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di Mario Braconi
Intelligenza artificiale: è questo il Santo Graal degli scienziati cibernetici, che mettono le loro notevoli intelligenze al servizio dell’ambizioso e prometeico compito di creare una macchina ad immagine e somiglianza del suo creatore, dotata del misterioso crisma dell’autocoscienza, capace di apprendere e, chissà, magari anche di provare emozioni. Una strada impervia, certamente, ma oggi assai meno improbabile di quanto potesse sembrare solo qualche decennio fa: almeno così sostiene la rivista The New Scientist.
In un editoriale del 4 agosto, dal titolo “Evoluzione digitale e senso della vita”, il periodico di divulgazione scientifica dà conto del fallimento dell’approccio “top down”, partendo dal risultato finale: fallimento causato, prima ancora che dall’improba difficoltà del compito, da questioni d’indeterminatezza filosofica. E’ infatti impossibile definire in modo univoco ciò che si intenda, esattamente, con i termini “vita”, “intelligenza”, “coscienza”.
Non essendo chiari e condivisi i presupposti attorno ai quali costruire la potenziale futura “macchina delle meraviglie”, quest’ultima è rimasta prigioniera del mondo iperuranio. Più interessante, nonché fecondo, sembra il percorso “bottom up”, il quale mira a generare l’intelligenza artificiale mettendo al lavoro, mutatis mutandis, i meccanismi evoluzionistici - gli stessi che hanno prodotto l’intelligenza umana. Nessuna meraviglia: anche in questo campo si è finalmente compresa l’utilità delle teorie darwiniane rispetto ai dogmi creazionisti.
Protagonisti di questa storia sono gli Avidian, entità digitali generate dalla mente del professor Ofria, della Michigan State University. Pur essendo “creature” virtuali (stringe di codice, in effetti) gli Avidian si comportano in modo simile a forme viventi autentiche: infatti, fanno a gara per accaparrarsi quanto più “cibo” possibile. Niente paura, non si tratta di vero cibo: gli Avidian non saprebbero cosa farsene di un fumante piatto di lasagne, ma apprezzano immensamente dosi abbondanti di “computing time” (tempo da dedicare al calcolo). In questo almeno sembrano più saggi degli uomini, poiché comprendono quanto sia prezioso e raro il tempo in dotazione, agli uomini come alle macchine.
Desiderosa di mettere alla prova le capacità evoluzionistiche di questi semplici “animaletti” digitali, Laura Grabowski, dell’Università del Texas Pan-American, ha realizzato una matrice nel quale “allevare” gli Avidian. Immaginiamo una specie di condominio virtuale, il cui piano terra è occupato da Avidian: gli appartamenti del piano di sopra hanno dei frigoriferi più capienti e più pieni. E’ stato un successo: gli Avidian, infatti, si sono autoreplicati per circa cento generazioni, ed in quell’intervallo temporale ciascuno di esso è “vissuto” e “morto” nella stessa cella; finché uno di essi si è spostato sulla cella più “ricca”, dove si è “riprodotto” in modo più veloce.
Al termine dell’esperimento, è stato chiaro che gli Avidian tendono a spostarsi nella direzione in cui si trovano maggiori quantità di “cibo”. L’importante risultato sembra dimostrare che essi si evolvono in modo simile ai loro prototipi biologici (cosa che li rende tra l’altro molto utili ai biologi che li possono impiegare come “cavie”).
Per riuscire nel compito di “nutrirsi” sempre meglio, gli Avidian, questi “meravigliosi animali evoluzionisti da compagnia”, hanno dovuto “imparare” a confrontare la quantità di risorse in una certa cella con quella di un’altra, cosa che implica una forma, sia pur molto primitiva, d’intelligenza. La Gabrowski ha successivamente complicato l’esperimento, ad esempio inserendo nelle celle “istruzioni” per trovare le celle più “ricche” e perfino un’istruzione del tipo: “Ripeti quello che hai appena fatto”: gli Avidian sono stati in grado di “ricordare” il loro comportamento precedente.
Le conseguenze di questa scoperta sono notevoli, sia dal punto di vista della biologia che della computer science. Il comportamento degli Avidian permette di comprendere come il primo passo per un organismo chiamato a risolvere semplici problemi di navigazione in uno spazio, sia quello di evolvere una qualche forma di memoria di breve periodo. Allo stesso tempo il comportamento degli Avidian dimostra come la materia inorganica possa sviluppare una minima forma d’intelligenza in qualche modo paragonabile a quella animale ed umana.
Ironicamente, il progenitore di Avida (il mondo virtuale in cui “vivono” gli Avidian) non è altro che una specie di gioco elettronico per “geek”, Core Wars. Non si pensi a guerre intergalattiche o partite a SuperMario, per carità: qui i partecipanti (tutti programmatori professionisti) si divertivano a scrivere codice il cui obiettivo era quello di “spegnere” quello sviluppato dagli avversari e, chi fosse sopravvissuto, avrebbe potuto fregiarsi del titolo di vincitore.
Il biologo ecologo Thomas Ray intuì l’enorme potenziale di Core Wars per lo studio dei meccanismi evoluzionistici e, sulla sua base, realizzò Tierra, un mondo virtuale popolato da programmi che si auto-replicavano commettendo anche degli errori: i programmi avevano a disposizione un numero limitato di righe per compilare il codice e, una volta esaurito, dovevano sovrascrivere i più vecchi.
La cosa interessante è che, ad un certo punto, i programmi cominciarono a subire una mutazione, risparmiando spazio, comprimendo cioè le istruzioni e “rubando” intere routine di istruzioni da altri programmi concorrenti: è così che un programma di 80 righe si è auto-ridimensionato fino a raggiungere le 45 righe. Tierra è, in effetti, il vero padre di Avidia, anche se quest’ultimo è più complesso e, comunque, somiglia molto di più al mondo reale. Certo, il percorso è ancora lungo e accidentato, ma tra non molti anni potremmo forse vedere le prime vere forme d’intelligenza artificiale. Matrix non è stata mai più vicina.
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di Cinzia Frassi
E' di pochi giorni fa la notizia del lancio entro la fine dell'anno di Newspass, un sistema di raccolta centralizzata di informazione a pagamento. In sostanza, quando faremo una ricerca sul principale motore di ricerca, la s.e.r.p. ci mostrerà una serie di risultati alcuni dei quali bloccati da un filtro di accesso denominato paywall. A questo punto entra in gioco checkout, un servizio di fatturazione che consente agli utenti registrati e con carta di credito, di acquistarli facilmente con un solo click e senza lunghi passaggi. Non più quindi procedure separate che mettono in contatto diretto editori ed utenti, giornali e navigatori, ma una sola porta per le news e per il loro accesso.
Non solo: con questo sistema, Google è ad un passo dal realizzare un grande monopolio sulla transazione di contenuti e acquisti di beni e servizi on line, dato che il sistema offre all’utente le funzioni di chiave universale di accesso, la cosiddetta single on: una sola password per accedere a tutti i contenuti, a pagamento o gratuiti, a tutti i servizi, ad ogni tipo di acquisto e con diverse piattaforme, dal cellulare al iPad e tablet pc di ultima generazione. Sarà anche possibile acquistare una sola news, effettuando un micro pagamento, oppure optare per un abbonamento, e ciò sarà possibile per testi, video, immagini, libri e tutto ciò che può passare dalla rete. Ma i monopoli non hanno mai fatto bene agli “utenti”.
Con questa mossa il colosso di Mountain View dimostra di essere lungimirante e di avere sempre una strategia puntuale come asso nella manica, anticipando i cambiamenti. Da tempo, infatti, i rapporti tra Google e gli editori erano piuttosto tesi e i punti di rottura ruotavano proprio attorno alle news e alla indicizzazione delle stesse. Gli editori, con l'acqua alla gola del mare della crisi, accusavano big G di sfruttare il richiamo delle loro news per raccogliere profitti pubblicitari. In pratica gli editori sostenevano di mettere i contenuti a disposizione della rete senza guadagnarci nulla, mentre il motore di ricerca ne sfruttava l'appetibilità inserendo e guadagnando sulle inserzioni pubblicitarie senza riconoscere nulla agli editori.
Con Newspass però le chiacchiere stanno a zero e l'ascia di guerra è messa sotto terra da un accordo a monte: io pubblico e indicizzo i contenuti offrendo un sistema di pagamento ad hoc, unico e altamente fruibile dalla maggior parte degli utenti, facilitando il passaggio dalla fase news gratuite a quella, sempre più desiderata dagli editori, delle pay per news. Questa opportunità, per gli editori potrebbe essere la manna dal cielo, dato che le difficoltà attorno al pagamento on line delle notizie rendevano abbastanza lenta la crescita degli utenti a pagamento in un settore, quello delle news, sempre più ricco di utenti.
In conclusione: tutti felici. A prima vista potremmo rispondere sì. Secondo l’ultimo rapporto Ocse "The evolution of news and the Internet" dello scorso 11 giugno, il settore giornalistico globale è nel bel mezzo di una crisi profonda. Infatti, il rapporto rileva una flessione importante dei profitti della carta stampata, tendenza ormai in atto da alcuni anni: il calo verticale della raccolta pubblicitaria mette in ginocchio gli editori, anche i grandi.
Il calo sensibile di lettori della carta stampata, con la connessa raccolta pubblicitaria, ha come contrappeso l'aumento sempre costante di utenti on line, probabilmente provocato dalla gratuità dei contenuti, dalla sempre maggiore mole di news disponibili in rete, ma anche dalla varietà di contenuti sviluppati dal web 2.0.
Il futuro potrebbe vedere il definitivo superamento dell'informazione tradizionale, ma il passaggio è segnato dalla partita pubblicitaria: attualmente, nonostante la crisi che colpisce la pubblicità su carta, i profitti della pubblicità on line sono ancora molto bassi e non appettibili per gli investitori. Si rileva in sostanza una situazione paradossale, dove i contenuti vanno nella direzione del web, ma la possibilità di finanziamento offerta dalla pubblicità viaggia ancora lungo le vie tradizionali della carta stampata.
Questo scenario, e la sua evoluzione soprattutto, aprono interrogativi importanti che possono essere riassumibili in un unico quesito che il dibattito degli addetti ai lavori ha da tempo rilevato: cosa fare per garantire fonti di informazione il più possibile democratiche? Da un lato i monopoli che attanagliano l’informazione su carta stampata e tv potrebbero essere gli stessi che la faranno da padroni sul web. Dall’altro la forza diffusiva e la libertà di accesso, tipica del web, sarà sufficiente a garantire l’informazione come elemento necessario della società democratica scongiurando la sua riduzione a bene di mercato virtuale?
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di Mario Braconi
Craig Venter, l'imprenditore-scienziato che nel 2000 ha dichiarato di aver effettuato la prima mappatura del genoma umano, ne ha combinata un'altra delle sue: il 21 maggio su un articolo su Science ha dichiarato di aver progettato, sintetizzato ed assemblato JCVI-syn1.0, una "cellula artificiale" in grado di riprodursi autonomamente. In sostanza, gli scienziati del "J. Craig Venter Institute" hanno rielaborato il genoma del Mycoplasma mycoides, un patogeno che colpisce le capre, dapprima clonandolo e poi eliminando 14 dei suoi geni; hanno poi inserito il genoma sintetico così ottenuto dentro il citoplasma di un batterio simile (il Mycoplasma capricolum) preventivamente "svuotato". Grazie ad un "trucco" segreto, il genoma sintetico è riuscito ad "ingannare" il citoplasma ospitante, "convincendolo" che l'intruso fosse "uno di casa": di conseguenza il genoma sintetico ha cominciato a moltiplicarsi producendo miliardi di cellule del Mycoplasma mycoides modificato.
Si tratta di un risultato sicuramente importante, ma la cui portata è molto inferiore a quanto appare leggendo i titoli dei giornali di tutto il mondo, da cui traspare ingiustificato trionfalismo miscelato a proclami terroristici contro il progresso e contro la scienza in generale. In effetti, nonostante i titoli "strillati" sulle prima pagine la scorsa settimana, Venter non ha davvero creato una "vita artificiale", ma, come riconosce egli stesso in un editoriale comparso su The New Scientist il 26 maggio, "una cellula vivente in grado di autoreplicarsi, che molti microbiologi farebbero fatica a distinguere dalla cellula progenitrice, a meno di non ricostruire la sua sequenza di DNA". L'elemento veramente nuovo qui è che è stato finalmente possibile mettere insieme due risultati (creazione di genoma sintetico, trasferimento del genoma da un batterio ad un altro) che erano stati già conseguiti in passato separatamente.
Come spiega The New Scientist, l'elemento rivoluzionario della scoperta è il successo del "marker" che il gruppo di Venter ha aggiunto al DNA sintetico: questo "passepartout" chimico è infatti riuscito nel suo obiettivo di "convincere" la cella ospite a non distruggerlo con l'apposito enzima "anti-intrusione". Si noti che Venter non ha fornito dettagli sulla natura e il funzionamento del marker, il vero protagonista del suo recente successo. Se Venter, che tutto è fuorché uno che minimizza i risultati che consegue, decide di non parlare, sotto c'è la sua incorreggibile smania da brevetto.
Ed in effetti, brevettare un genoma sintetico, cioè assemblato attraverso un sapiente processo di "cut and paste" a partire da un genoma originale, allo scopo di produrre un "oggetto vivente" pronto ad usi commerciali, non presta il fianco alle critiche di tutti coloro che, scienziati, filosofi o società civile, disprezzano e temono un sistema in cui l'accesso al sapere scientifico è consentito solo a patto di pagare una tassa (”vietato brevettare la vita”).
Venter, persona notoriamente interessata al profitto almeno quanto alla conoscenza, non è particolarmente sensibile a simili argomenti: basti pensare che nell'ottobre del 2006 ha fatto richiesta di brevetto per il "genoma minimo necessario alla sopravvivenza" di un batterio. Allora il gruppo di Venter individuò quei geni del Mycoplasma Genitalium non strettamente necessari alla sua sopravvivenza (89 su un totale di 470) - ecco perché "genoma minimo"; dopodiché, ne produssero una versione sintetica contenente i soli 381 geni indispensabili, inserendolo infine in un micobatterio naturale svuotato del suo materiale genetico originale. Nel brevetto vengono citati possibili usi commerciali di Synthia (la "cosa vivente" brevettata), quali la produzione di etanolo e di idrogeno. A quanto sembra, gli unici a contestare vivacemente l'iniziativa di Venter e soci furono gli attivisti di ETC Group, una ONG di Ottawa che tra i suoi obiettivi istituzionali ha la "il progresso sostenibile della diversità culturale ed ecologica".
Secondo ETC Group, prima di tutto non è ancora provato che Synthia funzionasse veramente al momento in cui è stato chiesto il brevetto; inoltre, secondo una sua rappresentante, Silvia Ribeiro, "i Syn (organismi viventi sintetici) vengono presentati al pubblico come una possibile soluzione ai problemi ambientali per stornare l'attenzione dal fatto che in realtà possono essere impiegati come arma batteriologica"; del resto non è un mistero, da quando, nel 2002, tre scienziati hanno ricreato il virus della poliomelite "in casa" basandosi su informazioni prese da un sito internet ed assemblando coppie di basi che acquistabili contrassegno a 20 centesimi al pezzo, anche i "duri" del Pentagono hanno i sudori freddi al solo sentire la parola "biologia sintetica". Infine, inventare e brevettare Synthia è un sonoro ceffone sulla faccia di tutti i ricercatori convinti che gli elementi e gli strumenti di base della biologia di sintesi debbano rimanere disponibili gratuitamente (si parla in questo caso di modello "open source").
Non c'è da meravigliarsi se i suoi detrattori ritengano che Venter si avvi a divenire per la biologia quello che Bill Gates è stato per l'informatica, un inefficiente monopolista che tiene il mondo in pugno - infatti c'è chi chiama il suo istituto di ricerca "Microbesoft", ovvero la Microsoft dei microbi. L'annuncio ha lasciato freddi i colleghi di Venter, il cui atteggiamento è ben riassunto da Alistair Efflick, direttore del Centro di Ingegneria Biomedica dell'università di Edimburgo: “il risultato è davvero fico ed è costato un sacco di fatica, ma non ci porta molto più avanti dal punto di vista scientifico". Anche se non è escluso che la proverbiale arroganza ed antipatia di Venter non aiutino le sue relazioni con gli altri biologi, è un fatto che in ingegneria biologica si sono ottenuti ottimi risultati con approcci meno ambiziosi di quelli di Venter anche se molto più pratici. Ad esempio, l'impiego dei Biobrick (o mattoni biologici), geni o circuiti di geni con caratteristiche specifiche, pronti per essere installati in bio-dispositivi per ottenere determinati effetti.
Richard Ian Kitney, Professore di Ingegneria dei Sistemi biomedici all'Imperial College di Londra, ad esempio, ha costruito un sensore biologico che identifica una certa proteina dai batteri responsabili di certe infezioni del tratto urinario, costituito di tre Biobrick, uno che individua la proteina, un altro che amplifica il segnale e un terzo che fa da indicatore. Questo biodispositivo è poi "montato" sull'Escherichia Coli, anche se Kitney e i suoi colleghi stanno mettendo a punto un nuovo sistema, nel quale i tre geni sono immessi in uno speciale brodo, anziché nel batterio. I progetti di Kitney sono meno altisonanti di quelli di Venter, ma sono molto più utili dal punto di vista pratico (ora il professore sta lavorando su un dispositivo in grado di individuare il batterio dello Stafilococco Aureo): ma Kitney, è chiaro, non ha la prosopopea e l'ufficio stampa di Venter, né i suoi milioni di dollari.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Riempiva gli stadi dell'Unione Sovietica. Alle sue performance di poesia accorrevano a migliaia e migliaia. Era l'idolo delle nuove generazioni nate nel clima del disgelo kruscioviano. Era nato nel 1933 e si era laureato in architettura nel 1957. Andrej Voznesenskij è scomparso all'età di 77 anni nella sua dacia di Peredelkino, quella del villaggio degli scrittori a pochi chilometri dalla capitale russa.
La poesia era il suo campo d'azione tanto e le prime "prove" vennero apprezzate da Boris Pasternak che, poi, lo consacrò - insieme a Evtuscenko e alla Achmadulina - nell'Olimpo degli autori della nuova generazione. Toccò quindi all'imprevedibile Nikita Krusciov ridimensionare il giovane ribelle che rifiutava l'allineamento ai canoni del realismo socialista. Gli mandò a dire, infatti, di prendere il passaporto e di andarsene dal paese per raggiungere i suoi padroni, gli occidentali...
Voznesenskij, invece, resto nel suo paese e continuò a scrivere, sempre mostrando una vivacità intellettuale ed un carattere innovativo con monologhi lirici, drammatizzati, debitori delle metafore iperboliche di un Majakovskij e di un Pasternak. Fu un poeta che espresse nei minimi dettagli quel grande dibattito che caratterizzò l'Urss kruscioviana, segnata dal dibattito culturale ed ideologico tra "fisici" e "lirici". E cioè tra fautori di una società basata sulla scienza e sui valori della tecnica futura e appassionati delle ideologie letterarie e liriche.
Voznesenskij ha così accompagnato il suo paese attraversando le varie epoche culturali e politiche; appunto, da Krusciov a Breznev, da Andropov a Gorbaciov, fino a Putin. Ma è sempre restato fedele al suo credo, quello dell'intreccio tra la parola poetica e la scena dell'esperienza. Venne anche in Italia, arrivando a Roma proprio nel giorno della morte di Pasolini. E in quell’occasione scrisse di getto una breve poesia.
All'Italia era già legato. Ammiratore e studioso di Brunelleschi ("ero innamorato e pervaso dalla sua opera e progettai, perfino, una fabbrica di automobili che si ispirava al Palazzo Vecchio") e di Michelangelo, mi aveva narrato - nel corso di un lungo incontro nel bosco innevato di betulle di Peredelkino - che del grande italiano si era appassionato quando ancora era studente all'istituto di architettura. "In quegli anni di studio - mi diceva - ero costretto a raffigurare il calco di gesso del David e le linee mi sfuggivano come se fossero state insaponate. Odiavo il calco. Poi mi tuffai in biblioteca, copiai i disegni del Vasari, studiai la Cappella Sistina, m’impegnai per riprodurre le statue della tomba di Giuliano dei Medici e la figura della Notte la collocai sul frontone di un padiglione che disegnai per un mio progetto". "Ricordo sempre - continuò allora il poeta - che eravamo infatuati dal Rinascimento fiorentino che consideravamo come la mostra Mecca...".
Da quei tempi Voznesenskij è stato il personaggio numero uno della vicenda culturale sovietica. Con Evstuscenko è stato l'animatore delle maggiori conferenze e manifestazioni culturali. Impegnato ovunque nelle ricerche relative alla coscienza del destino, della conoscenza e dell'anima. E appunto, come poeta, si richiamava sempre all'anima, alle sue fughe. Il tutto con una poesia limpida e infinitamente ansiosa.
Strettamente legato all'esperienza figurativa nella raccolta Antimondi (Antimiry, 1964) Vosnesenskij affrontò in modo non conformistico i problemi della società sovietica e del mondo moderno parlando di forme architettoniche, di acciaio e di cemento come specifiche componenti di un concreto atto creativo. Grande eco ebbero poi le 40 digressioni liriche dal poema La pera triangolare (40 liriòeskich otstuplenij iz poemy Treugol'naja grusa, 1962), il poema Oza ('64) e L'ombra del suono (Ten' svuka, '72), proprio per il loro stampo sperimentale decisamente "cubista".
Oltre a utilizzare diverse forme poetiche, Voznesenskij fece spesso ricorso a un linguaggio ricco di arcaismi, a termini professionali e tecnici e forme idiomatiche derivate dal linguaggio parlato, fino a introdurre in poesia anche alcuni volgarismi assolutamente inusuali. Nel 1982 scrisse un articolo dal titolo Archistichi, termine intraducibile, che si poneva come manifesto della poesia visiva.
Spesso criticato per essere stato amico del potere, contro chi lo voleva solo poeta sperimentale di maniera compose dei versi dal titolo Il laboratorio di criminologia di Jalta (Jaltinskaja kriminalisticeskaja laboratorija, 1986) in cui con ironia, oltre a fare professione di fede, rivisitò criticamente il "bel tempo passato". Negli anni Novanta scrisse numerosi "video-manifesti" sulla poesia e collage in cui utilizzò anche la sua esperienza di artista grafico. Lascia al mondo letterario della Russia di oggi nuove e grandi inesplorate strade di ricerca.
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di Alessandro Iacuelli
Il 31 maggio scorso è stato il giorno di una singolare iniziativa in rete: l'abbandono - da parte di un discreto numero di persone - di Facebook. L'iniziativa è stata indetta attraverso un sito, quitfacebookday.com, che ha raccolto un movimento di protesta contro il social network fin troppo popolare. Il motivo della protesta? Il modo in cui vengono trattati, e trattenuti, i dati personali degli utenti.
Secondo molte persone sparse nel mondo, la considerazione che Facebook ha della riservatezza degli utenti è andata progressivamente scadendo nel tempo. Nei primi tempi di apertura del sito, infatti, c'era una elevatissima tutela dei dati personali, non a casola policy che ogni utente accettava recitava: "Nessuna informazione personale sarà disponibile ad altri utenti, che non appartengono ad alcun gruppo sottoscritto", mentre ovviamente alcune informazioni meno sensibili erano di pubblico dominio, come il nome, il sesso, la nazione di provenienza.
C'è però una specie di "peccato originale" nella policy di Facebook, che si porta dietro fin dalla nascita: le foto, i video e ogni altro contenuto immesso su Facebook non appartengono più a chi l'ha pubblicato, ma a Facebook. Interessante e divertente come manovra: far credere all'utente di trovarsi in uno spazio "proprio", dove può pubblicare contenuti propri, rimanendo proprietario delle proprie foto o dei propri testi; peccato per quella clausola scritta in piccolo, in quei "termini di servizio" che ognuno è costretto ad accettare all'atto dell'iscrizione, e che l'utente medio accetta spesso senza leggero.
Quindi, una volta iscritti al social network, si perdono i diritti di proprietà intellettuale su ciò che viene inserito. Quei diritti esistono, e sono proprietà esclusiva di Facebook, che ha anche il diritto di venderli, di lucrarci. Non solo. Facebook può anche concederli in licenza ad altri, senza nemmeno informare l'utente. Un metodo geniale per rastrellare contenuti dalla rete, che siano foto o video o pagine e pagine di testi, e farli propri.
Non finisce qui. Perché nel momento in cui un utente decide di eliminare alcuni contenuti sul proprio account, a meno che tali contenuti non siano stati condivisi con terzi e che questi non li abbiano eliminati, potrebbero essere conservati come copie di back-up per un determinato periodo di tempo da Facebook. D'altronde, è proprietaria di quei contenuti stessi.
Nel tempo, e con la caduta di certe restrizioni sulla privacy da parte dell'azienda gestore del social network, sono sorti anche altri problemi. Primo tra tutti quello riguardante i pagamenti: Facebook memorizza i dati relativi ai pagamenti che vengono effettuati tramite il sito. Non serve modificare le impostazioni nella pagina dei pagamenti: i gestori profilano gli acquisti degli utenti, sapendo cosa comprano, a cosa sono interessati, in pratica schedano tutti.
Anche l'uso delle applicazioni contiene un raggiro. Raggiro che si cela dietro il funzionamento poco chiaro del software della piattaforma. Quando un utente accede ad una nuova applicazione, per usarla è obbligato a dare il permesso, all'applicazione, di accedere a qualsiasi contenuto o informazione del proprio profilo. Questo implica che se l'utente X condivide una foto molto privata solo con l'utente Y, e l'utente Y accede ad un'applicazione concedendole i permessi, l'applicazione (e chi la gestisce) potrà visualizzare e stampare quella foto molto privata dell'utente X. Pertanto, non serve essere accorti nella gestione della propria privacy, poiché questa dipende anche dal comportamento degli utenti presenti nella lista di amici. Il tutto è descritto al punto 4. della privacy policy, che tutti gli utenti sottoscrivono.
E se si decide ci cancellarsi dal social network - il che non avviene semplicemente disattivando l'account, ma proprio eliminandolo - i dati personali ed i contenuti restano in possesso di Facebook, e l'utente non ha alcuna possibilità di eliminarli, né singolarmente né in blocco. Quel link "elimina" accanto ad ogni contenuto, si riferisce semplicemente al non renderlo più visibile nelle bacheche e nelle pagine del sito, ma non ad una reale eliminazione dai server.
Nelle scorse settimane, ad evidenziare le lacune di Facebook ci aveva già pensato youropenbook.com, un sito che si è messo a rivelare proprio le lacune rispetto alla privacy del social network. Infatti, a fine aprile scorso Facebook ha rilasciato moltissime informazioni sugli utenti, rendendole disponibili alle applicazioni per favorire l'integrazione di facebook su altri siti, ma anche l'indicizzazione massiccia dei contenuti da parte dei motori di ricerca. Sul sito di youropenbook è possibile inserire chiavi di ricerca per verificare, dal di fuori di Facebook, senza essere registrati o loggati sul social network, quali informazioni Facebook rende pubbliche sul web e non trattiene per sé, limitandone la visibilità ai suoi iscritti.
Gli aspetti sulla privacy costituiscono anche un dibattito interno alla stessa azienda impegnata nella gestione della piattaforma. E la tutela della riservatezza degli utenti non é al primo posto nella scala di valori di Peter Thiel, che è uno dei soli tre componenti del consiglio di amministrazione di Facebook ed è anche uno degli inventori di PayPal. Thiel sostiene da anni fondazioni e lobby mediatiche di estrema destra che non fanno mistero dell'appartenenza a un'ideologia specifica. E’ anche uno dei più potenti venture capitalist del mondo, ma non solo: è membro del "527 Group", una lobby che influenza la politica e i candidati alle elezioni e, come non bastasse, è anche nella "Methuselah Foundation".
E' un agguerrito conservatore, preme attraverso il 527 Group per l'abolizione delle tasse (e dunque dello Stato democratico), finanzia i progetti di rivitalizzazione umana e di allungamento della vita ed è convinto, come ha dichiarato a viva voce in più di una conferenza, che l'umanità tutto sommato "sia composta di pecore". Ma allora, se pensa questo dell'umanità, ed é un consigliere d'amministrazione di Facebook, per lui Facebook che cos’è? L'amministrazione del gregge? Invece, nei giorni scorsi Mark Zuckerberg, il controverso fondatore di Facebook, ha fatto una sorta di "mea culpa" sulla "privacy policy" di Facebook. In contrasto con Thiel, ha scritto in un articolo comparso sul Washington Post che "sono stati commessi troppi errori in tema di privacy, e verranno presto aggiornate le norme sulla privacy per renderle più semplici".
Intanto, Facebook è riuscito senza dubbio, negli ultimi anni, ad uccidere molte potenzialità di espressione in rete, a cominciare dai blog, che stanno diminuendo di numero, con tante persone che dai blog continuano a passare sui social network, Facebook primo tra tutti. C'era da aspettarselo: i blog hanno costruito negli anni scorsi, fino più o meno al 2007, dell'ottimo "social networking" tra le persone. Ma per fare social network con i blog c'è bisogno di scrivere, e soprattutto di leggere gli altri blog, e al passare del tempo gli utenti medi trovano faticoso il leggere e lo scrivere.
Certamente è molto meno faticoso gironzolare fu facebook, taggare qua e là, richiedere amicizie: i social network danno l'illusione di comunicare più rapidamente - se di comunicazione si tratta - di rimorchiare più facilmente. A pagarne un duro prezzo è proprio la rete intesa come strumento libero: a discapito della libertà, è emerso uno strumento, Facebook, che impone un meccanismo forzato d’interazione tra gli utenti, un instradamento obbligato, attraverso i tag, le liste di amici, i gruppi.