di Mario Braconi

Dalla sua comparsa, nel 1996, il ceppo d’influenza aviaria H5N1 ha ucciso centinaia di milioni di uccelli. Per quanto riguarda la trasmissione del virus all’uomo, le statistiche sono piuttosto preoccupanti: da un lato, stando ai dati della OMS, dal 2003 sono state contagiate meno di seicento persone, e tutte con una storia clinica di contatto diretto con degli uccelli malati. Dall’altro, però, dei 573 infettati, ben 336 sono deceduti, il che significa un tasso mortalità di più attorno al 60%. La pandemia di Spagnola del 1918, per dire, che pure aveva un tasso di mortalità cinquanta volte inferiore, si portò via una decina di milioni di uomini, donne e bambini.

Insomma, la H5N1, fortunatamente non è facilmente trasmissibile dagli animali all’uomo ma, se ciò accade, può diventare maledettamente pericolosa: il limite vero alla sua diffusione pandemica è la difficoltà del virus a diffondersi tramite le goccioline d’acqua presenti nell’aria.

Se lo H5N1 dovesse improvvisamente essere in grado di trasmettersi da uomo a uomo con uno starnuto o una stretta di mano, la sopravvivenza del genere umano sarebbe seriamente a rischio. E proprio per scoprire come ci si dovrebbe comportare nel caso che questo evento malaugurato dovesse verificarsi, si sono attivati The National Institutes of Health, organismo finanziato dal Congresso degli Stati Uniti e dedito per statuto alla ricerca finalizzata al “miglioramento della salute”.

Ed è così che, in una location lontana dagli Stati Uniti, più precisamente in un laboratorio collocato nei sotterranei dell’Erasmus Medical Centre di Rotterdam, il professor Ron Fouchier, operando cinque mutazioni su due dei geni principali del virus, ha riprodotto in laboratorio una variante di H5N1 in grado di diffondersi tra gli umani (a farne le spese, almeno per ora, un manipolo di furetti, cavie sacrificate sull’altare della scienza o, se si preferisce, dell’arroganza umana). Come hanno ammesso candidamente i membri di un secondo team di ricercatori che hanno svolto simili esperimenti a Tokyo e nel Wisconsin, creare una variante di H5N1 in grado di trasmettersi con grande facilità da un furetto all’altro è stato “sorprendentemente facile”.

Non che il pericolosissimo esperimento non avesse senso. Secondo Fouchier, la realizzazione in vitro della mostruosa arma di distruzione di massa è di grande utilità, in quanto in caso di epidemia nella popolazione umana consente agli scienziati di “capire quale mutazione analizzare per bloccarla prima che sia troppo tardi. Cosa che faciliterebbe lo sviluppo di vaccini e terapie”.

Tuttavia si potrebbe discutere a lungo dell’opportunità di condurre simili esperimenti, potenzialmente devastanti, in un centro medico che consente sì la conservazione del virus mutato in relativa sicurezza, ma che non è protetto da guardie armate. Una vera manna per qualche Dottor Stranamore degli anni Duemila, o per qualche altro terrorista senza stato, desideroso di sfogare sull’umanità le sue nevrosi ossessive.

Del resto, l’Indipendent, che riporta il caso con dovizia di particolari e numerosi commenti anonimi di addetti ai lavori, racconta come già nel 1977 si sia verificata una sottrazione indebita di un virus da laboratorio, che causò effettivamente un’epidemia. Con un pizzico di malizia, si potrebbe anche aggiungere che, in fondo, le conseguenze di un eventuale incidente o sabotaggio danneggerebbero, almeno inizialmente, principalmente i cittadini europei.

A queste notizie inquietanti si è aggiunto un paio di giorni fa un interessante corollario: poiché i risultati della ricerca sono considerati pericolosi per la sicurezza, è probabile che essi non verranno pubblicati per esteso, come almeno inizialmente sembrava sarebbe accaduto. Attualmente lo US National Science Advisory Board for Biosecurity (NSABB) sta conducendo una revisione dello studio: saranno in sostanza gli Stati Uniti a decidere quanta e quale parte di scienza potrà diventare patrimonio di altri scienziati e quindi dell’umanità.

La BBC ha sentito sull’argomento due scienziati: John Oxford professore di Virologia della London Medical School e Wendy Barclay dell’Imperial College di Londra. Entrambi sono contrari alla censura sulla scienza. “La vera minaccia è costituita dal virus stesso”, sostiene infatti il primo, mentre la seconda sottolinea che “si vogliono nascondere importanti informazioni scientifiche che altri ricercatori devono conoscere approfonditamente e che devono essere analizzate da tutti coloro che lavorano nel campo”.

Difficile non coincidere con le tesi dei due studiosi britannici, ma è altrettanto difficile cogliere nella scelta della Casa Bianca un semplice dettato di prudenza: sembra piuttosto emergere, dall’atteggiamento statunitense, l’intenzione di non divulgare alla comunità scientifica quello che si ritiene essere - e non c’è dubbio che lo sia - un elemento di grande vantaggio nella dotazione del loro arsenale batteriologico. La partita si gioca sulla possibile ricerca dell’antitodo e averne, unici, la possibilità di svilupparlo, risponde pienamente alla logica di un paese che unisce vocazione imperiale verso l’estero con isolazionismo e protezionismo verso l’interno. Una scelta di predominio scientifico a scopo militare che non ha nulla a che vedere con la sicurezza globale per la quale si dicono impegnati.

Un riflesso condizionato, quello USA, che potrebbe rivelarsi inutile, prima che sbagliato. Non occorrono certo terroristi per diffondere un virus che può fare il giro del mondo anche solo grazie ai flussi migratori degli uccelli (lo dice anche uno sciocco film di fiction come Contagion di Steven Sodebergh); e soprattutto che un’arma biologica di questo tipo è talmente pericolosa che non può essere utile in alcun conflitto: in una cosa, infatti, i virus sono migliori degli uomini: ignorano i confini. Anche quelli degli USA.

 

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