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di Mario Braconi
La convergenza tecnologica tra immense capacità di calcolo e di archiviazione dati, disponibilità di fotocamere e videocamere ad alta definizione a basso costo e software sempre più raffinati, potrebbe rivoluzionare la nostra vita. Per dirla con Hartmut Neven, informatico e “mente strategica” di Google, citato da Steve Lohrn nel suo pezzo sul NYT del primo gennaio, “senza dubbio le macchine sono in grado di osservarci e capirci meglio; quali siano le conseguenze di ciò è difficile a dirsi, ora”.
Chiunque s’interessi di tecnologia, anche da semplice utente, se ne è accorto: sono diversi i servizi che implicano una qualche capacità della macchina che ci sta davanti di “guardarci” e di “interpretare” il nostro comportamento naturale. I principali servizi di archiviazione foto online (Picasa di Google, Windows Live Photo Gallery di Microsoft, Flickr di Yahoo! e iPhoto di Apple) sono tutti dotati di software in grado di riconoscere i volti (face-recognition).
Lo scorso novembre la Microsoft ha lanciato in tutto il mondo Kinect (evoluzione commerciale del “progetto Natal”), un aggeggio che, collegato alla consolle di gioco della casa di Richmond, consente di interagire con la XBOX senza bisogno di controller: il dispositivo, infatti, è in grado di “registrare” la sagoma della persona che gli si trova davanti e di intercettare ed interpretare i suoi movimenti e i suoi comandi vocali.
Gli ottimisti ad ogni costo potranno anche credere che i giganti informatici si preoccupino esclusivamente di rendere più interessanti le interazioni uomo-macchina, aiutandoci - che so - a trovare nell’hard-disk tutte le foto in cui compare la cara zia Giuseppina, o evitandoci il fastidio del controller. Ma è evidente che queste applicazioni sono il sottoprodotto di una tecnologia studiata per riconoscere, seguire, ed eventualmente colpire (e non virtualmente) un “nemico”: ovvero una tecnologia militare (forse non è un caso se il partner che ha sviluppato la telecamera “a zona” montata da Kinect sia una società israeliana).
Le applicazioni già possibili con le nuove tecnologie di “analisi facciale” sembrano trasferite di sana pianta da un film di fantascienza: grazie ad una speciale telecamera, un dispositivo messo a punto al Media Lab del MIT di Boston, ad esempio, è in grado di inferire il numero delle pulsazioni della persona osservata, come risulta da una ricerca pubblicata lo scorso maggio da Poh, McDuff e Rosalind W. Picard. Questo perché, grazie a un apposito applicativo, la macchina “vede” il colore della pelle come una combinazione di rosso, blu e verde, ed è in grado di percepire variazioni di colore prodotte dalla contrazione dei vasi sanguigni non percepibili dall’occhio umano.
La professoressa Picard, assieme alla collega Rana el-Kalioubyha, hanno fondato Affectiva, una società che intende sfruttare la tecnologia di riconoscimento facciale a fini commerciali, mettendola a disposizione di esperti di marketing, negozianti e major cinematografiche. Secondo John Ross, capo di Shopper Science, le “facial-analysis” sono molto più efficaci di quanto potranno mai essere analisi di mercato o focus group, perché forniscono la mappatura in tempo reale delle emozioni che conducono all’acquisto, evitando anche quel pizzico di ipocrisia tipica degli intervistati, i quali spesso si sforzano di essere gentili, ammorbidendo i propri giudizi. Non a caso, i servizi della Affectiva sono già utilizzati da un sito di vendite e da uno per cuori solitari, che lo impiegano per studiare quali siano le parole chiave che emozionano di più i loro clienti o visitatori.
La domanda è ineludibile: questa tecnologia è socialmente benefica? Come ogni volta che si discute di progresso tecnologico, si deve concludere che una risposta univoca non c’è. Non esistono, infatti, tecnologie intrinsecamente “buone” o “malvagie”: solo applicazioni sane o perverse. Prima di stracciarsi le vesti e preconizzare l’ennesima distopia, sarà opportuno ricordare che la sorveglianza informatica avanzata può essere utilizzata per prevenire le risse in un carcere o per ricordare a medici ed infermieri di lavarsi regolarmente le mani dopo aver visitato i pazienti in terapia intensiva, scongiurando la comparsa di infezioni post-operatorie. O che la tecnologia di analisi facciale, la pietra filosofale di tutti i mercanti, è stata spesso impiegata anche per aiutare le persone autistiche a comprendere le espressioni facciali degli altri, per loro spesso difficilmente interpretabili.
E’ doveroso, comunque, essere realisti ed ammettere che un impiego massiccio di tecnologie come quelle descritte potrebbe facilmente trasformare le nostre vite in un incubo dominato dal controllo e dall’ingegneria sociale (a lezione o in ufficio sei abbastanza concentrato?, le foto di gattini ti fanno più tenerezza di quanto dovrebbero?, la muscolosa guardia giurata ti emoziona più della piacente commessa?, eccetera...). La tecnologia deve progredire e sono inevitabili effetti collaterali anche molto sgradevoli: ma la vita digitale è ormai così interconnessa a quella reale che la posta a rischio, qui, è immensa.
E’ accettabile una vita sempre sotto l’occhio vigile delle macchine e di chi le controlla? Come modifica il suo comportamento un essere umano che sa di essere perennemente sotto scrutinio? Ci possono essere elementi positivi - la riduzione della criminalità? - ma che cosa accade ad una società che improvvisamente diventi, come sintetizza Lohrn, “meno spontanea, meno creativa, meno innovativa”?
I tecnocrati, in effetti, hanno in mano un potere enorme e speriamo che le loro scelte siano sempre illuminate come quella di Google, che ha deciso di non dotare Goggles dell’applicativo di riconoscimento facciale. Infatti, poiché il nuovo servizio della società di Mountain View consente di lanciare una ricerca non più sulla base di una query verbale ma di una immagine presa da uno smartphone, e poiché è sempre possibile che una persona possa essere fotografata senza il suo consenso, con il riconoscimento facciale, Goggles avrebbe potuto diventare facilmente l’applicativo ideale per gli stalker. Con la scelta di Google questo pare scongiurato. Almeno per ora.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Mi arrivano, qui, nella Russia fredda e lontana dal Bel Danubio blu, le notizie sulle condizioni di salute di quella grande, bella ed affascinante Zsazsa, l’ungherese che ha fatto e fa sognare intere generazioni di spettatori e che è stata, appunto, il simbolo di una Ungheria tutta cabaret e passeggiate sul Lungodanubio. Capitale di una mitteleuropa fatta di belle donne, di cabaret alla Kalman, di violini tzigani e di feste al Gellert o al Moulin Rouge. Una Ungheria, questa, passata praticamente indenne dalle sale dell’Astoria dei tempi di Horthy alla Vaci utca dell’era di Kadar.
Ed ecco che di lei - Sari Gabor nata nel 1917 a Budapest e poi nota come attrice cabarettista col nome d’arte Zsazsa - si torna a parlare soprattutto qui all’Est, perchè le cronache rivelano che ora è gravemente malata e menomata. Rischia, infatti, l’amputazione di una gamba che è a rischio di cancrena. Zsazsa è caduta, procurandosi una frattura all’anca e le conseguenze sono, come si vede, tragiche.
Tutti ora la ricordano come una icona sexy degli anni Cinquanta. Io - sempre colpito dalla sua bellezza - la ricordo alla fine degli anni ’60 quando ero a Budapest come corrispondente dell’Unità. A quei tempi il governo magiaro prestava grande attenzione nei confronti di tutti coloro che, una volta abbandonata l’Ungheria del potere socialista instauratosi dopo la guerra, rientravano in patria, almeno per una visita. E per la dirigenza kadariana tutto serviva per dimostrare la bontà democratica del Paese. Così avvenne per Zsazsa che gli spettatori avevano ammirata in film con Orson Welles e John Houston.
Si sparse la voce che anche lei era arrivata per un pellegrinaggio nella sua città natale. Un ritorno alla grande e il cronista - sempre memore del fascino procace della bionda bellissima vista però solo nelle finzioni cinematografiche - si precipitò ad incontrarla. Il suo manager fissò l’appuntamento nella hall dell’albergo Gellert, oltre il ponte delle Catene e alle falde della collina di Buda. Ma l’incontro - previsto tra statue in marmo e colonne ornate da allegorie floreali - fallì. E anche in modo clamoroso.
Perché poco prima di entrare nella hall la bella Zsazsa si era scatenata in una delle sue crisi isteriche. Colpita da qualcosa che non si aspettava aveva dato fuoco ai tendaggi dell’albergo. E così ad incontrarla erano stati poliziotti e vigili del fuoco. E il povero cronista, già ampiamente gasato avendo annunciato al giornale una “esclusiva” non legata alla politica, si trovò solo ad assistere alle operazioni di spegnimento mentre l’affascinante attrice rientrava - accennando a un timido gesto di saluto - nella sua suite.
Quel giorno mi torna in mente ora, a Mosca, mentre la stampa del gossip (che nella Russia postsovietica domina) ricorda che Zsazsa convolò a nozze ben nove volte e che il suo primo successo - tra i suoi 60 film - fu “Moulin Rouge” del 1952. Solo ora la bionda ungherese trova posto nella televisione russa. Ma la sua bellezza di un tempo resta impressa nella pellicola. E nei ricordi domina la sua frase simbolo: “Com’è atroce il mio destino! Le altre donne trovano felicità e amore, io nient’altro che delusioni…”.
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di Carlo Musilli
Chi credeva che internet fosse uno strumento invincibile per la diffusione della democrazia si è dovuto ricredere. Il regime cinese ha sfidato il motore di ricerca più importante del mondo e ha vinto. Almeno per ora, ha sconfitto il web. È quanto emerge da un cablogramma inviato dall'ambasciata Usa di Pechino il 18 maggio del 2009 e reso pubblico nei giorni scorsi da Wikileaks tramite New York Times, El Pais e The Guardian. "Google Cina paga per aver resistito alla censura", questo il titolo del documento.
Nel dicembre 2009 i server americani di Google sono stati colpiti da un violento attacco informatico del tipo DoS (Denial of Service, che consiste nel portare il funzionamento del sito al limite delle prestazioni, fino ad impedirgli di erogare il servizio). Che ci fosse Pechino dietro all'offensiva era cosa nota. Mancavano le prove, ma sospettare del gigante asiatico era più che ovvio. Come spesso accaduto fino ad ora, Wikileaks non ha rivelato verità imperscrutabili, ma ha dato sostanza alle accuse, forma ai particolari della storia.
Secondo quanto riportato dal cablogramma, un contatto cinese informò l'ambasciata americana dell'attacco, descrivendolo come un'azione combinata fra hacker governativi e pirati freelance arruolati da Pechino. La stessa fonte ha rivelato che a coordinare l'attacco è stato Li Changchun, alto funzionario del Politburo (organo esecutivo del Partito Comunista) e responsabile del ministero della Propaganda. Pare che Li abbia deciso di prendere provvedimenti dopo aver compiuto un'azione banalissima. Ha cercato il proprio nome su Google.
Chiunque abbia accesso a internet ha provato a farlo almeno una volta, ma l'alto funzionario cinese è un uomo davvero suscettibile. Non ha potuto sopportare l'idea che "articoli altamente critici su di lui" fossero accessibili a chiunque. Accanto a Li, nella vicenda ha svolto un ruolo di primo piano anche Zou Yongkang, ugualmente membro del Politburo e fra i massimi responsabili della sicurezza del Paese. Non è chiaro in che modo siano coinvolti Hu Jintao e Wen Jiabao, rispettivamente presidente e premier della Cina. Può darsi che l'ordine di dare il via all'attacco sia arrivato da uno di loro, ma su questo punto neanche la fonte più audace ha avuto il coraggio di sbilanciarsi. Il resto è storia: nella Terra del Dragone, la scorsa primavera Google ha chiuso i battenti.
I dissapori fra Pechino e la compagnia di Mountain View sono iniziati diversi anni fa, ma l'escalation decisiva è iniziata nel 2009, quando Google Cina ha disobbedito agli ordini del governo di Pechino, rifiutandosi di oscurare i siti pornografici e di rimuovere dalla home page locale, google.cn, il link diretto a google.com. Naturalmente, il regime prevedeva anche che il motore di ricerca rimuovesse tutto il materiale considerato "scomodo". (Due esempi classici di "scomodità" sono il Dalai Lama e la rivolta di piazza Tienanmen). A tutte le aziende cinesi di telecomunicazione, inoltre, è stato proibito di lavorare con Google.
Non solo. Nel mirino del Partito c'era anche Google Earth, il programma gratuito che distribuisce rappresentazioni virtuali della Terra ricavate da immagini satellitari. Al governo cinese è sembrato che il software restituisse in maniera troppo nitida le sue strutture governative e militari, potenziali bersagli di attacchi terroristici. Almeno, questa era la scusa ufficiale.
Fatto sta che nel 2006 è partita una comunicazione da Pechino a Washington in cui si chiedeva di ridurre la definizione delle immagini o di prepararsi a subire "gravi conseguenze" nel caso in cui i terroristi avessero tratto vantaggio dal servizio. Imbarazzato, il funzionario americano incaricato di passare la richiesta non ha garantito nulla ai suoi colleghi cinesi, "essendo Google un'impresa privata".
La guerra informatica scatenata dagli hacker di Pechino è andata ben oltre il caso Google, assumendo le dimensioni di un vero e proprio conflitto mondiale del cyberspazio. Dal 2002, attacchi di pirateria sono stati lanciati anche contro i computer di agenzie governative, diplomatici, politici, militari, di gigantesche aziende statunitensi come Yahoo, Symantec, Dow Chemical e Adobe. Per quanto possa suonare assurdo, hanno violato perfino il sistema informatico del Dalai Lama. Nel luglio scorso, Pechino ha inaugurato il primo quartier generale per la guerra cibernetica.
Una strategia che, purtroppo, fin qui si è dimostrata efficace. Tanto da infondere fiducia anche nei più pessimisti fra gli uomini del regime. Secondo un trionfante rapporto sulla regolazione del traffico web presentato la scorsa primavera dall'Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato ai vertici del Partito, "in passato, molti funzionari erano preoccupati che la Rete fosse impossibile da gestire". Ma dopo il caso Google sono giunti a una rassicurante conclusione: "Il Web è sostanzialmente controllabile".
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Mono Lake in California è un lago infernale: le sue acque sono acidissime, salatissime e mortali. Contengono infatti un'altissima concentrazione di arsenico, uno dei veleni per antonomasia. In questo lago killer, vive tranquilla una creatura finora sconosciuta. Una nuova forma di vita unicellulare che si basa sull'arsenico invece che sul fosforo. Se confermata, questa scoperta trasformerà per sempre la biologia e ci inizierà forse ai misteri della vita extraterrestre.
Felisa Wolfe-Simon ha annunciato al mondo la sua scoperta giovedì scorso, in una conferenza stampa al Dipartimento di Astrobiologia della NASA, in concomitanza con la pubblicazione dell'articolo su Science. Ma che cosa c'entrano gli alieni con questo batterio? Vediamo di cosa si tratta.
L'arsenico è un veleno micidiale perché interferisce nei meccanismi di respirazione cellulare, sostituendosi al fosforo e bloccando la produzione di ATP, ovvero il carburante delle nostre cellule. La causa della sua tossicità è dovuta al fatto che possiede le stesse proprietà chimiche del fosforo, uno dei mattoncini fondamentali della biologia. Sostituendosi al fosforo, l'arsenico soffoca le cellule e rende impossibile la vita. O almeno questa era la credenza dei biologi fino a giovedì scorso.
Il batterio GFAJ-1 è un amante dell'arsenico. Prolifera indisturbato in condizioni in cui qualsiasi altro organismo vivente morirebbe all'istante. Questo batterio ha trasformato in una nuova opportunità quello che per tutti gli altri è una condanna a morte istantanea. All'interno della propria cellula, questa piccola creatura ha rimpiazzato l'onnipresente fosfato - che fa parte delle proteine, dei grassi e dell'elica di DNA - con l'arsenato, una molecola simile ma basata sul mortale arsenico. Nelle conclusioni della ricerca, gli scienziati ammettono che il funzionamento del batterio rimane per il momento un mistero. Ma non c'è dubbio che tutta la comunità scientifica si catapulterà a Mono Lake per ottenere qualche campione di questo piccolo alieno unicellulare.
Questa scoperta, se confermata, ci mette di fronte agli occhi quello che si credeva impossibile: una nuova forma di vita basata su una biochimica differente da quella di tutte le altre creature terrestri. Lo sponsor della ricerca è infatti la NASA con il suo Dipartimento di Astrobiologia, la scienza che si occupa dello studio della vita extraterrestre. Finora, bisogna ammetterlo, un po' a corto di ispirazione. Ma GFAJ-1 ci racconta che i mattoncini biologici, che credevamo insostituibili, in realtà possono essere cambiati.
Nel nostro sistema solare ci sono esempi di ambienti che credevamo inospitali, come ad esempio Marte o le lune di Giove e Saturno, ma vagamente simili alla Terra. Per via delle basse temperature, oppure della mancanza di acqua sostituita dal metano liquido, la biochimica terrestre non potrebbe funzionare tale e quale e finora si credeva che questi luoghi non potessero ospitare forme di vita. Tutto questo ci lasciava con la domanda irrisolta se la vita come la conosciamo fosse l'unica possibile o se invece altre architetture biologiche potevano nascere in diversi luoghi del nostro universo.
“L'idea di biochimiche alternative per la vita è molto comune nei libri di fantascienza,” dice Carl Pilcher, direttore dell'Istituto di Astrobiologia della NASA in California, “Finora una forma di vita basata sull'arsenico era del tutto teorica, ma adesso sappiamo che esiste a Mono Lake.” Abbiamo di fronte agli occhi il primo esempio di una nuova biochimica. Se ce ne sono due, perché non tre, o quattro o mille diverse? Abbattuto il tabù dell'unicità della vita, nulla vieta che ce ne possano essere infinite variazioni.
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di Sara Michelucci
Coerente fino alla fine, anche nel suo ultimo gesto, quello che l’ha portato ad abbandonare questa vita. Ma probabilmente per un indipendente puro come Mario Monicelli, vedere gli ultimi giorni della sua vita costretto in un letto di ospedale, era un copione che proprio non poteva dirigere. È volato via, Monicelli, e si sa che il volo rappresenta metaforicamente la libertà. Un’emancipazione che ha accompagnato sempre la sua vita personale e artistica, e che l’ha condotto a dirigere veri capolavori, che resteranno indelebili nella storia del cinema italiano.
I soliti ignoti, del 1958, che vanta un cast di grido composto da Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Totò e Claudia Cardinale, che consacra il filone della commedia all'italiana; La grande guerra, con cui si aggiudica il Leone d'Oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1959 e sua prima nomination all'Oscar; I compagni con cui arriva la seconda nomination all’Oscar; L'armata Brancaleone del 1966 e Brancaleone alle crociate 1970, attraverso cui Monicelli inventa un "nuovo" e personalissimo Medioevo, condito dal burlesco e dal comico. E non si possono dimenticare titoli come La ragazza con la pistola, terza nomination all'Oscar del 1968, Un borghese piccolo piccolo e Il marchese del Grillo, che consacrano il sodalizio con Alberto Sordi.
Pezzi fondanti di quel cinema tanto amato, ma che negli ultimi tempi l’aveva deluso per la mancanza di quella vera indipendenza che era appartenuta a registi del suo calibro. Di quell’osare, che oggi si ha paura anche solo ad utilizzare come verbo, Monicelli ne aveva fatto un suo tratto peculiare, e non a caso lamentava l’incapacità del cinema di questi tempi di raccontare l'Italia come è.
In fin dei conti l’artista è solo colui che veramente riesce ad andare oltre qualsiasi luogo comune, qualsiasi barriera culturale, spingendo alla critica e alla riflessione lo spettatore e Monicelli ha usato proprio la commedia per farlo. Indimenticabile il suo Parenti Serpenti, dove la famiglia viene denudata di quel buonismo che spesso contorna - più nelle parole che nei fatti - la sua descrizione di nucleo sempre positivo e slegato dalla logica del dare e avere. Un buonismo che di certo non gli apparteneva e per questo, tra molte altre cose, gli siamo grati.
Negli ultimi mesi, nonostante la malattia, Monicelli ha appoggiato le proteste del mondo artistico e cinematografico contro i tagli alla cultura dell’attuale governo, non abbandonando nemmeno alla veneranda età di 95 anni quella verve che lo ha accompagnato per tutta la vita, dove la critica politica e sociale ha sempre rappresentato un punto centrale.
Una vita lunga, segnata da tanti avvenimenti, tra cui il suicidio del padre, Tomaso Monicelli noto giornalista e scrittore antifascista, avvenuto nel 1946. “Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena. Il cadavere di mio padre l'ho trovato io. Verso le sei del mattino ho sentito un colpo di rivoltella, mi sono alzato e ho forzato la porta del bagno. Tra l'altro un bagno molto modesto”, aveva detto in un’intervista di alcuni anni fa.
Oggi il rione Monti, dove aveva vissuto per anni e cui era legato da un sodalizio particolare, tanto da dedicargli uno degli ultimi lavori, potrà salutarlo in piazza Santa Maria dei Monti dove, alle 10, dirà addio al grande regista, prima che la salma venga portata alla Casa del cinema per la camera ardente. Il corpo verrà poi cremato. A noi piace ricordarlo per la sua battuta sempre pronta e pungente e per quello sguardo lucido che gli ha permesso di offrirci film che ci hanno aperto gli occhi su bellezze e storture di un’epoca. Grazie Mario.