di Vincenzo Maddaloni

MOSCA. Chissà cosa direbbe Víctor Ivanovich Gorodash! La prima e ultima volta che l’incontrai (febbraio 1986) me ne disse tante e di così interessanti che l’intervista, considerata l’autorevolezza del personaggio fu ripresa non soltanto dai giornali italiani. Perché venticinque anni fa Víctor Ivanovich Gorodash era ancora il direttore dell’Istituto sovietico dell’ateismo scientifico dell’Accademia delle Scienze e in quell’intervista, per la prima volta, la massima autorità per “la dottrina dell’ateismo”, denunciava l’esistenza di un problema religioso nelle Russie dei soviet.

Certamente, a voler misurare le sue dimensioni esclusivamente politiche per il Cremlino si trattava, a quel tempo, di un problema minore. Sia perché la dirigenza sovietica lo considerava tale; sia perché l’altro possibile protagonista, il patriarcato di Mosca, faceva di tutto per non farlo crescere, a scanso di nuove recrudescenze della persecuzione; sia perché Michail Gorbaciov (da meno di un anno al potere) era impegnato a risolvere questioni di ben più consistente gravità immediata: il ritardo nello sviluppo ecnologico dell’apparato industriale, la persistenza di un focolaio di guerra pericoloso come l’Afghanistan, la complessa trattativa internazionale sul disarmo nucleare, la resistenza opposta da strati di popolazione e di burocrazia statale alla riforma del sistema economico e produttivo, il difficile equilibrio fra l’esigenza di una maggiore libertà di critica e di espressione da parte dell’opinione pubblica, della stampa, dell’intelligentsja in generale e il permanere di un rigido controllo del partito su ogni manifestazione della vita sovietica.

Venticinque anni dopo non é che lo scenario sia cambiato molto in fatto di libertà di opinione e di stampa, ma certamente non esistono più i presupposti che avevano costretto Gorodash ad ammettere che c’era «in Unione Sovietica un crescente interesse per la religione in quanto storia, cultura, politica. E c’è un interesse devozionale che si manifesta con la partecipazione alle funzioni, sicché oggi si può concludere che tra la popolazione c’è una crescita di religiosità. Perché? La rivoluzione tecnico-scientifica ha formulato delle promesse obbligando a scegliere tra materialismo e spiritualità. Ma se le promesse non si concretizzano, si creano degli stati di avvilimento che si traducono in pentimento per la scelta compiuta, e c’è come reazione immediata il ritorno alla sfera spirituale».

Tutto questo accadeva sebbene fosse cresciuto il livello d’istruzione del popolo sovietico e quindi ammetteva Gorodash, «é assurdo sostenere che le chiese le frequentino soltanto gli ignoranti e i rimbambiti. Al contrario è aumentato il numero dei credenti con il titolo di studio. Negarlo vorrebbe dire negare l’emancipazione, il naturale ricambio generazionale. Non si può fare dell’ironia sul fatto che le chiese sono frequentate dai giovani.

«Semmai - spiegava ancora Gorodash - sarebbe opportuno fare delle riflessioni. Marx sosteneva che l’abolizione della religione come felicità illusoria del popolo è necessaria per la sua felicità reale. Aveva fatto coincidere la fine della religione con lo sviluppo della società socialista; cioè la religione sarebbe andata scomparendo, man mano che si fosse affermata la concezione materialista legata al progresso scientifico. Quando questo avverrà, noi dell’Istituto non siamo in grado di stabilirlo: si tratta di un periodo storico di lunga durata. Nemmeno i positivisti dell’Ottocento seppero garantire previsioni al riguardo. Forse ci vorranno dieci anni, cinquant’anni, forse un secolo. Noi abbiamo fede».

Naturalmente, il Direttore dell’Istituto sovietico dell’ateismo scientifico non poteva prevedere che in poco più di un lustro (1992) il disfacimento della struttura di un potere creato dall’ideologia marxista, verificatosi pacificamente e quasi senza spargimento di sangue, avrebbe realizzato in tempi brevissimi quella laicizzazione della società dei credenti che Gorodash non era riuscito a realizzare nello Stato più ufficialmente e graniticamente e possentemente ateo di tutta la Terra.

Egli con grande onestà riconosceva che l’uomo nuovo sovietico non era ancora nato, come invece si aspettavano i rivoluzionari bolscevichi. Infatti, nel 1985 il nuovo segretario del Pcus Michail Gorbaciov aveva tra l’altro ereditato dal suo predecessore e maestro Jurij Andropov l’impegno della salvaguardia della moralità del popolo russo che, appunto, l’applicazione della dottrina marxista doveva garantire.

Nessun segretario del Pcus prima di lui si era soffermato tanto sugli aspetti morali e addirittura “spirituali“ della società socialista, lamentando che essa era rimasta troppo lontana dal livello desiderato. Ricordo, nelle città russe, le code che si formano dopo l’imbrunire davanti a negozi senza insegne: erano le rivendite di alcolici, che per ordine del nuovo segretario Gorbaciov non dovevano attirare più nessun passante con scritte invitanti al consumo di vodka, e dovevano essere aperte soltanto a una certa ora, quando la giornata lavorativa era finita.

La moralità esteriore che la vita sovietica tentava di assumere nei primi tempi del governo Gorbaciov, a cominciare dai programmi televisivi, era degna di una società puritana. Sicché la tradizione religiosa del popolo diventava per molti versi una preziosa alleata della “riforma“ gorbacioviana.

Dopo tutto la Chiesa ortodossa russa è, insieme a quella cattolica, la più rigida conservatrice della morale famigliare cristiana, essendo essa contraria sia al divorzio sia all’aborto, per citare i primi due esempi. Così operando il socialismo scientifico che prometteva la società ideale, difendeva l’immagine della famiglia pur dilatandola nel collettivo poiché temeva che, con lo stemperarsi della tradizione sarebbe venuto meno il principio di autorità e quindi dello Stato sovietico medesimo.

Il timore, infatti, era che trasformando la famiglia in mero contratto civile, nella semplice conclusione di una storia sentimentale, essa avrebbe perso l’autorevole centralità di “chiesa domestica” che la tradizione culturale della storia delle Russie da sempre le assegnava. Sicché la dirigenza sovietica aveva da tempo compreso che il frantumarsi di una realtà come la famiglia, indispensabile allo sviluppo della società, al di là della sua connotazione fideistica, avrebbe seriamente compromesso il futuro del Paese.

Un pericolo che il direttore Gorodash aveva evidenziato senza esitazioni, quando mi spiegava che, «nella gente è cresciuta la coscienza storica perché mentre cerca di immaginarsi il futuro cerca di ricordarsi il passato. Se noi pensiamo al passato, alla nostra storia passata, non possiamo non pensare alla Chiesa e alla funzione svolta dalla Chiesa nel corso dei secoli.

Essa è stata l’espressione della grande patria russa. E difficile immaginare che avvenimenti si sono conclusi come si sono conclusi senza la presenza della Chiesa. Così è difficile immaginarsi il futuro senza la presenza della Chiesa. Tutto questo è rinascita religiosa o è presa di coscienza del ruolo della religione? La si chiami come si vuole, ma non si può negare il fenomeno».

Naturalmente Gorodash esternava in tutta tranquillità. Nelle fondamenta della cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca http://it.wikipedia.org/wiki/Cattedrale_di_Cristo_Salvatore fatta saltare in aria da Stalin c’era ancora la più grande piscina aperta del mondo fatta costruire da Nikita Krusciov. L’Istituto dell’Ateismo scientifico dell’Accademia delle Scienze che Gorodash, appena quarantottenne, dirigeva poteva ancora contare su tre “filiali” dislocate a Kiev, capitale dell’Ucraina; a Vilnius, capoluogo della cattolicissima Lituania; a Tashkent, sede del direttorato spirituale delle comunità islamiche dell’Unione Sovietica.

Sede centrale e filiali erano suddivise ciascuna in quattro sezioni: studio dell’ateismo scientifico e del fenomeno religioso nel mondo, la prima; studio dell’attività della Chiesa nella società socialista, la seconda;la terza sezione analizzava i problemi sociologici, mentre la quarta si occupava delle attività religiose fuori dell’Urss. L’Istituto curava inoltre la preparazione dei quadri con corsi a vari livelli diretti dai ventidue “collaboratori” i quali rappresentavano il collegio accademico.

Direttore, vicedirettore, docenti, collaboratori, formavano insomma “l’ordine” dei missionari dell’ateismo. A suggello dell’intensa attività c’erano i volumi della collana: “I problemi dell’ateismo scientifico” che, con scadenza annuale, l’Istituto proponeva come “summa” degli studi che si andavano via via elaborando. Mi soffermo su questi dettagli perché meglio di ogni altra cosa danno l’idea dell’assillo della difesa dei principi etici della società, che tormentava i custodi dell’ortodossia ateistica  sicuramente molto di più dei monaci della Chiesa russa, se non altro perché il Partito chiedeva loro ogni anno il rendiconto sui risultati raggiunti.

Quando nell’agosto del Duemila - otto anni dopo l’implosione dell’Urss - è stata consacrata a Mosca la cattedrale di Cristo Salvatore, in Russia era già in uso da un pezzo quello che si usa definire lo spontaneismo ultraliberista che, facendo leva sull’immaginario, incoraggia la corsa al materiale con uno slogan di facile presa: più tecnica, più benessere. E’ un invito al quale è difficile sfuggire, sebbene esso non riesca a dare un senso alla vita e alla morte, poiché il valore della persona non può misurarsi soltanto sui riferimenti quantitativi come possono essere il denaro e il potere.

Ma è la corsa al benessere che marca il passaggio dal mondo diviso in due blocchi al mondo dominato da una sola potenza, che da allora lotterà con ogni mezzo per imporre la sua legge all’intero pianeta. L’obiettivo è la realizzazione del villaggio globale, il quale reggendosi sul progresso economico, crea il consenso indispensabile all’evoluzione di un modello politico e sociale del quale gli Stati Uniti rimangono l’unico punto di riferimento.

Stando così le cose, gli abitanti del mondo diventano dei semplici consumatori, sottomessi di volta in volta ai sobbalzi dei mercati, i quali si reggono sulle contrattazioni e quindi sul denaro, a sua volta regolato da quella legge suprema che è la logica del profitto. Pertanto, nel villaggio globale c’è spazio soltanto per una società dove ogni individuo, dovendo inseguire il suo migliore interesse pecuniario, contribuisce in maniera determinante a destrutturare il legame sociale.

Culturalmente è, come si è detto, la prevaricazione dell’ “io” su qualsiasi proposta comunitaria di condivisione, di dialogo, tipica del cristianesimo, dello sciismo, della dottrina marxista inclusa. Se vogliamo dire le cose come stanno veramente e non ricorrere a retoriche ipocrisie, va tenuto a mente che il nuovo modello di capitalismo rilanciato sull’onda dello “scontro di civiltà” di Samuel Huntington, (http://www.vincenzomaddaloni.it/?p=670) che, facendo leva appunto sull’affermazione dell’“io”, propende per la negazione totale delle convinzioni religiose nonché delle dottrine politiche e delle correlate impostazioni etiche.

Esso si diffonde attraverso un uso esasperato degli strumenti mediatici impegnati a uniformare a livello globale i desideri e le pulsioni riducendoli a meri scambi d’interesse. In questo scenario dove uno dei messaggi più diffusi è quello che sottolinea l’inutilità di fare affidamento sull’esperienza del passato e l’incapacità di poter prevedere le linee guida del futuro, il principio stesso di autorità (intesa come stima, autorevolezza derivante da superiorità morale, intellettuale, da competenza, dalla tradizione) si deteriora.

Invece si rafforza il principio della “contrattualità”, poiché la logica del profitto genera una società puramente commerciale dove, come ha già affermato Pierre Leroux, «gli uomini non associati non sono soltanto estranei tra loro, ma necessariamente rivali e nemici».

Sicché quella società laicista sognata per quasi un secolo dal Cremlino, è stata realizzata in pochi lustri dal modello americano del “villaggio globale”. La formula è semplice: si creano di continuo nuovi bisogni; si moltiplicano gli stimoli di distrazione e di divertimento; si propaganda l’idea che non esista felicità se non nel consumo; s’inventano proposte commerciali sempre più coinvolgenti.

E’ il trionfo di una cultura impostata sulla dittatura dell’economia, sul feticismo del mercato e sul primato dei valori mercantili. Che tiene in scarso conto l’etica, che ha abolito le distanze e il tempo, ma dove la logica del profitto destrutturando il legame sociale, crea stress mentali che si preferisce non analizzare. Sicuramente in Russia è una delle ragioni del perdurare di una crisi demografica drammatica che ha visto la popolazione del Paese scendere dai 149 milioni del 1991 ai 142 odierni, con previsioni per il 2025 di soli 125 milioni.

I comunisti atei non l’avevano mai potuto immaginare che si sarebbe giunti a tanto. Perché a ben vedere “l’ordine” dei missionari dell’ateismo diretto da Víctor Ivanovic Gorodash e del quale facevano parte oltre al direttore, il vicedirettore, i docenti, i collaboratori e gli aspiranti collaboratori, si muoveva entro i parametri dei valori etici della cultura millenaria del Paese. Il suo compito era di individuare in ogni manifestazione di fede la “ragione” scientifica che poteva averla provocata, e di trovare poi le argomentazioni da trasformare in convinzioni laiche.

Ma quel materialismo non rinnegava i valori culturali russi, semmai li mediava decorticandoli di ogni forma di trascendenza http://it.wikipedia.org/wiki/Trascendenza, ma sempre tutelandoli, con la stessa caparbietà che era propria dei monaci ortodossi, quasi con il medesimo misticismo che Gobetti colse e poi analizzò nel Paradosso dello spirito russo http://www.leninismo.it/gobetti.html. Del resto, di misticismo erano pervasi ancor prima dei bolscevichi gli anarchici Dostoevskiani che sognavano di far saltare gli zar. http://www.liberospirito.org/Testi/Anarchismo%20religioso/anarchici%20mistici.pdf.

Insomma, da sempre di misticismo è connotata la nazione. Naturalmente su quest’aspetto non si soffermò il santo pontefice quando stilò (19 marzo 1937; XVI dell’éra fascista ) l’enciclica sul comunismo ateo http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19370319_divini-redemptoris_it.html invitando a premunirsi contro le sue insidie e consolidando così  l’immagine dei comunisti-mangia-bambini. Che ancora qualcuno di tanto in tanto s’affanna a rinfrescare.

 

 

 

 

 

 

 

di Vincenzo Maddaloni

MOSCA. Michail Bulgakov, uno dei più grandi scrittori del Novecento, nasceva a Mosca 120 anni fa. La casa dove scrisse il suo capolavoro “Il maestro e Margherita” era diventata negli anni della Perestrojka meta d’inconsueti pellegrinaggi, con i muri ricoperti di graffiti di cui non esisteva altro esempio in tutta la città di Mosca. Oggi la casa è un’attrazione per i turisti.

Se chiamate al telefono può capitare che vi risponda la bellissima strega Hella per dirvi, scusandosi, che Voland «è occupato e non può venire al telefono» . Le telefonate con i personaggi di “Il Maestro e Margherita” sono la sorpresa di quest’estate moscovita per attirare visitatori nella Casa-Museo Bulgakov, gestita da una ventina d’anni dal Comune, al civico 10 di Bolsciajaja Sadovaja.

Naturalmente - è così da quarant’anni - lo si vede soltanto quando si è vicini, (lasciando piazza Majakovskij per la strada che porta al parco Gorkij), il bassorilievo di bronzo sistemato sulla cornice di marmo del portale che raffigura il volto di Jeshua, come ebraicamente viene chiamato Gesù, incorniciato  dalla saga dei personaggi e delle situazioni che animano “Il Maestro e Margherita”, il capolavoro di Michail Afanasievic Bulgakov, tra i massimi scrittori russi di cui quest’anno ricorre il centoventesimo anniversario della nascita.

Per questo hanno infilato dei fiori nel bassorilievo; piuttosto discreto di dimensione, piuttosto sobrio d’intonazione, messo lì, si direbbe, più per soddisfare a un obbligo che per offrire un modello di riflessione.

Perché Bulgakov, che s’era trovato invischiato in contrasti politici, ideologici e anche religiosi, era stato riconosciuto scrittore dopo venticinque anni dalla sua morte, quando con Breznev, da due anni segretario del Pcus, la rivista Moskva, sullo scorcio del 1966, iniziò a pubblicare a puntate “Il Maestro e Margheria”, il suo lavoro principale rimasto incompiuto nonostante, tra il 1928 e il 1940, anno della sua morte, avesse avuto ben otto redazioni.

Così il giovane medico, figlio di un professore di teologia, costretto dalla sorte a vivere in un tempo che gli era ostile, schiacciato dalla burocrazia («Prego di considerare che l’impossibilità di scrivere per me equivale ad essere seppellito vivo), si è preso una clamorosa rivincita col suo tempo e i suoi contemporanei, con un romanzo indefinibile come genere, ma con una forza immediata di divertimento e di meditazione. Poiché è costruito sull’intersecazione di tre differenti piani narrativi: le “avventure del Diavolo a Mosca”, le “vicissitudini del Maestro” e la “passione di Jeshua Ha-Nozri”. Una sintesi di commedia buffa e di sacra rappresentazione.

Il principe del Male, Woland, compare a Mosca con una banda di perfidi e mirabolanti coadiutori, unico possibile dominatore di una realtà che non è capace neppure di intendere la tragedia di Cristo e il dramma di Pilato, abitata com’è da miriadi di burocrati e sudditi avidi, furbi, aggressivi e impauriti.

Woland, sotto le vesti di mago ipnotizzatore, opera i suoi sbalorditivi giochi di prestigio, soggiogando le masse con le sue parodie di miracoli. «Dopo tutto», annotava Eugenio Montale nel 1967, all’uscita del libro in Italia, «Il Maestro e Margherita è opera di un uomo che scriveva in una situazione bene determinata e poteva alleare l’ispirazione al sotterfugio e persino al trucco. Il piano demoniaco potrebbe essere la cortina fumogena che occulta e rende accettabile anche dai censori la feroce satira che pervade tutto il libro. Il piano reale, quello degli eventi narrati, ha un significato che direi allegorico. Esso ci dice che una massa di anime morte, non più servi della gleba, ma servi di un sistema disumano, può essere suggestionata e avvinta da un grande ciarlatano che sappia recitare bene la sua parte».

L’abilità di Bulgakov scrittore sta anche nell’aver saputo legare mirabilmente la solenne, cadenzata narrazione della vicenda evangelica con la mordente, frizzante, irriverente prosa della farsa moscovita, per poi giungere alla conclusione che il Cristo rappresenta la “verità ultima” cui rapportare tutti i possibili significati della vita e della storia degli uomini. Ma alla conclusione si arriva dopo un pullulare di godibilissimi enigmi, di situazioni grottesche, fatti straordinari, eventi misteriosi che col passare delle generazioni di lettori sono diventati un complemento dell’arredo urbano moscovita, poiché ogni cosa può essere reimmaginata ripercorrendo i luoghi immaginati nel romanzo, in una sorta di raffinato baedeker degli ambienti dove vissero Woland, la salvifica strega Margherita e il povero eroe del romanzo, il Maestro, l’artista con il  suo ideale modesto: sottrarsi all’arida bufera della Storia, chiudersi nella dolce prigione di una casa a scrivere.

Dove? Nell’appartamento numero 50, (che lo scrittore e la sua terza moglie erano costretti a dividere con altre famiglie), all’ultimo piano di un palazzetto che dà sulla Bolsciajaja Sadovaja, diventato Museo per volontà del comune di Mosca, che si spende ogni anno per trovare nuove attrazioni per attirare i visitatori. Quest’anno si sono inventati la segreteria telefonica.

Si sceglie il nome di uno dei personaggi del romanzo su una rubrichetta appesa al telefono d’epoca e basta comporre il numero. Rispondono voci registrate che ricalcano le battute del capolavoro dello scrittore. Se si chiama, per esempio il grosso gatto nero, questi risponde: "Riaggancia il telefono canaglia!". Naturalmente c’è tra le offerte anche un tour, su un piccolo autobus rosso, nei luoghi in cui è ambientato il romanzo.

Ero corrispondente a Mosca quando vent’anni fa, vi sono andato per la prima volta con il fotografo Alexei Weitsler, che era agli inizi e che adesso è uno dei professionisti della Mosca che conta. Naturalmente, la Russia era ancora Unione Sovietica, e la casa di Bulgakov soltanto un luogo d’intimo pellegrinaggio, appena tollerato sebbene già imperasse da tempo la Perestrojka. Attraversato il cortiletto, aperta la porta, i pellegrini - quasi tutti giovani - salivano le scale e leggevano i grafiti lunghi i muri che ora sono ricoperti da tre mani di pittura bianca e sulla quale hanno dipinto pure il ritratto di Bulgakov.

Ma vent’anni fa era uno spazio di trasgressione - unico nel suo genere nella Mosca che sei mesi dopo non sarebbe stata più comunista - cintato dalla ringhiera, una zona franca del Pese del controllo totale. Restavano fuori il Komsomol e la Perestrojka, ma anche gli affanni quotidiani per trovare le merci nei negozi, le tessere per il burro e lo zucchero. Poiché i muri e persino i vetri delle finestre, ora straordinariamente tersi, offrivano uno spiegamento verbale e visuale di considerazioni e di inviti; esibivano una fioritura di riflessioni e di moniti, con concentrazioni dove la scrittura è più agevole, cioè ad altezza d’uomo.

Distribuzione e proporzione naturalmente variavano. Per esempio: «Datemi la pace, concedetemi la felicità e vedrete come saprò conservarla», si leggeva a pieno muro dopo i primi scalini. Per esempio: «Non chiedete mai nulla, soprattutto a quelli che sono più potenti di voi», si avvertiva poco più in su. Per esempio: «Gente felice esiste al mondo?”, chiedeva una robusta scritta arricchita dallo stemma dell’Unione Sovietica e dal panorama stilizzato di Mosca con in primo piano il Cremlino e qualche ciminiera.

O addirittura, si assecondava il gusto della citazione: «La schiavitù agli schiavi, la libertà ai liberi», ricordava un graffito a metà della seconda rampa. «Distruggeremo il vecchio mondo e costruiremo quello nuovo», ricordava una scritta presa a prestito dall’“Internazionale”, che appena s’intravvedeva sotto la strisciata di vernice bianca di uno sconosciuto che aveva tentato di cancellarla con rabbia, perché accanto c’era un’altra frase probabilmente scritta dalla medesima mano che avvertiva: «E’ disumano continuare a promettere quando non siamo riusciti a realizzare nulla».

Non immaginatevi carovane di visitatori, come accade quasi ogni giorno di quest’estate. Allora erano soltanto singoli, al massimo coppie. Arrivavano a metà del pomeriggio, quando la gente affolla i marciapiedi da piazza Puskin a piazza Majakovskij. Sostavano davanti al Teatro della Satira tra la gente qualunque, tra persone d’ogni età con i giovani vestiti un po’ all’antica, di un’eleganza formale e da vetrina; ragazzi con i “varionki”, i jeans bolliti per farli scolorire, il modo più diffuso d’abbigliarsi nella Mosca del 1991. A quell’ora del pomeriggio in quella piazza c’erano le famiglie a spasso, in coda davanti al chiosco del Pinguino, il gelato arancione, verdino e viola di un sapore insolito che si consumava anche d’inverno per strada. E molti anziani: le donne con il foulard a quadri il “platok”, gli uomini con le medaglie sul petto. Quasi tutti in silenzio a guardare il passeggio d’ogni giorno, con i miliziani discreti che ogni tanto fermavano una vettura per le loro improbabili contravvenzioni.

Da quella folla in perenne movimento, loro, i singoli, le coppie,ogni tanto si staccavano e imboccavano la Bolsciajaja Sadovaja, e raggiungevano la casa di Michail Bulgakov. Entravano e avanzavano con gli occhi all’insù, e come spesso accadeva nell’Urss di quegli anni, era difficile individuare il limite tra funzione e rito. Capire fin dove si spingeva la propensione dei russi a credere, fin dove arrivava il loro desiderio di lasciarsi coinvolgere in quella estraterritorialità che quella scala rappresentava, e che ora non possiede più. Con le sue delusioni e le sue speranze, come la ragazza che scriveva: «Non sono Margherita, ma troverò il mio maestro e Woland mi aiuterà»; e un’altra che aggiungeva convinta: «Cara Margherita, soltanto tu mi puoi aiutare ad amare il mio maestro». Ma c’era pure chi desolato scriveva: «Woland ferma la terra, io scendo», perché, «stiamo vivendo soltanto per morire». E subito dopo accanto alla porta numero 50, c’era la risposta di un sarcasmo bulgakoviano: «Non preoccupatevi, magari impiegheremo trecento anni, ma anche il nostro mondo migliorerà».

Ne sono già passati settanta, ne mancherebbero ancora duecento e trenta per poter verificare se migliora oppure no.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. A cinquant’anni dalla costruzione del Muro di Berlino e ad oltre venti dalla sua caduta, due alti funzionari dell’ex-Repubblica Democratica Tedesca (RDT) si rimettono in gioco per spiegare le ragioni  di quello che è stato per anni il simbolo della capitale tedesca. Sono l’ex- ministro della Difesa della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) Heinz Kessler (91 anni), in carica fino al 1989, e Fritz Streletz (84), primo generale dell’Armata Popolare Nazionale della Germania dell’Est, (o Nationale Volksarmee - NVA), che hanno presentato a Berlino il libro “Senza Muro ci sarebbe stata una guerra”: un titolo inequivocabile, quasi una provocazione, che si annuncia come l’inizio di un interessante dibattito.

Nella loro testimonianza Kessler e Streletz provano a raccontare e analizzare il Muro di Berlino attraverso i modelli di pensiero e gli schemi concettuali di quando è stato costruito, il 13 agosto 1961. Per i due ex- politici della Germania comunista il Muro è stato innanzitutto il prodotto dello scontro tra blocco occidentale e blocco comunista, l’effetto quindi della Guerra fredda. Se non si fosse costruito il Muro, il blocco orientale avrebbe dovuto impedire le occupazioni delle forze occidentali nel territorio di Berlino Ovest. E, a un’intrusione di questo tipo, gli americani non avrebbero potuto reagire che militarmente.

A essere particolarmente spaventato da questo labile equilibrio era Nikita S. Krusciov, leader dell’Unione Sovietica tra il 1953 e il 1964. Il timore di perdere terreno a livello internazionale, così come quello di scatenare un conflitto armato esigendo una riduzione delle truppe NATO a Berlino Ovest, lo obbligò a trovare un compromesso. “La soluzione più economica per Krusciov, forse la più semplice e l’unica senza guerra, era proprio costruire un confine con Berlino Ovest”, spiegano Kessler e Streletz, per interrompere ogni tipo di contatto tra i due blocchi. Senza Muro ci sarebbe stata quindi una guerra vera e propria, si sentono autorizzati a ribadire i due ex- politici.

Il Muro, quindi, come risultato di una strategia militare tra Washington e Mosca, con cui l’allora  Presidente RDT, Walter Ulbricht, in carica dal 1960 al 1973, aveva poco o nulla a che fare. Ulbricht non è stato né l’ideatore né il fautore del Muro di Berlino, spiegano Kessler e Streletz: assegnare alla RDT un ruolo di rilievo nella volontà di costruzione del Muro è, per i due ex- funzionari della Germania dell’Est, una grossa bugia storica.

Certo, anche la Germania dell’Est aveva i suoi interessi da difendere, ammettono Kessler e Streletz. Chi scappava dalla RDT nel periodo della Guerra fredda era il cosiddetto “profugo dell'economia”, un civile che lasciava la propria patria per guadagnare di più nella Repubblica Federale Tedesca (RFT), l’Ovest capitalista. Poi c’erano i frontalieri, i cittadini che lavoravano a Ovest e vivevano a Est: una categoria che costituiva un’enorme perdita economica per l’economia dell’ex- Germania orientale.

“I frontalieri vivevano da noi e usufruivano di tutti i vantaggi che il nostro Stato offriva, ma lavoravano a Berlino Ovest”, spiega Streletz, precisando che in questo modo “lo Stato perdeva ogni anno oltre 2,5 miliardi di marchi”. Tra frontalieri e profughi dell’economia, il fenomeno stava portando l’ex-Germania dell’Est a una vera e propria deriva materiale: il Muro ha evitato una catastrofe economica.

Dopo la Riunificazione della Germania, Kessler e Streletz sono stati condannati rispettivamente a 7 anni e 6 anni di carcere come responsabili politici della polizia di confine che ha sparato e ucciso i civili che tentavano di oltrepassare il Muro in cerca di condizioni di vita migliori. E ora, dopo questo libro che inneggia al Muro come a un avvenimento che dovrebbe essere ricordato positivamente nella storia, c’è chi li accusa di non aver imparato nulla dalla storia.

Eppure, a chi indignato ricorda loro le vittime del Muro, quegli oltre mille cittadini cui la polizia ha sparato a vista per impedire l’espatrio illegale, Kessler e Streletz rispondono con determinazione: si dispiacciono, ammettono che non avrebbero mai dovuto esserci morti, e poi si giustificano con un confronto. Perché al confine tra Messico e Stati Uniti, “due Stati capitalisti”, sono morti a volte più profughi in un anno che in 40 anni di RDT, accusano i due ex-funzionari. E allora qualcuno si rende conto che, in fin dei conti, nessuno ha ma imparato nulla e, seppur in salse sempre diverse, gli errori della storia tornano sempre, indipendentemente dal colore della bandiera.

 

di Mario Braconi

Il talento iconoclasta, il dinamismo e il rigore della sua arte fanno di Lars Von Trier uno dei più grandi cineasti contemporanei. La sua storia, anche professionale, parla chiaro: Von Trier ricerca ed innova, mette in discussione ogni cosa, in primo luogo sé stesso, soprattutto non ha paura di osare. Nel corso degli anni, a Cannes gli è capitato di tutto: nel 2000 ha trionfato con il suo inusuale melodramma “Le Onde del Destino”; nel 2009, con il capolavoro “Antichrist ne è uscito subissato dai fischi e dall’ironia...

Sfortunatamente, però questa volta le sue usuali provocazioni hanno passato il segno, e il Consiglio di Amministrazione del Festival di Cannes edizione del 2011 è stato costretto a dichiararlo “persona non gradita” nei luoghi in cui si svolge la manifestazione cinematografica a causa delle sue “opinioni inaccettabili, intollerabili, contrarie agli ideali di umanità e di generosità che presiedono all'esistenza stessa del Festival”.

Ripercorriamo i fatti: nel corso della conferenza stampa di presentazione del suo ultimo lavoro, “Melancholia”, Von Trier ha dichiarato di apprezzare molto il Tristano ed Isotta di Wagner, in quanto esempio di opera inscritta nella “tradizione romantica germanica”. A quel punto, Kate Muir del Times di Londra ha preso la palla al balzo, chiedendogli di parlare brevemente delle sue origini tedesche e di chiarire la dichiarazione da lui resa a un periodico danese, cui Von Trier aveva detto di essere affascinato dall’estetica nazista.

Von Trier, pur essendo danese, in età adulta ha scoperto di non essere il figlio naturale del marito di sua madre, ma di Fritz Michael Hartmann, un dipendente del padre, tedesco. Ad attirare la madre, desiderosa di garantire al figliolo un corredo genetico “artistico”, pare fosse il fatto che Hartmann proveniva da una famiglia di celebri musicisti.

Dunque Von Trier non mente quando racconta, nel prosieguo della conferenza stampa, di essere stato convinto per anni di essere di origine ebraica. E anche contento di esserlo, se fosse che ebrea è anche Susanne Bier (la regista danese del pessimo “In un mondo migliore”, odiatissima da Von Trier). “Ero felice di essere ebreo, fino a che non ho scoperto che ero un nazista, cosa che - ride - mi ha fatto anche piacere”. Una battuta di pessimo gusto, che allarma le due donne che siedono ai suoi lati, Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst.

E qui comincia il delirio: “Io comprendo Hitler. Credo che abbia fatto delle cose sbagliate. Io comunque me lo immagino nel suo bunker...” A dispetto della visibile agitazione della Dunst, che cerca di interromperlo parlandogli nell’orecchio e sorridendo come neanche fosse ad un cocktail party, Von Trier non demorde, spiegandole che alla fine del discorso comprenderà ciò che intendeva dire. “Certo [Hitler] non era un uomo buono, ma in un certo senso lo comprendo... D’accordo, coraggio, non sto dicendo che sono favorevole alla seconda guerra mondiale, né contro gli ebrei - nemmeno contro Susanne Bier, vabbè, anche qui sto scherzando - mi piacciono molto gli ebrei. No, non troppo, alla fine, perché Israele è una gran rottura di palle... E adesso come faccio a finire questa frase? Visto che si parlava di arte, a me piace molto Albert Speer.” Finalmente resosi conto di aver esagerato, Von Trier tenta in più occasioni di scherzare sulle sue stesse enormità, fino a pronunciare la sua (falsa) ammissione finale: “D’accordo, sono un nazista”.

Con ogni probabilità la condotta di Von Trier può essere attribuita più alla micidiale combinazione di cattivo gusto e provocazione che ad una autentica fede nazista. Sembra quasi che il regista danese, a 55 anni suonati, proprio non riesca a superare il suo complesso dell’énfant terrible, sempre pronto a qualche alzata di ingegno per attirare l’attenzione di genitori emotivamente distanti. Peccato che la sua provocazione resti un esercizio fine a se stesso.

Un esempio: i militanti del gruppo russo di artisti-militanti noto come Voina (la guerra) mettono in scena provocazioni anche pesanti: lanciare un gatto affamato in un fast food, organizzare un’orgia in un tribunale, rovesciare una macchina della polizia con dentro due agenti addormentati, disegnare un pene di sessanta metri su un ponte davanti alla sede del FSB.

Le loro azioni-proteste, però, hanno un’utilità sociale, in quanto danno corpo (e sorriso) alle storture della civiltà contemporanea: fame, censura, controllo poliziesco. E’ in effetti avvilente invece lo spettacolo di un intellettuale che fa lo sciocco con sparate filonaziste ad un festival internazionale. Non solo non aiuta nessuno, ma può costituire un sia pur involontario “fenomeno di rinforzo” culturale in un mondo nel quale tuttora si riscontrano focolai infettivi nazisti ed estremisti in genere.

Finora l’unico caso noto di censura al Festival francese ha riguardato il documentario di Alain Resnais “Notte e nebbia”, sullo sterminio nazista degli ebrei. Presentato nel 1956 a Cannes, venne ritirato all’ultimo momento a seguito delle pressioni politiche esercitate sulla direzione della kermesse tanto da parte tedesca che francese. Scoperchiare il verminaio dello sterminio come quello del collaborazionismo non era considerato utile all’obiettivo politico di distensione tra i due Paesi. Ricordare Vichy non era utile, ad esempio..

Si pensi che al povero Alain Resnais venne addirittura imposto di “truccare” un kepi, il tipico copricapo dei poliziotti francesi, in modo tale da non far capire agli spettatori che era un poliziotto d’Oltralpe a far la guardia al campo di concentramento nazista di Pithiviers.

La decisione presa il 19 maggio dal Consiglio di Amministrazione del Festival in qualche modo è la nemesi degli errori commessi nel 1956 (ironia della sorte, anno in cui è nato Von Trier). Segno che alla fine, il Festival ha deciso di mettere da parte atteggiamenti compromissori e abbracciare le Vittime. Esattamente l’atteggiamento che ci si attende da un guardiano della cultura. La scelta di allontanare Von Trier, in via di principio discutibile, in quanto censoria, era però inevitabile dal punto di vista politico.

Il Festival è un’istituzione ed è suo dovere tenere nella giusta considerazione i diritti dei suoi fruitori nonché tenersi a distanza di sicurezza dalla possibilità che quella vetrina così “esposta” possa essere usata in modo improprio e velenoso. Cosa che in questo caso sfortunatamente é avvenuta, per la superficialità, l’arroganza e l’irresponsabilità di Lars Von Trier.

 

di Roberto Giardina 

BERLINO. A Tripoli stanno bombardando la casa dove nacque mia madre. A Bengasi, stanno bombardando la casa dove abitò, e il Teatro Comunale dove da ragazzina andava al cinema con i fratelli. Le “pizze” arrivavano ogni settimana con il postale da Palermo. I profughi sbarcano a Lampedusa, dove andavo in vacanza da ragazzo quando in Italia neanche sapevano che esistesse. Il mio bisnonno fu il primo maestro elementare dell´isola. Vinse il concorso a 17 anni, e lo mandarono nel luogo più disagiato della nazione unificata da poco.

Pensava di restarci una sola stagione, vi rimase tutta la vita perché scoprì che era uno dei re dell'isola, insieme con il prete, il maresciallo e il dottore. Ma che destino attende il figlio del maestro elementare di un posto dimenticato? Così suo figlio, mio nonno, finì in Libia, e lì nacquero i suoi figli. E´ una cronaca familiare, ma comune a migliaia di famiglie,soprattutto meridionali. E, a suo modo, una cronaca che fa parte della storia d´Italia, che dovremmo ricordare, mentre siamo tornati a bombardare la nostra ex colonia.

Le storie di Tripoli e di Bengasi, della vita quotidiana degli italiani su quella che era definita la quarta sponda, e la guerriglia con i ribelli libici, me le raccontava mia madre (che oggi ha 93 anni) quando ero bambino. Lei e i fratelli stavano dalla parte dei ribelli, il che potrebbe sembrare strano. Forse perché mio nonno che era siciliano, anzi lampedusano, era un tipo particolare. Divenne il capo delle dogane della Cirenaica e pretendeva di far pagare le tasse ai gerarchi fascisti, anche al governatore Graziani. Così, per toglierselo dai piedi, lo promossero e lo mandarono a Venezia. Lui, offeso, preferì tornare nella sua isola.

Mia madre mi raccontava di Omar el Muktar, il capo della guerriglia, che impiccammo dopo un processo farsa, e di altre cose ancora. Di Graziani che, quando tornava a casa dal palazzo del governo, si lasciava precedere da quattro zaptiè a cavallo, i nostri soldati di colore, che a colpi di staffile cacciavano tutti dalla strada. Il governatore non doveva essere infastidito dalla vista di coloro che lui governava. E di come lei, al ritorno da scuola, continuava a camminare sul marciapiede nonostante sentisse la macchina scoperta di Graziani avvicinarsi lentamente. Per una bambina, una grande sfida.

Tutti gli orrori del XX secolo li abbiamo compiuti noi per primi in Libia. Sia pure a livello - come dire? - amatoriale. Il primo aereo, un Blériot, usato in guerra, lo abbiamo fatto volare noi sulle oasi. Il pilota gettava le bombe incendiare con la mano, sporgendosi dalla carlinga. Poi verrà il napalm in Vietnam. Per anni si discusse se prenderci la Libia occupata dai Turchi. Quando infine fu deciso lo sbarco, l´esercito era ancora a Napoli, disorganizzato. Conquistammo Tripoli bel suol d´amore, come inneggia la canzone, che non è male. Ma poi continua “sarai italiana al rombo del cannone”. Si canta uno stupro.

Tutti conoscono Adua, chi ha sentito parlare di Sciara Sciat? Dopo lo sbarco, una sottile linea di nostri militari protegge Tripoli su un arco di quattro km. All'estremità orientale, sul mare, l'oasi di Siara Sciat è presidiata da 400 uomini dell´81simo bersaglieri. Il 23 ottobre, i cavalieri turchi fingono un attacco frontale, e si ritirano. Improvvisamente, alle spalle insorgono gli abitanti dell'oasi. I 400 bersaglieri vengono massacrati, senza che il nostro comando osi intervenire. La rappresaglia è feroce: nei giorni seguenti uccidiamo quattromila libici, anche donne e anziani.

Basta avere il burnus macchiato di sangue, o un fucile in casa (ma tutti sono cacciatori), per venire fucilati o impiccati. Secondo noi gli arabi erano dei traditori. Non eravamo venuti a liberarli dai turchi? Non troverete nulla sui nostri giornali dell´epoca. Ne riferisce solo l'inviato dell'Avanti, che viene malmenato dai colleghi e espulso insieme con gli inviati stranieri.

Abbiamo eretto il primo “muro”, 300 km. di filo spinato alto tre metri tra la Libia e l´Egitto. E abbiamo creato il primo Lager: vi abbiamo trasferito in massa gli abitanti degli altopiani della Cirenaica per togliere ogni aiuto a Omar el Muktar. In 40mila morirono nella marcia verso la costa: chi rimaneva indietro veniva abbattuto. Ma siamo sempre “italiani brava gente”. Potete trovare queste storie nei libri di Angelo Del Boca, che è stato il mio unico maestro di giornalismo. Ma quanti li hanno letti? Dovrebbero essere libri di testo obbligatori nelle nostre scuole.

Ho impiegato anni per trovare la chiave adatta a scrivere un romanzo su queste vicende (“Il mare dei soldati e delle spose”, uscito a settembre da Bompiani ndr). Una doppia trappola: una storia familiare e un romanzo coloniale. Se ci metti una palma e un cammello è kitsch, ma se non le metti non c´è atmosfera. E dai ricordi dei parenti devi prendere le distanze.

Per vedere i luoghi di mia madre, andai in Libia, da turista. Altrimenti avrei dovuto attendere il visto per mesi. Ma era il settembre del 2001, esattamente due settimane dopo l´attentato alle Twin Towers a New York. Gli altri cominciarono a disdire, temetti che il viaggio venisse annullato. Alla fine ci ritrovammo in tre. E fu egoisticamente un viaggio splendido, in una Libia deserta e le sue antiche città romane, Leptis Magna, Sabratha, Cirene. Riemerse dalla sabbia, intatte. Il fascismo favori il lavoro degli archeologi per provare con le rovine che “quella terra era cosa nostra”.

Al museo di Tripoli ho visto la Venere di Leptis Magna, esposta accanto al maggiolino VW celeste con cui, nel ´69, il colonnello Gheddafi andava a trovare i colleghi per preparare il golpe. Mussolini la regalò a Goering, che amava le opere d´arte. Goering se la portò nella sua villa di Karinhall, a 80 km. a nord di Berlino, a un´ora da dove abito. Nel febbraio del ´45, l´Armata Rossa bombardò la residenza, la statua finì nel fango del lago. I tedeschi, persino in quei frangenti, la salvarono, la portarono al Bode Museum. Dopo la separazione, la Venere si trovò a Berlino Est.

Nel ´90, con la riunificazione, i tedeschi fecero un inventario: la statua non apparteneva alla Germania perché era un dono personale di Benito a Hermann. La restituirono all´Italia. Anche noi dovemmo ammettere che non ci apparteneva, e nel pieno dell´embargo americano contro la Libia, che allora era uno “stato criminale”, la riportammo a Tripoli. I libici lo considerarono un atto di grande amicizia. E´ una storia emblematica del Mediterraneo e della nostra Europa, dalle sabbie libiche alle paludi prussiane, da Berlino a Roma. Chissà se la Venere scamperà alle nuove bombe nostre.

Naturalmente la mia guida, un ragazzo che parlava inglese, francese, tedesco e italiano, comprese che io ero giornalista. Fu discreto. Gli chiesi se era possibile trovare il film “Il Leone del Deserto”, che racconta di Omar el Muktar e dei suoi ribelli. Gheddafi lo finanziò nel 1981. Da noi, la censura ufficiosa lo vietò, senza eccessive proteste, mentre ancora ci sdegnavamo perché i francesi non avevano gradito “La battaglia di Algeri”, di Pontecorvo. “Sì, mi disse l´amico libico, ma poi la vediamo insieme”.

Così avvenne, nell´unico hotel di Gadames, alle porte del Sahara. Lui, io e 18 inservienti dell'albergo, che era vuoto. Per la prima volta mi ritrovai come i tedeschi quando vedono un film sul nazismo. Il cattivo ero io. Ma il film di Moustapha Akkad è obiettivo. Ci sono italiani buoni e italiani cattivi. Un´opera spettacolare dallo stile hollywoodiano, con Anthomy Quinn nel ruolo di Omar, Rod Steiger come Mussolini, Sky Dumont nei panni di Amedeo d´Aosta. E Oliver Reed nella parte di quel Rodolfo Graziani, che mia madre detestava.

Anche il processo a Omar è descritto con precisione. Il capitano Roberto Lontano fu incaricato di difendere d´ufficio il capo dei ribelli. E lui sostenne che andava applicato il diritto di guerra, era un prigioniero, e non un traditore. Lo difese troppo bene, e perse: Omar finì sulla forca, e Graziani inflisse dieci giorni di cella di rigore al capitano Lontano, che si rovinò la carriera. Probabilmente a lui non importava.

Quando è venuto l´ultima volta a Roma, il Rais ha voluto invitare anche i parenti di Roberto Lontano. E´ stata giudicata l´ennesima stramberia di Gheddafi, come quella di pretendere le isole Tremiti, dove vennero deportati e lasciati morire i libici contrari alla nostra occupazione, o la richiesta di ricostruire la strada costiera da Tripoli a Bengasi, la Balbia, voluta da Italo Balbo, il governatore che sognava di trasformare Tripoli nella Cannes della quarta sponda.

Grazie a Lontano non mi vergognai in quella notte a Gadames. Meriterebbe che gli venisse dedicata almeno una strada. Mi chiedo che fine abbia fatto la mia guida, che amava la musica americana e detestava gli Stati Uniti. Il suo italiano era perfetto, e mi chiedeva: quanti di voi europei parlano arabo? Eppure siamo vicini di casa. Mia madre non ha più potuto rivedere il posto dove nacque. Mi raccontava che al Liceo Scientifico di Bengasi studiava l´arabo, ma un arabo che nessuna delle sue amichette libiche riusciva a comprendere. Un arabo antico, come il latino. Forse anche per questo non riusciamo a comprendere quanto avviene a pochi km, al di là del mare di Lampedusa.


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