di Mario Braconi

Craig Venter, l'imprenditore-scienziato che nel 2000 ha dichiarato di aver effettuato la prima mappatura del genoma umano, ne ha combinata un'altra delle sue: il 21 maggio su un articolo su Science ha dichiarato di aver progettato, sintetizzato ed assemblato JCVI-syn1.0, una "cellula artificiale" in grado di riprodursi autonomamente. In sostanza, gli scienziati del "J. Craig Venter Institute" hanno rielaborato il genoma del Mycoplasma mycoides, un patogeno che colpisce le capre, dapprima clonandolo e poi eliminando 14 dei suoi geni; hanno poi inserito il genoma sintetico così ottenuto dentro il citoplasma di un batterio simile (il Mycoplasma capricolum) preventivamente "svuotato". Grazie ad un "trucco" segreto, il genoma sintetico è riuscito ad "ingannare" il citoplasma ospitante, "convincendolo" che l'intruso fosse "uno di casa": di conseguenza il genoma sintetico ha cominciato a moltiplicarsi producendo miliardi di cellule del Mycoplasma mycoides modificato.

Si tratta di un risultato sicuramente importante, ma la cui portata è molto inferiore a quanto appare leggendo i titoli dei giornali di tutto il mondo, da cui traspare ingiustificato trionfalismo miscelato a proclami terroristici contro il progresso e contro la scienza in generale. In effetti, nonostante i titoli "strillati" sulle prima pagine la scorsa settimana, Venter non ha davvero creato una "vita artificiale", ma, come riconosce egli stesso in un editoriale comparso su The New Scientist il 26 maggio, "una cellula vivente in grado di autoreplicarsi, che molti microbiologi farebbero fatica a distinguere dalla cellula progenitrice, a meno di non ricostruire la sua sequenza di DNA". L'elemento veramente nuovo qui è che è stato finalmente possibile mettere insieme due risultati (creazione di genoma sintetico, trasferimento del genoma da un batterio ad un altro) che erano stati già conseguiti in passato separatamente.

Come spiega The New Scientist, l'elemento rivoluzionario della scoperta è il successo del "marker" che il gruppo di Venter ha aggiunto al DNA sintetico: questo "passepartout" chimico è infatti riuscito nel suo obiettivo di "convincere" la cella ospite a non distruggerlo con l'apposito enzima "anti-intrusione". Si noti che Venter non ha fornito dettagli sulla natura e il funzionamento del marker, il vero protagonista del suo recente successo. Se Venter, che tutto è fuorché uno che minimizza i risultati che consegue, decide di non parlare, sotto c'è la sua incorreggibile smania da brevetto.

Ed in effetti, brevettare un genoma sintetico, cioè assemblato attraverso un sapiente processo di "cut and paste" a partire da un genoma originale, allo scopo di produrre un "oggetto vivente" pronto ad usi commerciali, non presta il fianco alle critiche di tutti coloro che, scienziati, filosofi o società civile, disprezzano e temono un sistema in cui l'accesso al sapere scientifico è consentito solo a patto di pagare una tassa (”vietato brevettare la vita”).

Venter, persona notoriamente interessata al profitto almeno quanto alla conoscenza, non è particolarmente sensibile a simili argomenti: basti pensare che nell'ottobre del 2006 ha fatto richiesta di brevetto per il "genoma minimo necessario alla sopravvivenza" di un batterio. Allora il gruppo di Venter individuò quei geni del Mycoplasma Genitalium non strettamente necessari alla sua sopravvivenza (89 su un totale di 470) - ecco perché "genoma minimo"; dopodiché, ne produssero una versione sintetica contenente i soli 381 geni indispensabili, inserendolo infine in un micobatterio naturale svuotato del suo materiale genetico originale. Nel brevetto vengono citati possibili usi commerciali di Synthia (la "cosa vivente" brevettata), quali la produzione di etanolo e di idrogeno. A quanto sembra, gli unici a contestare vivacemente l'iniziativa di Venter e soci furono gli attivisti di ETC Group, una ONG di Ottawa che tra i suoi obiettivi istituzionali ha la "il progresso sostenibile della diversità culturale ed ecologica".

Secondo ETC Group, prima di tutto non è ancora provato che Synthia funzionasse veramente al momento in cui è stato chiesto il brevetto; inoltre, secondo una sua rappresentante, Silvia Ribeiro, "i Syn (organismi viventi sintetici) vengono presentati al pubblico come una possibile soluzione ai problemi ambientali per stornare l'attenzione dal fatto che in realtà possono essere impiegati come arma batteriologica"; del resto non è un mistero, da quando, nel 2002, tre scienziati hanno ricreato il virus della poliomelite "in casa" basandosi su informazioni prese da un sito internet ed assemblando coppie di basi che acquistabili contrassegno a 20 centesimi al pezzo, anche i "duri" del Pentagono hanno i sudori freddi al solo sentire la parola "biologia sintetica". Infine, inventare e brevettare Synthia è un sonoro ceffone sulla faccia di tutti i ricercatori convinti che gli elementi e gli strumenti di base della biologia di sintesi debbano rimanere disponibili gratuitamente (si parla in questo caso di modello "open source").

Non c'è da meravigliarsi se i suoi detrattori ritengano che Venter si avvi a divenire per la biologia quello che Bill Gates è stato per l'informatica, un inefficiente monopolista che tiene il mondo in pugno - infatti c'è chi chiama il suo istituto di ricerca "Microbesoft", ovvero la Microsoft dei microbi. L'annuncio ha lasciato freddi i colleghi di Venter, il cui atteggiamento è ben riassunto da Alistair Efflick, direttore del Centro di Ingegneria Biomedica dell'università di Edimburgo: “il risultato è davvero fico ed è costato un sacco di fatica, ma non ci porta molto più avanti dal punto di vista scientifico". Anche se non è escluso che la proverbiale arroganza ed antipatia di Venter non aiutino le sue relazioni con gli altri biologi, è un fatto che in ingegneria biologica si sono ottenuti ottimi risultati con approcci meno ambiziosi di quelli di Venter anche se molto più pratici. Ad esempio, l'impiego dei Biobrick (o mattoni biologici), geni o circuiti di geni con caratteristiche specifiche, pronti per essere installati in bio-dispositivi per ottenere determinati effetti.

Richard Ian Kitney, Professore di Ingegneria dei Sistemi biomedici all'Imperial College di Londra, ad esempio, ha costruito un sensore biologico che identifica una certa proteina dai batteri responsabili di certe infezioni del tratto urinario, costituito di tre Biobrick, uno che individua la proteina, un altro che amplifica il segnale e un terzo che fa da indicatore. Questo biodispositivo è poi "montato" sull'Escherichia Coli, anche se Kitney e i suoi colleghi stanno mettendo a punto un nuovo sistema, nel quale i tre geni sono immessi in uno speciale brodo, anziché nel batterio. I progetti di Kitney sono meno altisonanti di quelli di Venter, ma sono molto più utili dal punto di vista pratico (ora il professore sta lavorando su un dispositivo in grado di individuare il batterio dello Stafilococco Aureo): ma Kitney, è chiaro, non ha la prosopopea e l'ufficio stampa di Venter, né i suoi milioni di dollari.

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Riempiva gli stadi dell'Unione Sovietica. Alle sue performance di poesia accorrevano a migliaia e migliaia. Era l'idolo delle nuove generazioni nate nel clima del disgelo kruscioviano. Era nato nel 1933 e si era laureato in architettura nel 1957. Andrej Voznesenskij è scomparso all'età di 77 anni nella sua dacia di Peredelkino, quella del villaggio degli scrittori a pochi chilometri dalla capitale russa.

La poesia era il suo campo d'azione tanto e le prime "prove" vennero apprezzate da Boris Pasternak che, poi, lo consacrò - insieme a Evtuscenko e alla Achmadulina - nell'Olimpo degli autori della nuova generazione. Toccò quindi all'imprevedibile Nikita Krusciov ridimensionare il giovane ribelle che rifiutava l'allineamento ai canoni del realismo socialista. Gli mandò a dire, infatti, di prendere il passaporto e di andarsene dal paese per raggiungere i suoi padroni, gli occidentali...

Voznesenskij, invece, resto nel suo paese e continuò a scrivere, sempre mostrando una vivacità intellettuale ed un carattere innovativo con monologhi lirici, drammatizzati, debitori delle metafore iperboliche di un Majakovskij e di un Pasternak. Fu un poeta che espresse nei minimi dettagli quel grande dibattito che caratterizzò l'Urss kruscioviana, segnata dal dibattito culturale ed ideologico tra "fisici" e "lirici". E cioè tra fautori di una società basata sulla scienza e sui valori della tecnica futura e appassionati delle ideologie letterarie e liriche.

Voznesenskij ha così accompagnato il suo paese attraversando le varie epoche culturali e politiche; appunto, da Krusciov a Breznev, da Andropov a Gorbaciov, fino a Putin. Ma è sempre restato fedele al suo credo, quello dell'intreccio tra la parola poetica e la scena dell'esperienza. Venne anche in Italia, arrivando a Roma proprio nel giorno della morte di Pasolini. E in quell’occasione scrisse di getto una breve poesia.

All'Italia era già legato. Ammiratore e studioso di Brunelleschi ("ero innamorato e pervaso dalla sua opera e progettai, perfino, una fabbrica di automobili che si ispirava al Palazzo Vecchio") e di Michelangelo, mi aveva narrato - nel corso di un lungo incontro nel bosco innevato di betulle di Peredelkino  - che del grande italiano si era appassionato quando ancora era studente all'istituto di architettura. "In quegli anni di studio - mi diceva - ero costretto a raffigurare il calco di gesso del David e le linee mi sfuggivano come se fossero state insaponate. Odiavo il calco. Poi mi tuffai in biblioteca, copiai i disegni del Vasari, studiai la Cappella Sistina, m’impegnai per riprodurre le statue della tomba di Giuliano dei Medici e la figura della Notte la collocai sul frontone di un padiglione che disegnai per un mio progetto". "Ricordo sempre - continuò allora il poeta - che eravamo infatuati dal Rinascimento fiorentino che consideravamo come la mostra Mecca...".

Da quei tempi Voznesenskij è stato il personaggio numero uno della vicenda culturale sovietica. Con Evstuscenko è stato l'animatore delle maggiori conferenze e manifestazioni culturali. Impegnato ovunque nelle ricerche relative alla coscienza del destino, della conoscenza e dell'anima. E appunto, come poeta, si richiamava sempre all'anima, alle sue fughe. Il tutto con una poesia limpida e infinitamente ansiosa.

Strettamente legato all'esperienza figurativa nella raccolta Antimondi (Antimiry, 1964) Vosnesenskij affrontò in modo non conformistico i problemi della società sovietica e del mondo moderno parlando di forme architettoniche, di acciaio e di cemento come specifiche componenti di un concreto atto creativo. Grande eco ebbero poi le 40 digressioni liriche dal poema La pera triangolare (40 liriòeskich otstuplenij iz poemy Treugol'naja grusa, 1962), il poema Oza ('64) e L'ombra del suono (Ten' svuka, '72), proprio per il loro stampo sperimentale decisamente "cubista".

Oltre a utilizzare diverse forme poetiche, Voznesenskij fece spesso ricorso a un linguaggio ricco di arcaismi, a termini professionali e tecnici e forme idiomatiche derivate dal linguaggio parlato, fino a introdurre in poesia anche alcuni volgarismi assolutamente inusuali. Nel 1982 scrisse un articolo dal titolo Archistichi, termine intraducibile, che si poneva come manifesto della poesia visiva.

Spesso criticato per essere stato amico del potere, contro chi lo voleva solo poeta sperimentale di maniera compose dei versi dal titolo Il laboratorio di criminologia di Jalta (Jaltinskaja kriminalisticeskaja laboratorija, 1986) in cui con ironia, oltre a fare professione di fede, rivisitò criticamente il "bel tempo passato". Negli anni Novanta scrisse numerosi "video-manifesti" sulla poesia e collage in cui utilizzò anche la sua esperienza di artista grafico. Lascia al mondo letterario della Russia di oggi nuove e grandi inesplorate strade di ricerca.

 

di Alessandro Iacuelli

Il 31 maggio scorso è stato il giorno di una singolare iniziativa in rete: l'abbandono - da parte di un discreto numero di persone - di Facebook. L'iniziativa è stata indetta attraverso un sito, quitfacebookday.com, che ha raccolto un movimento di protesta contro il social network fin troppo popolare. Il motivo della protesta? Il modo in cui vengono trattati, e trattenuti, i dati personali degli utenti.

Secondo molte persone sparse nel mondo, la considerazione che Facebook ha della riservatezza degli utenti è andata progressivamente scadendo nel tempo. Nei primi tempi di apertura del sito, infatti, c'era una elevatissima tutela dei dati personali, non a casola policy che ogni utente accettava recitava: "Nessuna informazione personale sarà disponibile ad altri utenti, che non appartengono ad alcun gruppo sottoscritto", mentre ovviamente alcune informazioni meno sensibili erano di pubblico dominio, come il nome, il sesso, la nazione di provenienza.

C'è però una specie di "peccato originale" nella policy di Facebook, che si porta dietro fin dalla nascita: le foto, i video e ogni altro contenuto immesso su Facebook non appartengono più a chi l'ha pubblicato, ma a Facebook. Interessante e divertente come manovra: far credere all'utente di trovarsi in uno spazio "proprio", dove può pubblicare contenuti propri, rimanendo proprietario delle proprie foto o dei propri testi; peccato per quella clausola scritta in piccolo, in quei "termini di servizio" che ognuno è costretto ad accettare all'atto dell'iscrizione, e che l'utente medio accetta spesso senza leggero.

Quindi, una volta iscritti al social network, si perdono i diritti di proprietà intellettuale su ciò che viene inserito. Quei diritti esistono, e sono proprietà esclusiva di Facebook, che ha anche il diritto di venderli, di lucrarci. Non solo. Facebook può anche concederli in licenza ad altri, senza nemmeno informare l'utente. Un metodo geniale per rastrellare contenuti dalla rete, che siano foto o video o pagine e pagine di testi, e farli propri.

Non finisce qui. Perché nel momento in cui un utente decide di eliminare alcuni contenuti sul proprio account, a meno che tali contenuti non siano stati condivisi con terzi e che questi non li abbiano eliminati, potrebbero essere conservati come copie di back-up per un determinato periodo di tempo da Facebook. D'altronde, è proprietaria di quei contenuti stessi.

Nel tempo, e con la caduta di certe restrizioni sulla privacy da parte dell'azienda gestore del social network, sono sorti anche altri problemi. Primo tra tutti quello riguardante i pagamenti: Facebook memorizza i dati relativi ai pagamenti che vengono effettuati tramite il sito. Non serve modificare le impostazioni nella pagina dei pagamenti: i gestori profilano gli acquisti degli utenti, sapendo cosa comprano, a cosa sono interessati, in pratica schedano tutti.

Anche l'uso delle applicazioni contiene un raggiro. Raggiro che si cela dietro il funzionamento poco chiaro del software della piattaforma. Quando un utente accede ad una nuova applicazione, per usarla è obbligato a dare il permesso, all'applicazione, di accedere a qualsiasi contenuto o informazione del proprio profilo. Questo implica che se l'utente X condivide una foto molto privata solo con l'utente Y, e l'utente Y accede ad un'applicazione concedendole i permessi, l'applicazione (e chi la gestisce) potrà visualizzare e stampare quella foto molto privata dell'utente X. Pertanto, non serve essere accorti nella gestione della propria privacy, poiché questa dipende anche dal comportamento degli utenti presenti nella lista di amici. Il tutto è descritto al punto 4. della privacy policy, che tutti gli utenti sottoscrivono.

E se si decide ci cancellarsi dal social network - il che non avviene semplicemente disattivando l'account, ma proprio eliminandolo - i dati personali ed i contenuti restano in possesso di Facebook, e l'utente non ha alcuna possibilità di eliminarli, né singolarmente né in blocco. Quel link "elimina" accanto ad ogni contenuto, si riferisce semplicemente al non renderlo più visibile nelle bacheche e nelle pagine del sito, ma non ad una reale eliminazione dai server.

Nelle scorse settimane, ad evidenziare le lacune di Facebook ci aveva già pensato youropenbook.com, un sito che si è messo a rivelare proprio le lacune rispetto alla privacy del social network. Infatti, a fine aprile scorso Facebook ha rilasciato moltissime informazioni sugli utenti, rendendole disponibili alle applicazioni per favorire l'integrazione di facebook su altri siti, ma anche l'indicizzazione massiccia dei contenuti da parte dei motori di ricerca. Sul sito di youropenbook è possibile inserire chiavi di ricerca per verificare, dal di fuori di Facebook, senza essere registrati o loggati sul social network, quali informazioni Facebook rende pubbliche sul web e non trattiene per sé, limitandone la visibilità ai suoi iscritti.

Gli aspetti sulla privacy costituiscono anche un dibattito interno alla stessa azienda impegnata nella gestione della piattaforma. E la tutela della riservatezza degli utenti non é al primo posto nella scala di valori di Peter Thiel, che è uno dei soli tre componenti del consiglio di amministrazione di Facebook ed è anche uno degli inventori di PayPal. Thiel sostiene da anni fondazioni e lobby mediatiche di estrema destra che non fanno mistero dell'appartenenza a un'ideologia specifica. E’ anche uno dei più potenti venture capitalist del mondo, ma non solo: è membro del "527 Group", una lobby che influenza la politica e i candidati alle elezioni e, come non bastasse, è anche nella "Methuselah Foundation".

E' un agguerrito conservatore, preme attraverso il 527 Group per l'abolizione delle tasse (e dunque dello Stato democratico), finanzia i progetti di rivitalizzazione umana e di allungamento della vita ed è convinto, come ha dichiarato a viva voce in più di una conferenza, che l'umanità tutto sommato "sia composta di pecore". Ma allora, se pensa questo dell'umanità, ed é un consigliere d'amministrazione di Facebook, per lui Facebook che cos’è? L'amministrazione del gregge? Invece, nei giorni scorsi Mark Zuckerberg, il controverso fondatore di Facebook, ha fatto una sorta di "mea culpa" sulla "privacy policy" di Facebook. In contrasto con Thiel, ha scritto in un articolo comparso sul Washington Post che "sono stati commessi troppi errori in tema di privacy, e verranno presto aggiornate le norme sulla privacy per renderle più semplici".

Intanto, Facebook è riuscito senza dubbio, negli ultimi anni, ad uccidere molte potenzialità di espressione in rete, a cominciare dai blog, che stanno diminuendo di numero, con tante persone che dai blog continuano a passare sui social network, Facebook primo tra tutti. C'era da aspettarselo: i blog hanno costruito negli anni scorsi, fino più o meno al 2007, dell'ottimo "social networking" tra le persone. Ma per fare social network con i blog c'è bisogno di scrivere, e soprattutto di leggere gli altri blog, e al passare del tempo gli utenti medi trovano faticoso il leggere e lo scrivere.

Certamente è molto meno faticoso gironzolare fu facebook, taggare qua e là, richiedere amicizie: i social network danno l'illusione di comunicare più rapidamente - se di comunicazione si tratta - di rimorchiare più facilmente. A pagarne un duro prezzo è proprio la rete intesa come strumento libero: a discapito della libertà, è emerso uno strumento, Facebook, che impone un meccanismo forzato d’interazione tra gli utenti, un instradamento obbligato, attraverso i tag, le liste di amici, i gruppi.

di Mario Braconi

Ad ottobre del 2009, la Federal Communication Commission (FCC) ha stilato la Magna Charta dei diritti dei cittadini americani connessi in Rete: essa si riflette in una serie di obblighi e diritti dei provider di connettività a banda larga: "Compatibilmente con una gestione ragionevole della Rete", ogni provider non può impedire ai suoi clienti l'invio e la ricezione di contenuti legali, l'utilizzo di applicativi e di servizi di sua scelta, e l'accesso mediante qualsiasi dispositivo che non provochi danni. I provider, inoltre, non dovranno impedire o difficoltizzare la libera concorrenza tra fornitori di connettività, di applicazioni, di servizi e di contenuti e sono tenuti a trattare i clienti in maniera non discriminatoria, garantendo tra l'altro la piena trasparenza sulle modalità di gestione della rete ed sulle altre procedure funzionali al mantenimento dei livelli di servizio.

Una "gestione ragionevole della rete" implica la gestione delle problematiche di congestione sul proprio network, il blocco del traffico dannoso e/o indesiderato, del trasferimento illegale di contenuti e del trasferimento di contenuti illegali, nonché una serie imprecisata di altre "ragionevoli pratiche di buona gestione della rete". Come agenzia federale, la FCC è chiamata a stabilire un equilibrio armonioso tra diritti civili dei cittadini e diritto degli operatori ad operare in modo efficiente: un compito quanto mai difficoltoso in un contesto in cui la connettività è ormai quasi un diritto umano, la cui effettiva fruizione è però è mediata da entità che hanno il profitto come unico obiettivo.

Se è legittimo che i provider pretendano la libertà di organizzare i mezzi di produzione nel modo da essi ritenuto più consono al perseguimento dei fini aziendali, la loro possibilità di bloccare contenuti o di regolare la velocità di accesso potrebbe essere sempre usata in modo distorto e/o discriminatorio. Pensiamo ad fondo sovrano saudita con una partecipazione di maggioranza in una società fornitrice di connettività a banda larga, i cui amministratori potrebbero decidere di oscurare o rallentare i siti femministi in lingua araba... Lo potrebbero fare serenamente, invocando motivazioni tecniche.

Finora, in tema di net-neutrality (accesso universale alle medesime condizioni, tema molto caro anche al Presidente Obama) la FCC ha dimostrato di difendere più gli interessi dei cittadini che quelli delle corporation: si pensi al caso che ha coinvolto nel 2008 Comcast, il più grande operatore via cavo americano nonché primo fornitore di connettività internet negli USA, che porta TV via cavo, internet ad alta velocità e telefonia a milioni di clienti in 40 Stati. Poiché Comcast ha ammesso di aver deliberatamente rallentato la velocità di connessione di alcuni clienti che scambiavano file molto pesanti via peer-to-peer, la FCC, a seguito di un'indagine, ha condannato la società a non continuare la pratica di rallentamento del traffico e a comunicare in modo trasparente ai suoi clienti le sue policy di gestione della rete.

Purtroppo, però, Comcast è una corazzata con ottimi agganci nelle stanze del potere e forse nemmeno la FCC ha le spalle abbastanza larghe per poterla attaccare impunemente: infatti, lo scorso 6 aprile i tre giudici della corte d'appello del District of Columbia hanno stabilito che la FCC, quando ha sanzionato la Comcast, ha agito in modo ultroneo rispetto ai suoi effettivi poteri. Il fatto di aver ricevuto una sonora porta in faccia potrebbe spingere la FCC ad utilizzare la sua ultima cartuccia, quella che Craig Moffett, analista presso al Sanford C. Bernstein, definisce sul Washington Post l'"opzione nucleare": ovverosia l'assimilazione giuridica degli operatori via cavo a quelli telefonici, cosa che implicherebbe controlli molto più stringenti.

Un'idea per niente gradita agli operatori, ovviamente, ma che presenta l'obiettivo difetto di sottoporre gli operatori internet ad una regolamentazione concepita in piena era analogica e di monopolio telefonico. La questione sarebbe risolta in un secondo se si facesse della infrastruttura su cui viaggia internet una public utility: idea teoricamente ineccepibile, se non fosse per quei trenta miliardi l'anno di costi, attualmente nei stati patrimoniali delle società di broadband e telefoniche, e di cui il Governo degli Stati Uniti non sembra proprio così ansioso di farsi carico.

E in Europa? L'atteggiamento della FCC, almeno inizialmente, ha rappresentato un modello per i burocrati di Bruxelles: nel memo 09/491 del 5 novembre 2009 si legge, tra l'altro, che "tutte le misure intraprese dagli Stati Membri in merito all'accesso o all'uso di servizi o applicativi attraverso i network telefonici deve rispettare i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini, così come garantiti dalla Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e le Libertà Fondamentali ed in generale i principi della legge europea." Tuttavia, a soli quattro mesi di distanza, sembra che l'atteggiamento dell'Unione Europea sia mutato.

Lo si comprende leggendo il discorso che Neelie Kroes, Vicepresidente della Commissione Europea e Commissario per l'Agenda Digitale ha tenuto lo scorso 13 aprile alla conferenza della ARCEP (Autorité de Régulation des Communications Electroniques et des Postes) di Parigi: "[...] ognuno degli operatori telefonici che ho incontrato mi ha sottoposto la medesima questione: ognuno di loro vorrebbe far pagare una sorta di 'affitto' ai produttori di contenuti quando questi usino la loro rete in modo intensivo. E vorrebbero poter fornire ai loro clienti livelli di servizio differenziati - cosa che vediamo già in diversi altri contesti come il trasporto aereo e ferroviario."

Dopo l'enunciazione di alcuni concetti abbastanza scontati (libertà di espressione, trasparenza degli operatori, importanza degli investimenti in tecnologia, libera concorrenza e sostegno all'innovazione) Kroes spiega: mentre da un lato e dall'altro dell'Oceano non vi sono dubbi sul fatto che i consumatori abbiano diritto alle tre "A" (Accesso ai contenuti desiderati, Applicazioni, Apparecchiature) nonché ad un adeguato livello di trasparenza sul modus operandi del provider, in Europa si registra un certo scetticismo sul concetto di non-discriminazione, sostenuto invece dalla FCC. Infatti, “secondo alcune interpretazioni, esso impedirebbe ai provider di pretendere un incremento delle tariffe da quei fornitori di contenuti che realizzano servizi ad alto assorbimento di banda e che richiedono un livello di servizio minimo per consentire una trasmissione efficace."

Tradotto in parole semplici, internet potrebbe diventerebbe sempre più un'autostrada in cui chi paga soldi sonanti può andare a 300 chilometri all'ora, mentre gli altri dovranno accontentarsi di marciare (o marcire?) a 40 chilometri orari. Il nuovo quadro normativo europeo prevede che benché "le Autorità Nazionali, previa consultazione con la Commissione, abbiano la possibilità di stabilire livelli minimi di servizio", non sono obbligate a farlo, se non quando si verifichino problemi, ovvero, quando "le tecniche di gestione del traffico e la possibile segmentazione dei livelli di priorità producano un degrado del contenuto e dei servizi offerti da attori non commerciali o da nuovi entranti sul mercato".

Insomma, le Autorità interverranno solo quando il danno si sarà già prodotto e sempre che gli ordinamenti nazionali consentano ai cittadini di far sentire la propria voce (difficile dove non esista una class action degna di questo nome). Sembra proprio che, ad esser generosi, l'Unione Europea abbia ormai abbandonato la fiera posizione pro-consumatori che la contraddistingueva fino a poco fa, ritenendo i problemi degli provider almeno altrettanto meritevoli di attenzione.

di Mario Braconi

Per combattere i pregiudizi legati all'appartenenza ad una razza, è necessario capire in base a quali meccanismi si formino: un contributo importante in questo senso viene da Andreia Santos dell'Università di Heidelberg, che, attraverso uno studio recentemente pubblicato, ha dimostrato l'esistenza di una relazione causa effetto tra paura sociale e razzismo. Per fare questo, gli studiosi del suo gruppo hanno individuato una categoria di persone "immuni" dalla normale diffidenza verso gli estranei tipica delle persone "normali".

Le persone affette dalla sindrome di Williams, un'anomalia genetica caratterizzata dall'assenza di una trentina di geni dal braccio lungo del cromosoma 7, facevano esattamente al caso loro: infatti, oltre a presentare delle fattezze fisiche particolari (fronte spaziosa, denti spaziati, mento piccolo, occhi allungati) e a soffrire di problemi vascolari più o meno gravi (il gene mancante, infatti, ha un ruolo anche nel mantenimento della robustezza e dell'elasticità delle pareti dei vasi sanguigni), hanno difficoltà ad inibire la loro tendenza alla interazione sociale.

Il difettoso funzionamento dell'amidgala e del sistema della visione specializzato nel riconoscimento facciale (la fusiform face area o FFA) e l'insufficiente interazione tra l'uno e l'altra, fa in modo che le persone con la sindrome di Williams dimostrino un'apertura ed una socievolezza fuori dal comune.

Ai 20 bambini di età compresa tra i 7 e i 16 anni con la sindrome di Williams, così come al gruppo di controllo (20 bambini normali), è stato somministrato il PRAM II (Preschool Racial Attitude Measure II), un test disegnato per determinare la presenza di preconcetti connessi alla razza o al genere nei bambini: i ricercatori leggono delle brevi storie i cui protagonisti vengono descritti con aggettivi positivi o negativi e chiedono ai bimbi di identificare il personaggio "buono" e quello "cattivo" su un libriccino in cui, ad ogni pagina, vengono rappresentate due persone di sesso e/o di razza diversa.

I bambini senza il danno cromosomico hanno dimostrato un bias (o preconcetto) favorevole ai soggetti di razza bianca nell'83% dei casi, mentre quelli con la sindrome di Williams lo hanno manifestato 63 volte su cento: quest'ultima percentuale viene considerata da Santos talmente prossima al 50% da poter concludere che, nelle persone prive di paura sociale, l'identificazione del "buono" e del "cattivo" avvenga in modo casuale, e comunque non considerando il colore della pelle.

Secondo il team dell'Università di Heidelberg che lo ha ideato, l'esperimento prova l'esistenza di una relazione tra paura sociale e stereotipi di razza, anche se non è chiaro in quale modo essa si sviluppi: è la mancanza di inibizione sociale dei malati di sindrome di Williams ad impedire la formazione degli stereotipi, ovvero, al contrario, è la loro impermeabilità agli stereotipi a renderli tanto socievoli?

Santos esclude che la notevole differenza dei risultati riscontrati nei due gruppi possa essere spiegata da fattori diversi dalla presenza o meno di diffidenza verso gli estranei: il livello di intelligenza e di sviluppo mentale, pure diversificati nel gruppo dei soggetti analizzati, non sembrano avere influenza, né si può sostenere che i bimbi con la sindrome di Williams non siano in grado di valutare le caratteristiche specifiche degli altri in senso assoluto; essi, infatti, hanno dimostrato in ogni caso una inclinazione favorevole alle persone del loro stesso sesso. A questo proposito, è interessante notare, infine, che i bambini malati e quelli sani hanno dimostrato bias legati al sesso del personaggio osservato assai simili: questo significa che la base neurologica della formazione dei pregiudizi sul sesso è diversa quella relativa agli stereotipi di razza.

Va comunque notato che, come ricorda Ed Yong sulla rivista Discover, non siano mancati colleghi critici sulla portata effettiva dell'esperimento della Santos, di cui evidenziano limiti statistici e metodologici. Ad esempio, Alyia Saperstein, dell'Università dell'Oregon, ritiene che assimilare al 50% il 63% di risposte favorevoli al pregiudizio pro-bianchi, effettivamente riscontrato nei malati di sindrome di Williams, può essere anche accettabile quando si analizzano pochi casi, ma teme che, incrementando significativamente il numero dei soggetti analizzati, esso tenda a pesare molto di più: cosa che renderebbe le risposte dei bambini con la sindrome di Williams mediamente molto più simili a quelle degli altri. Secondo Robert Livingston, della Kellogg University, inoltre, per capire il bias razziale, è necessario distinguere con maggiore attenzione tra stereotipi (basati sulle nostre credenze) e pregiudizi (conseguenza delle nostre emozioni e giudizi sugli altri).

Lasciando agli scienziati il compito di validare o smontare i risultati dell'esperimento e di capire se un giorno potremmo finalmente avere un farmaco che guarisca dal razzismo, all'uomo della strada resta un po' di amarezza, apprendendo che il meccanismo ideato dall'evoluzione per difenderci dagli attacchi di potenziali nemici è lo stesso che ci fa ammalare dal morbo ripugnante dell'intolleranza.
 

 


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