di Emanuela Pessina

BERLINO. La Grecia rischia il tracollo, e con lei tutto il resto dell’Europa assieme alla moneta unica. I Governi del Vecchio continente non trovano l’accordo per sostenere Atene, e le proposte dei politici sembrano destinate ad arrecare più danno che guadagno, mettendo a rischio le esigenze concrete dei cittadini. Le agenzie di rating scommettono sulla morte finanziaria dei Paesi dell’Unione più deboli, mettendo in evidenza uno strapotere che quasi imbarazza. E, come se non bastasse, alcuni Stati, tra cui la Danimarca, vagheggiano la reintroduzione delle vecchie dogane.

La situazione è difficile, l’Unione europea sembra veramente arrivata al capolinea, ma non tutti si danno per vinti: a proporre soluzioni alternative è Juergen Habermas, uno dei più grandi filosofi tedeschi viventi di tutti tempi, che ha affrontato il tema settimana scorsa in una conferenza all’università Humboldt di Berlino.

Al centro dell’argomentazione di Habermas c’è la crisi dell’Unione europea: da sempre convinto sostenitore del progetto Europa, il filosofo non ha esitato questa volta a tracciarne i limiti e le mancanze.

Tanto per cominciare, all’eurozona manca una politica sociale comune di assistenza che sia orientata a uniformare le condizioni di vita dei cittadini. È un processo indispensabile per creare la “consapevolezza europea”, sostiene Habermas, quel sentimento che si trasforma, con il tempo, in “solidarietà”.

Anche l’Europa ne ha bisogno, così come ogni altra nazione nel senso più tradizionale del termine: la solidarietà tra cittadini è la colla delle nazioni. Senza un forte senso di appartenenza tra i diversi Paesi europei, avverte Habermas, sarà molto difficile affrontare qualsiasi tipo di problema in maniera lineare e concreta.

Perché l’attuale crisi dell’Unione europea non è economica, ma “normativa”. L’Europa sta fallendo di fronte al proprio compito fondamentale, e cioè quello di creare una democrazia sovrana.

I maggiori responsabili di questo insuccesso sono le élite politiche, così come le corti costituzionali e i media, che hanno spinto verso l’unificazione senza creare lo spirito giusto nei propri cittadini e senza chiedere loro il permesso. Per Habermas il dibattito europeo si riduce a una questione di strategie assolutamente disinteressata alle prospettive sovrannazionali.

Habermas è filosofo della società, uno dei più grandi viventi, e distingue due forme di Europa. La prima è l’Europa dell’idea, che corrisponde alla volontà di superare la limitatezza di vedute delle singole nazioni. La seconda è l’essenza empirica dell’Europa, e ha a che fare con la politica.

È una politica che si svolge “a porte chiuse”, lamenta il filosofo, lontana dai cittadini. Perché, in sostanza, le decisioni europee sono prese da organi separati dalla realtà tangibile dei singoli e mancano di credibilità. Ed è proprio qui che Habermas vede la mancanza di base del progetto europeo: nell’esecutivo di Bruxelles.

Come il “Patto per l’Europa”, stipulato a fine marzo, che ha proposto un controllo a livello europeo delle politiche fiscali dei singoli Paesi: l’entrata in vigore dell’accordo verrà approvata dai singoli Parlamenti, e non da un incontro europeo dei vari Governi. Per Habermas questo è un fallimento della democrazia. L’Unione europea assomiglia sempre più a un organo di amministrazione economica, più che a un promotore della democrazia.

Perché per Habermas è proprio l’Europa a due velocità che ha più bisogno di trovare la convergenza tra situazione sociale e sviluppo economico. L’identità nazionale deve svilupparsi nel sentimento sovrannazionale europeo, incoraggiato dalle politiche sociali. I partiti di estrema destra cercano di presentare il progetto europeo come la deriva delle particolarità nazionali e delle esigenze economiche nazionali: ai cittadini serve la base per difendersi da tale propaganda.

I singoli Stati sono garanti delle diverse culture, ma i cittadini dell’Europa hanno bisogno di un’identità più ampia per sentirsi parte dell’Unione: e senza questo sentimento, purtroppo, è difficile trovare il coraggio per affrontare i rischi concreti di un tale processo. E la politica si riduce a unopportunismo che cerca di difendere un astratto interesse economico.

Potrebbe suonare tutto un po’ fuori dal mondo, ma è la prassi. Già nel 1962 Habermas accusava il discorso pubblico di “neo-feudalesimo”, di rinnovato asservimento ai sistemi capitalisti proprio in riferimento alla crescita della pressione della concorrenza economica e del potere dello Stato.

Sono serviti decenni per renderci conto della grave concretezza di quelle accuse. I filosofi appaiono sempre un po’ visionari, e di solito rimangono tali fino al giorno in cui le loro teorie appartengono al passato, perché solo allora diventano comprensibili al resto del mondo.  

 

di Mario Braconi

Nelle ultime settimane si è registrata una sequenza impressionante di operazioni di hackeraggio informatico aventi ad oggetto istituzioni ed importanti attori della finanza e dell’industria: tra le vittime illustri, Sony, City (un tempo la più grande banca del mondo), Google, il Fondo Monetario Internazionale, l’impresa di armamenti Lockheed-Martin, il Senato degli Stati Uniti d’America, la “rete” televisiva pubblica americana PBS (Public Broadcasting Service).

Benché non sia ancora possibile capire o conoscere l’entità dei danni provocati dall’incidente che ha coinvolto il FMI, è evidente che esso comporta almeno potenzialmente il rischio di diffusione pubblica di informazioni riservate sulle finanze di vari paesi, alcuni dei quali a rischio di collasso finanziario (Irlanda, Grecia, Portogallo) e soprattutto sulle manovre ipotizzate.

Un vero tesoro per un eventuale “cattivo” (persona o governo) intenzionato a movimentare un po’ i mercati finanziari globali. Il tutto in un momento in cui il Fondo è privo di guida a causa della imbarazzante vicenda sessuale in cui è incappato il suo ex capo Dominique Strauss-Kahn.

Molti dipendenti del FMI (come del resto anche quelli della Lockheed Martin, vittima a maggio di un altro attacco informatico, fallito) hanno in dotazione SecurID, un dispositivo individuale simile ad una minuscola calcolatrice, che alla pressione di un tasto, genera codici numerici sempre diversi e validi per pochi minuti, da usare come password di accesso a siti protetti. Sarà un caso, ma lo scorso marzo anche la RSA, la società che produce i SecurID, ha subito una sgradita visita da parte di qualche mascalzone digitale, che potrebbe aver messo le mani sugli algoritmi che governano il complesso sistema a doppia chiave utilizzato dai suoi clienti.

Secondo il sito Information Week gli hacker hanno violato la rete di RSA lo hanno in modo molto semplice, perfino banale, usando il cosiddetto spear-phishing (pesca con la fiocina). Il metodo si basa sull’invio massccio di messaggi di posta elettronica apparentemente inviati da colleghi, il cui scopo non è tanto rubare l’identità del destinatario, quanto piuttosto penetrare all’interno del sistema informatico aziendale. Nel caso specifico, si è trattato di un attacco in tre mosse.

Uno: invio a due gruppi d’impiegati di un file Excel dal titolo accattivante: “2011 Recruitment Plan” (Piano delle assunzioni per il 2011). Due: intervento del pollo di turno, nel caso specifico un impiegato talmente curioso da ripescare e aprire il file infetto, dopo averlo recuperato dal cestino dello spam. A quel punto entra in gioco un programmino malefico che, sfruttando un bug di Adobe Flash scoperto quello stesso giorno (zero-day bug, in gergo), ha consentito agli hacker di prendere il controllo del computer infettato. Ora basta un keylogger (software che registra tutto quello che si digita sulla tastiera) e il gioco è fatto: sono state rubate così le password di accesso ai sistemi e ai documenti riservati. Tre: trasferimento massivo di dati, prima su un provider e poi sulle macchine degli hacker.

In breve, basta la combinazione di “ingegneria sociale” (l’esca del piano delle assunzioni) e sfruttamento tempestivo di un errore di programmazione per penetrare nella sancta sanctorum di uno dei più importanti fornitori di sicurezza informatica.

Questi attacchi sono simili a quelli denunciati da Google, che ad inizio giugno ha raccomandato agli utilizzatori di Gmail di prestare particolare attenzione a possibili episodi di phishing, aventi ad oggetto personalità politiche si spicco. Secondo la società di Mountain View, tali attività fraudolente sarebbero state generate da macchine collocate nella città di Jinan, in Cina. A Jinan si trova una scuola tecnica dell’esercito della Repubblica Popolare, rapidamente divenuta, grazie alle cronache giornalistiche, il motor immobilis di tutti gli attacchi informatici.

Effettivamente, secondo il giornalista e blogger Brian Krebbs, l’identificativo di una delle tre macchine da cui è partita l’offensiva alla RSA (prc.dynamiclink.ddns.us) ha un nome un po’ inquietante (le prime tre lettere potrebbero alludere a People’s Republic of China). In casi come questi, non è da escludere in effetti lo zampino della Cina, i cui esperti avrebbero potuto addirittura utilizzare la sigla come uno sberleffo: quasi a dire, sì, siamo stati noi, e allora?

Ma una parte almeno dei recenti attacchi sono stati messi a segno da un gruppo di hacker che si fa chiamare LulzSec (un acronimo che può essere tradotto “sicurezza da morire dalle risate”).

Si tratta di geniali buontemponi il cui autentico obiettivo è mettere in luce le contraddizioni in cui si dibatte la società post-industriale: ad esempio, mettendo alla berlina le grandi aziende che costruiscono imperi da miliardi di dollari poggiando su piedi d’argilla, ovvero su architetture di sicurezza informatica fallate o comunque gravemente vulnerabili.

Tra i colpi portati a segno dal collettivo, la penetrazione nei sistemi di Sony, dai quali avrebbero rubato decine di migliaia di profili utente. Un reato? Forse sì. Un delitto? Sembra proprio di no, visto che i dati rubati non sono stati usati fraudolentemente; senza contare che l’incidente ha permesso di conoscere il modo quanto meno superficiale con cui la multinazionale giapponese gestiva i dati dei suoi milioni di clienti, criptando esclusivamente quelle relative alle carte di credito.

E che dire del furto e della pubblicazione di 25.000 nominativi di persone iscritte al sito pornografico Pron.com (compresi i 6 furboni che si erano registrati con account dell’esercito o altra istituzione pubblica), più quelli dei 55 amministratori? In quell’occasione, i discoli di LulzSec hanno reso noto ai loro fan una lista di utenti particolarmente scaltri che usavano come password al sito a luci rosse la loro e-mail, invitandoli ad approfittarne. Sembra proprio che LulzSec stia facendo un gran bene al mondo informatico, obbligando le grandi corporation come i semplici cittadini a prendere sul serio i gravi rischi che un comportamento superficiale può provocare al nostro portafoglio e in generale alla nostra salute digitale. E forse anche a quella psico-fisica.

di Vincenzo Maddaloni

MOSCA. Chissà cosa direbbe Víctor Ivanovich Gorodash! La prima e ultima volta che l’incontrai (febbraio 1986) me ne disse tante e di così interessanti che l’intervista, considerata l’autorevolezza del personaggio fu ripresa non soltanto dai giornali italiani. Perché venticinque anni fa Víctor Ivanovich Gorodash era ancora il direttore dell’Istituto sovietico dell’ateismo scientifico dell’Accademia delle Scienze e in quell’intervista, per la prima volta, la massima autorità per “la dottrina dell’ateismo”, denunciava l’esistenza di un problema religioso nelle Russie dei soviet.

Certamente, a voler misurare le sue dimensioni esclusivamente politiche per il Cremlino si trattava, a quel tempo, di un problema minore. Sia perché la dirigenza sovietica lo considerava tale; sia perché l’altro possibile protagonista, il patriarcato di Mosca, faceva di tutto per non farlo crescere, a scanso di nuove recrudescenze della persecuzione; sia perché Michail Gorbaciov (da meno di un anno al potere) era impegnato a risolvere questioni di ben più consistente gravità immediata: il ritardo nello sviluppo ecnologico dell’apparato industriale, la persistenza di un focolaio di guerra pericoloso come l’Afghanistan, la complessa trattativa internazionale sul disarmo nucleare, la resistenza opposta da strati di popolazione e di burocrazia statale alla riforma del sistema economico e produttivo, il difficile equilibrio fra l’esigenza di una maggiore libertà di critica e di espressione da parte dell’opinione pubblica, della stampa, dell’intelligentsja in generale e il permanere di un rigido controllo del partito su ogni manifestazione della vita sovietica.

Venticinque anni dopo non é che lo scenario sia cambiato molto in fatto di libertà di opinione e di stampa, ma certamente non esistono più i presupposti che avevano costretto Gorodash ad ammettere che c’era «in Unione Sovietica un crescente interesse per la religione in quanto storia, cultura, politica. E c’è un interesse devozionale che si manifesta con la partecipazione alle funzioni, sicché oggi si può concludere che tra la popolazione c’è una crescita di religiosità. Perché? La rivoluzione tecnico-scientifica ha formulato delle promesse obbligando a scegliere tra materialismo e spiritualità. Ma se le promesse non si concretizzano, si creano degli stati di avvilimento che si traducono in pentimento per la scelta compiuta, e c’è come reazione immediata il ritorno alla sfera spirituale».

Tutto questo accadeva sebbene fosse cresciuto il livello d’istruzione del popolo sovietico e quindi ammetteva Gorodash, «é assurdo sostenere che le chiese le frequentino soltanto gli ignoranti e i rimbambiti. Al contrario è aumentato il numero dei credenti con il titolo di studio. Negarlo vorrebbe dire negare l’emancipazione, il naturale ricambio generazionale. Non si può fare dell’ironia sul fatto che le chiese sono frequentate dai giovani.

«Semmai - spiegava ancora Gorodash - sarebbe opportuno fare delle riflessioni. Marx sosteneva che l’abolizione della religione come felicità illusoria del popolo è necessaria per la sua felicità reale. Aveva fatto coincidere la fine della religione con lo sviluppo della società socialista; cioè la religione sarebbe andata scomparendo, man mano che si fosse affermata la concezione materialista legata al progresso scientifico. Quando questo avverrà, noi dell’Istituto non siamo in grado di stabilirlo: si tratta di un periodo storico di lunga durata. Nemmeno i positivisti dell’Ottocento seppero garantire previsioni al riguardo. Forse ci vorranno dieci anni, cinquant’anni, forse un secolo. Noi abbiamo fede».

Naturalmente, il Direttore dell’Istituto sovietico dell’ateismo scientifico non poteva prevedere che in poco più di un lustro (1992) il disfacimento della struttura di un potere creato dall’ideologia marxista, verificatosi pacificamente e quasi senza spargimento di sangue, avrebbe realizzato in tempi brevissimi quella laicizzazione della società dei credenti che Gorodash non era riuscito a realizzare nello Stato più ufficialmente e graniticamente e possentemente ateo di tutta la Terra.

Egli con grande onestà riconosceva che l’uomo nuovo sovietico non era ancora nato, come invece si aspettavano i rivoluzionari bolscevichi. Infatti, nel 1985 il nuovo segretario del Pcus Michail Gorbaciov aveva tra l’altro ereditato dal suo predecessore e maestro Jurij Andropov l’impegno della salvaguardia della moralità del popolo russo che, appunto, l’applicazione della dottrina marxista doveva garantire.

Nessun segretario del Pcus prima di lui si era soffermato tanto sugli aspetti morali e addirittura “spirituali“ della società socialista, lamentando che essa era rimasta troppo lontana dal livello desiderato. Ricordo, nelle città russe, le code che si formano dopo l’imbrunire davanti a negozi senza insegne: erano le rivendite di alcolici, che per ordine del nuovo segretario Gorbaciov non dovevano attirare più nessun passante con scritte invitanti al consumo di vodka, e dovevano essere aperte soltanto a una certa ora, quando la giornata lavorativa era finita.

La moralità esteriore che la vita sovietica tentava di assumere nei primi tempi del governo Gorbaciov, a cominciare dai programmi televisivi, era degna di una società puritana. Sicché la tradizione religiosa del popolo diventava per molti versi una preziosa alleata della “riforma“ gorbacioviana.

Dopo tutto la Chiesa ortodossa russa è, insieme a quella cattolica, la più rigida conservatrice della morale famigliare cristiana, essendo essa contraria sia al divorzio sia all’aborto, per citare i primi due esempi. Così operando il socialismo scientifico che prometteva la società ideale, difendeva l’immagine della famiglia pur dilatandola nel collettivo poiché temeva che, con lo stemperarsi della tradizione sarebbe venuto meno il principio di autorità e quindi dello Stato sovietico medesimo.

Il timore, infatti, era che trasformando la famiglia in mero contratto civile, nella semplice conclusione di una storia sentimentale, essa avrebbe perso l’autorevole centralità di “chiesa domestica” che la tradizione culturale della storia delle Russie da sempre le assegnava. Sicché la dirigenza sovietica aveva da tempo compreso che il frantumarsi di una realtà come la famiglia, indispensabile allo sviluppo della società, al di là della sua connotazione fideistica, avrebbe seriamente compromesso il futuro del Paese.

Un pericolo che il direttore Gorodash aveva evidenziato senza esitazioni, quando mi spiegava che, «nella gente è cresciuta la coscienza storica perché mentre cerca di immaginarsi il futuro cerca di ricordarsi il passato. Se noi pensiamo al passato, alla nostra storia passata, non possiamo non pensare alla Chiesa e alla funzione svolta dalla Chiesa nel corso dei secoli.

Essa è stata l’espressione della grande patria russa. E difficile immaginare che avvenimenti si sono conclusi come si sono conclusi senza la presenza della Chiesa. Così è difficile immaginarsi il futuro senza la presenza della Chiesa. Tutto questo è rinascita religiosa o è presa di coscienza del ruolo della religione? La si chiami come si vuole, ma non si può negare il fenomeno».

Naturalmente Gorodash esternava in tutta tranquillità. Nelle fondamenta della cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca http://it.wikipedia.org/wiki/Cattedrale_di_Cristo_Salvatore fatta saltare in aria da Stalin c’era ancora la più grande piscina aperta del mondo fatta costruire da Nikita Krusciov. L’Istituto dell’Ateismo scientifico dell’Accademia delle Scienze che Gorodash, appena quarantottenne, dirigeva poteva ancora contare su tre “filiali” dislocate a Kiev, capitale dell’Ucraina; a Vilnius, capoluogo della cattolicissima Lituania; a Tashkent, sede del direttorato spirituale delle comunità islamiche dell’Unione Sovietica.

Sede centrale e filiali erano suddivise ciascuna in quattro sezioni: studio dell’ateismo scientifico e del fenomeno religioso nel mondo, la prima; studio dell’attività della Chiesa nella società socialista, la seconda;la terza sezione analizzava i problemi sociologici, mentre la quarta si occupava delle attività religiose fuori dell’Urss. L’Istituto curava inoltre la preparazione dei quadri con corsi a vari livelli diretti dai ventidue “collaboratori” i quali rappresentavano il collegio accademico.

Direttore, vicedirettore, docenti, collaboratori, formavano insomma “l’ordine” dei missionari dell’ateismo. A suggello dell’intensa attività c’erano i volumi della collana: “I problemi dell’ateismo scientifico” che, con scadenza annuale, l’Istituto proponeva come “summa” degli studi che si andavano via via elaborando. Mi soffermo su questi dettagli perché meglio di ogni altra cosa danno l’idea dell’assillo della difesa dei principi etici della società, che tormentava i custodi dell’ortodossia ateistica  sicuramente molto di più dei monaci della Chiesa russa, se non altro perché il Partito chiedeva loro ogni anno il rendiconto sui risultati raggiunti.

Quando nell’agosto del Duemila - otto anni dopo l’implosione dell’Urss - è stata consacrata a Mosca la cattedrale di Cristo Salvatore, in Russia era già in uso da un pezzo quello che si usa definire lo spontaneismo ultraliberista che, facendo leva sull’immaginario, incoraggia la corsa al materiale con uno slogan di facile presa: più tecnica, più benessere. E’ un invito al quale è difficile sfuggire, sebbene esso non riesca a dare un senso alla vita e alla morte, poiché il valore della persona non può misurarsi soltanto sui riferimenti quantitativi come possono essere il denaro e il potere.

Ma è la corsa al benessere che marca il passaggio dal mondo diviso in due blocchi al mondo dominato da una sola potenza, che da allora lotterà con ogni mezzo per imporre la sua legge all’intero pianeta. L’obiettivo è la realizzazione del villaggio globale, il quale reggendosi sul progresso economico, crea il consenso indispensabile all’evoluzione di un modello politico e sociale del quale gli Stati Uniti rimangono l’unico punto di riferimento.

Stando così le cose, gli abitanti del mondo diventano dei semplici consumatori, sottomessi di volta in volta ai sobbalzi dei mercati, i quali si reggono sulle contrattazioni e quindi sul denaro, a sua volta regolato da quella legge suprema che è la logica del profitto. Pertanto, nel villaggio globale c’è spazio soltanto per una società dove ogni individuo, dovendo inseguire il suo migliore interesse pecuniario, contribuisce in maniera determinante a destrutturare il legame sociale.

Culturalmente è, come si è detto, la prevaricazione dell’ “io” su qualsiasi proposta comunitaria di condivisione, di dialogo, tipica del cristianesimo, dello sciismo, della dottrina marxista inclusa. Se vogliamo dire le cose come stanno veramente e non ricorrere a retoriche ipocrisie, va tenuto a mente che il nuovo modello di capitalismo rilanciato sull’onda dello “scontro di civiltà” di Samuel Huntington, (http://www.vincenzomaddaloni.it/?p=670) che, facendo leva appunto sull’affermazione dell’“io”, propende per la negazione totale delle convinzioni religiose nonché delle dottrine politiche e delle correlate impostazioni etiche.

Esso si diffonde attraverso un uso esasperato degli strumenti mediatici impegnati a uniformare a livello globale i desideri e le pulsioni riducendoli a meri scambi d’interesse. In questo scenario dove uno dei messaggi più diffusi è quello che sottolinea l’inutilità di fare affidamento sull’esperienza del passato e l’incapacità di poter prevedere le linee guida del futuro, il principio stesso di autorità (intesa come stima, autorevolezza derivante da superiorità morale, intellettuale, da competenza, dalla tradizione) si deteriora.

Invece si rafforza il principio della “contrattualità”, poiché la logica del profitto genera una società puramente commerciale dove, come ha già affermato Pierre Leroux, «gli uomini non associati non sono soltanto estranei tra loro, ma necessariamente rivali e nemici».

Sicché quella società laicista sognata per quasi un secolo dal Cremlino, è stata realizzata in pochi lustri dal modello americano del “villaggio globale”. La formula è semplice: si creano di continuo nuovi bisogni; si moltiplicano gli stimoli di distrazione e di divertimento; si propaganda l’idea che non esista felicità se non nel consumo; s’inventano proposte commerciali sempre più coinvolgenti.

E’ il trionfo di una cultura impostata sulla dittatura dell’economia, sul feticismo del mercato e sul primato dei valori mercantili. Che tiene in scarso conto l’etica, che ha abolito le distanze e il tempo, ma dove la logica del profitto destrutturando il legame sociale, crea stress mentali che si preferisce non analizzare. Sicuramente in Russia è una delle ragioni del perdurare di una crisi demografica drammatica che ha visto la popolazione del Paese scendere dai 149 milioni del 1991 ai 142 odierni, con previsioni per il 2025 di soli 125 milioni.

I comunisti atei non l’avevano mai potuto immaginare che si sarebbe giunti a tanto. Perché a ben vedere “l’ordine” dei missionari dell’ateismo diretto da Víctor Ivanovic Gorodash e del quale facevano parte oltre al direttore, il vicedirettore, i docenti, i collaboratori e gli aspiranti collaboratori, si muoveva entro i parametri dei valori etici della cultura millenaria del Paese. Il suo compito era di individuare in ogni manifestazione di fede la “ragione” scientifica che poteva averla provocata, e di trovare poi le argomentazioni da trasformare in convinzioni laiche.

Ma quel materialismo non rinnegava i valori culturali russi, semmai li mediava decorticandoli di ogni forma di trascendenza http://it.wikipedia.org/wiki/Trascendenza, ma sempre tutelandoli, con la stessa caparbietà che era propria dei monaci ortodossi, quasi con il medesimo misticismo che Gobetti colse e poi analizzò nel Paradosso dello spirito russo http://www.leninismo.it/gobetti.html. Del resto, di misticismo erano pervasi ancor prima dei bolscevichi gli anarchici Dostoevskiani che sognavano di far saltare gli zar. http://www.liberospirito.org/Testi/Anarchismo%20religioso/anarchici%20mistici.pdf.

Insomma, da sempre di misticismo è connotata la nazione. Naturalmente su quest’aspetto non si soffermò il santo pontefice quando stilò (19 marzo 1937; XVI dell’éra fascista ) l’enciclica sul comunismo ateo http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19370319_divini-redemptoris_it.html invitando a premunirsi contro le sue insidie e consolidando così  l’immagine dei comunisti-mangia-bambini. Che ancora qualcuno di tanto in tanto s’affanna a rinfrescare.

 

 

 

 

 

 

 

di Vincenzo Maddaloni

MOSCA. Michail Bulgakov, uno dei più grandi scrittori del Novecento, nasceva a Mosca 120 anni fa. La casa dove scrisse il suo capolavoro “Il maestro e Margherita” era diventata negli anni della Perestrojka meta d’inconsueti pellegrinaggi, con i muri ricoperti di graffiti di cui non esisteva altro esempio in tutta la città di Mosca. Oggi la casa è un’attrazione per i turisti.

Se chiamate al telefono può capitare che vi risponda la bellissima strega Hella per dirvi, scusandosi, che Voland «è occupato e non può venire al telefono» . Le telefonate con i personaggi di “Il Maestro e Margherita” sono la sorpresa di quest’estate moscovita per attirare visitatori nella Casa-Museo Bulgakov, gestita da una ventina d’anni dal Comune, al civico 10 di Bolsciajaja Sadovaja.

Naturalmente - è così da quarant’anni - lo si vede soltanto quando si è vicini, (lasciando piazza Majakovskij per la strada che porta al parco Gorkij), il bassorilievo di bronzo sistemato sulla cornice di marmo del portale che raffigura il volto di Jeshua, come ebraicamente viene chiamato Gesù, incorniciato  dalla saga dei personaggi e delle situazioni che animano “Il Maestro e Margherita”, il capolavoro di Michail Afanasievic Bulgakov, tra i massimi scrittori russi di cui quest’anno ricorre il centoventesimo anniversario della nascita.

Per questo hanno infilato dei fiori nel bassorilievo; piuttosto discreto di dimensione, piuttosto sobrio d’intonazione, messo lì, si direbbe, più per soddisfare a un obbligo che per offrire un modello di riflessione.

Perché Bulgakov, che s’era trovato invischiato in contrasti politici, ideologici e anche religiosi, era stato riconosciuto scrittore dopo venticinque anni dalla sua morte, quando con Breznev, da due anni segretario del Pcus, la rivista Moskva, sullo scorcio del 1966, iniziò a pubblicare a puntate “Il Maestro e Margheria”, il suo lavoro principale rimasto incompiuto nonostante, tra il 1928 e il 1940, anno della sua morte, avesse avuto ben otto redazioni.

Così il giovane medico, figlio di un professore di teologia, costretto dalla sorte a vivere in un tempo che gli era ostile, schiacciato dalla burocrazia («Prego di considerare che l’impossibilità di scrivere per me equivale ad essere seppellito vivo), si è preso una clamorosa rivincita col suo tempo e i suoi contemporanei, con un romanzo indefinibile come genere, ma con una forza immediata di divertimento e di meditazione. Poiché è costruito sull’intersecazione di tre differenti piani narrativi: le “avventure del Diavolo a Mosca”, le “vicissitudini del Maestro” e la “passione di Jeshua Ha-Nozri”. Una sintesi di commedia buffa e di sacra rappresentazione.

Il principe del Male, Woland, compare a Mosca con una banda di perfidi e mirabolanti coadiutori, unico possibile dominatore di una realtà che non è capace neppure di intendere la tragedia di Cristo e il dramma di Pilato, abitata com’è da miriadi di burocrati e sudditi avidi, furbi, aggressivi e impauriti.

Woland, sotto le vesti di mago ipnotizzatore, opera i suoi sbalorditivi giochi di prestigio, soggiogando le masse con le sue parodie di miracoli. «Dopo tutto», annotava Eugenio Montale nel 1967, all’uscita del libro in Italia, «Il Maestro e Margherita è opera di un uomo che scriveva in una situazione bene determinata e poteva alleare l’ispirazione al sotterfugio e persino al trucco. Il piano demoniaco potrebbe essere la cortina fumogena che occulta e rende accettabile anche dai censori la feroce satira che pervade tutto il libro. Il piano reale, quello degli eventi narrati, ha un significato che direi allegorico. Esso ci dice che una massa di anime morte, non più servi della gleba, ma servi di un sistema disumano, può essere suggestionata e avvinta da un grande ciarlatano che sappia recitare bene la sua parte».

L’abilità di Bulgakov scrittore sta anche nell’aver saputo legare mirabilmente la solenne, cadenzata narrazione della vicenda evangelica con la mordente, frizzante, irriverente prosa della farsa moscovita, per poi giungere alla conclusione che il Cristo rappresenta la “verità ultima” cui rapportare tutti i possibili significati della vita e della storia degli uomini. Ma alla conclusione si arriva dopo un pullulare di godibilissimi enigmi, di situazioni grottesche, fatti straordinari, eventi misteriosi che col passare delle generazioni di lettori sono diventati un complemento dell’arredo urbano moscovita, poiché ogni cosa può essere reimmaginata ripercorrendo i luoghi immaginati nel romanzo, in una sorta di raffinato baedeker degli ambienti dove vissero Woland, la salvifica strega Margherita e il povero eroe del romanzo, il Maestro, l’artista con il  suo ideale modesto: sottrarsi all’arida bufera della Storia, chiudersi nella dolce prigione di una casa a scrivere.

Dove? Nell’appartamento numero 50, (che lo scrittore e la sua terza moglie erano costretti a dividere con altre famiglie), all’ultimo piano di un palazzetto che dà sulla Bolsciajaja Sadovaja, diventato Museo per volontà del comune di Mosca, che si spende ogni anno per trovare nuove attrazioni per attirare i visitatori. Quest’anno si sono inventati la segreteria telefonica.

Si sceglie il nome di uno dei personaggi del romanzo su una rubrichetta appesa al telefono d’epoca e basta comporre il numero. Rispondono voci registrate che ricalcano le battute del capolavoro dello scrittore. Se si chiama, per esempio il grosso gatto nero, questi risponde: "Riaggancia il telefono canaglia!". Naturalmente c’è tra le offerte anche un tour, su un piccolo autobus rosso, nei luoghi in cui è ambientato il romanzo.

Ero corrispondente a Mosca quando vent’anni fa, vi sono andato per la prima volta con il fotografo Alexei Weitsler, che era agli inizi e che adesso è uno dei professionisti della Mosca che conta. Naturalmente, la Russia era ancora Unione Sovietica, e la casa di Bulgakov soltanto un luogo d’intimo pellegrinaggio, appena tollerato sebbene già imperasse da tempo la Perestrojka. Attraversato il cortiletto, aperta la porta, i pellegrini - quasi tutti giovani - salivano le scale e leggevano i grafiti lunghi i muri che ora sono ricoperti da tre mani di pittura bianca e sulla quale hanno dipinto pure il ritratto di Bulgakov.

Ma vent’anni fa era uno spazio di trasgressione - unico nel suo genere nella Mosca che sei mesi dopo non sarebbe stata più comunista - cintato dalla ringhiera, una zona franca del Pese del controllo totale. Restavano fuori il Komsomol e la Perestrojka, ma anche gli affanni quotidiani per trovare le merci nei negozi, le tessere per il burro e lo zucchero. Poiché i muri e persino i vetri delle finestre, ora straordinariamente tersi, offrivano uno spiegamento verbale e visuale di considerazioni e di inviti; esibivano una fioritura di riflessioni e di moniti, con concentrazioni dove la scrittura è più agevole, cioè ad altezza d’uomo.

Distribuzione e proporzione naturalmente variavano. Per esempio: «Datemi la pace, concedetemi la felicità e vedrete come saprò conservarla», si leggeva a pieno muro dopo i primi scalini. Per esempio: «Non chiedete mai nulla, soprattutto a quelli che sono più potenti di voi», si avvertiva poco più in su. Per esempio: «Gente felice esiste al mondo?”, chiedeva una robusta scritta arricchita dallo stemma dell’Unione Sovietica e dal panorama stilizzato di Mosca con in primo piano il Cremlino e qualche ciminiera.

O addirittura, si assecondava il gusto della citazione: «La schiavitù agli schiavi, la libertà ai liberi», ricordava un graffito a metà della seconda rampa. «Distruggeremo il vecchio mondo e costruiremo quello nuovo», ricordava una scritta presa a prestito dall’“Internazionale”, che appena s’intravvedeva sotto la strisciata di vernice bianca di uno sconosciuto che aveva tentato di cancellarla con rabbia, perché accanto c’era un’altra frase probabilmente scritta dalla medesima mano che avvertiva: «E’ disumano continuare a promettere quando non siamo riusciti a realizzare nulla».

Non immaginatevi carovane di visitatori, come accade quasi ogni giorno di quest’estate. Allora erano soltanto singoli, al massimo coppie. Arrivavano a metà del pomeriggio, quando la gente affolla i marciapiedi da piazza Puskin a piazza Majakovskij. Sostavano davanti al Teatro della Satira tra la gente qualunque, tra persone d’ogni età con i giovani vestiti un po’ all’antica, di un’eleganza formale e da vetrina; ragazzi con i “varionki”, i jeans bolliti per farli scolorire, il modo più diffuso d’abbigliarsi nella Mosca del 1991. A quell’ora del pomeriggio in quella piazza c’erano le famiglie a spasso, in coda davanti al chiosco del Pinguino, il gelato arancione, verdino e viola di un sapore insolito che si consumava anche d’inverno per strada. E molti anziani: le donne con il foulard a quadri il “platok”, gli uomini con le medaglie sul petto. Quasi tutti in silenzio a guardare il passeggio d’ogni giorno, con i miliziani discreti che ogni tanto fermavano una vettura per le loro improbabili contravvenzioni.

Da quella folla in perenne movimento, loro, i singoli, le coppie,ogni tanto si staccavano e imboccavano la Bolsciajaja Sadovaja, e raggiungevano la casa di Michail Bulgakov. Entravano e avanzavano con gli occhi all’insù, e come spesso accadeva nell’Urss di quegli anni, era difficile individuare il limite tra funzione e rito. Capire fin dove si spingeva la propensione dei russi a credere, fin dove arrivava il loro desiderio di lasciarsi coinvolgere in quella estraterritorialità che quella scala rappresentava, e che ora non possiede più. Con le sue delusioni e le sue speranze, come la ragazza che scriveva: «Non sono Margherita, ma troverò il mio maestro e Woland mi aiuterà»; e un’altra che aggiungeva convinta: «Cara Margherita, soltanto tu mi puoi aiutare ad amare il mio maestro». Ma c’era pure chi desolato scriveva: «Woland ferma la terra, io scendo», perché, «stiamo vivendo soltanto per morire». E subito dopo accanto alla porta numero 50, c’era la risposta di un sarcasmo bulgakoviano: «Non preoccupatevi, magari impiegheremo trecento anni, ma anche il nostro mondo migliorerà».

Ne sono già passati settanta, ne mancherebbero ancora duecento e trenta per poter verificare se migliora oppure no.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. A cinquant’anni dalla costruzione del Muro di Berlino e ad oltre venti dalla sua caduta, due alti funzionari dell’ex-Repubblica Democratica Tedesca (RDT) si rimettono in gioco per spiegare le ragioni  di quello che è stato per anni il simbolo della capitale tedesca. Sono l’ex- ministro della Difesa della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) Heinz Kessler (91 anni), in carica fino al 1989, e Fritz Streletz (84), primo generale dell’Armata Popolare Nazionale della Germania dell’Est, (o Nationale Volksarmee - NVA), che hanno presentato a Berlino il libro “Senza Muro ci sarebbe stata una guerra”: un titolo inequivocabile, quasi una provocazione, che si annuncia come l’inizio di un interessante dibattito.

Nella loro testimonianza Kessler e Streletz provano a raccontare e analizzare il Muro di Berlino attraverso i modelli di pensiero e gli schemi concettuali di quando è stato costruito, il 13 agosto 1961. Per i due ex- politici della Germania comunista il Muro è stato innanzitutto il prodotto dello scontro tra blocco occidentale e blocco comunista, l’effetto quindi della Guerra fredda. Se non si fosse costruito il Muro, il blocco orientale avrebbe dovuto impedire le occupazioni delle forze occidentali nel territorio di Berlino Ovest. E, a un’intrusione di questo tipo, gli americani non avrebbero potuto reagire che militarmente.

A essere particolarmente spaventato da questo labile equilibrio era Nikita S. Krusciov, leader dell’Unione Sovietica tra il 1953 e il 1964. Il timore di perdere terreno a livello internazionale, così come quello di scatenare un conflitto armato esigendo una riduzione delle truppe NATO a Berlino Ovest, lo obbligò a trovare un compromesso. “La soluzione più economica per Krusciov, forse la più semplice e l’unica senza guerra, era proprio costruire un confine con Berlino Ovest”, spiegano Kessler e Streletz, per interrompere ogni tipo di contatto tra i due blocchi. Senza Muro ci sarebbe stata quindi una guerra vera e propria, si sentono autorizzati a ribadire i due ex- politici.

Il Muro, quindi, come risultato di una strategia militare tra Washington e Mosca, con cui l’allora  Presidente RDT, Walter Ulbricht, in carica dal 1960 al 1973, aveva poco o nulla a che fare. Ulbricht non è stato né l’ideatore né il fautore del Muro di Berlino, spiegano Kessler e Streletz: assegnare alla RDT un ruolo di rilievo nella volontà di costruzione del Muro è, per i due ex- funzionari della Germania dell’Est, una grossa bugia storica.

Certo, anche la Germania dell’Est aveva i suoi interessi da difendere, ammettono Kessler e Streletz. Chi scappava dalla RDT nel periodo della Guerra fredda era il cosiddetto “profugo dell'economia”, un civile che lasciava la propria patria per guadagnare di più nella Repubblica Federale Tedesca (RFT), l’Ovest capitalista. Poi c’erano i frontalieri, i cittadini che lavoravano a Ovest e vivevano a Est: una categoria che costituiva un’enorme perdita economica per l’economia dell’ex- Germania orientale.

“I frontalieri vivevano da noi e usufruivano di tutti i vantaggi che il nostro Stato offriva, ma lavoravano a Berlino Ovest”, spiega Streletz, precisando che in questo modo “lo Stato perdeva ogni anno oltre 2,5 miliardi di marchi”. Tra frontalieri e profughi dell’economia, il fenomeno stava portando l’ex-Germania dell’Est a una vera e propria deriva materiale: il Muro ha evitato una catastrofe economica.

Dopo la Riunificazione della Germania, Kessler e Streletz sono stati condannati rispettivamente a 7 anni e 6 anni di carcere come responsabili politici della polizia di confine che ha sparato e ucciso i civili che tentavano di oltrepassare il Muro in cerca di condizioni di vita migliori. E ora, dopo questo libro che inneggia al Muro come a un avvenimento che dovrebbe essere ricordato positivamente nella storia, c’è chi li accusa di non aver imparato nulla dalla storia.

Eppure, a chi indignato ricorda loro le vittime del Muro, quegli oltre mille cittadini cui la polizia ha sparato a vista per impedire l’espatrio illegale, Kessler e Streletz rispondono con determinazione: si dispiacciono, ammettono che non avrebbero mai dovuto esserci morti, e poi si giustificano con un confronto. Perché al confine tra Messico e Stati Uniti, “due Stati capitalisti”, sono morti a volte più profughi in un anno che in 40 anni di RDT, accusano i due ex-funzionari. E allora qualcuno si rende conto che, in fin dei conti, nessuno ha ma imparato nulla e, seppur in salse sempre diverse, gli errori della storia tornano sempre, indipendentemente dal colore della bandiera.

 


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