomo in primo piano era davvero il marinaio ventenne Filippo Graffeo, oppure era il quarantenne francese Pierre Cocco? I due si somigliavano in quanto a statura e ad alcuni tratti somatici. Inoltre, avere a disposizione solo poche altre immagini dei due, tutte precedenti al 1962 quando erano entrambi più giovani, non aiuta a svelare l'arcano. Ancora oggi, dopo aver mostrato le foto di Graffeo e di Cocco a persone differenti, l'uomo di Algeri ci è stato indicato allo stesso modo talvolta come l'uno e talvolta come l'altro.

Per chiarire ogni dubbio esisterebbe nelle cineteche di Parigi il filmato originale della liberazione dei prigionieri: una prova importante che potrebbe essere richiesta dalle nostre autorità. L'esistenza di questa pellicola, rivelata dalla famiglia del marinaio Graffeo, non aveva però finora trovato delle conferme.

Recentemente, chi scrive è entrato in possesso di un ritaglio di giornale che potrebbe provare l'effettiva esistenza del filmato. Si tratta di una copia della prima pagina del quotidiano francese Le Dépêche du Midi di Tolosa datata 14 settembre 1962, nella quale veniva annunciata la liberazione ad Algeri di 25 europei avvenuta il giorno precedente. Sotto il titolo, una fotografia mostrava ritratti alcuni dei liberati tra i quali è ben riconoscibile l'uomo che compare anche alle spalle del presunto Filippo Graffeo nel noto scatto del 2 settembre.

Chiunque fosse quell'uomo, avrebbe dovuto essere già libero da ben dodici giorni: come mai compare ancora in veste di ostaggio? È possibile che il giornale francese abbia per così dire “riciclato” una foto vecchia di qualche giorno, ma in questo caso il vero motivo di interesse riguardo a questa nuova immagine sarebbe un altro: piazzata proprio di fronte ai prigionieri, è ben visibile la presenza di una telecamera. Ci sono dunque ottime probabilità che il filmato della liberazione sia effettivamente stato girato.

La cattura – Quando scomparve, la Hedia era un vecchio cargo con alle spalle già quarantasette anni di servizio. Troppi. L’eccezionale tempesta che imperversava in quelle ore nel Canale di Sicilia potrebbe senza dubbio aver provocato l’affondamento di una nave del genere, curiosamente revisionata e ribattezzata (da Generous a Hedia) proprio all’indomani del suo ultimo viaggio. Le navi possono affondare per tante ragioni e senza che vi siano come sfondo chissà quali misteri. Ad esempio può capitare che alle condizioni proibitive del mare si aggiunga un carico di molte tonnellate superiore al limite trasportabile. Ma una cosa è certa: se la Hedia non riuscì a tornare da Casablanca non fu per colpa del suo capitano, il quale viene descritto dalle cronache dell’epoca come un comandante esperto, e soprattutto come un uomo tutto d’un pezzo.

Ma se non si trattò di un affondamento voluto, e se non è possibile trovare altri elementi che confermino la teoria del siluramento, cosa accadde davvero il 14 marzo del ’62? Quale altro evento improvviso impedì al marconista della Hedia di lanciare almeno un mayday mentre il vascello colava a picco? È una domanda che finora non ha trovato una spiegazione.

L’eventualità che la radio fosse in avaria, contemplata in una lettera del 1966 inviata alla famiglia Graffeo dal console italiano a Casablanca, non tenne conto della presenza a bordo di un’altra ricetrasmettente di riserva né del segnale di SOS automatico: sarebbe bastato pigiare un bottone ed in qualsiasi momento sarebbe potuta partire una richiesta d’aiuto. Lo sparo di un siluro potrebbe certamente giustificare l’assenza del mayday, eppure a casa Graffeo ritengono più probabile la cattura dell’unità liberiana da parte della marina francese.

Esistono delle testimonianze che confermino ciò? Sì, esistono. La prima è quella di Salvatore Rubino, un marinaio imbarcato sulla nave SS African, il quale sostenne di aver appreso dalla radio di bordo della «cattura del piroscafo Hedia». Ma la salvezza dell’equipaggio sarebbe stata confermata anche dall’armatore della nave nel corso di un colloquio con un altro marittimo, Alessandro Petruzzelli, imbarcato sul piroscafo Giuseppe Emilio.

Inoltre non essendosi trovati né i corpi delle presunte vittime, né altri segni dell’avvenuto naufragio, la capitaneria di Porto Empedocle comunicò in data 28 novembre 1962 che il Ministero della Marina Mercantile non si era «mai pronunciato in senso negativo» sulla possibilità che i componenti l’equipaggio del piroscafo Hedia fossero ancora in vita. Tuttavia nello stesso documento si precisò che «l’amministrazione marittima italiana non ha potuto né può svolgere alcuna inchiesta in ordine al presunto sinistro della nave, trattandosi di unità non italiana».

Tutto ciò sembrerebbe confermare la teoria che la nave sia stata catturata, eventualità per altro già rivelata in via del tutto confidenziale al padre di uno dei marinai da un anonimo ufficiale della Marina Militare: l’equipaggio italiano sarebbe stato portato in salvo (ma da cosa?) e poi trattenuto in una località segreta per «gravi motivi di sicurezza». Si potrebbe pensare che Filippo Graffeo e gli altri uomini della Hedia possano essere finiti loro malgrado nella polveriera algerina, proprio all’indomani degli spaventosi conflitti che portarono il paese africano sull’orlo della guerra civile. Poi però dove sono finiti?



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