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di Mariavittoria Orsolato
Chiunque abbia un account Facebook, la scorsa settimana avrà sicuramente notato come nella propria home page campeggiasse una lettera personale del fondatore Mark Zuckerberg, in cui veniva spiegato che a breve le impostazioni sulla privacy sarebbero state cambiate. Il crescente numero di utenti, circa 350 milioni, pare aver infatti inficiato l’efficacia di alcune barriere come i network regionali, utili quando il sito contava poche migliaia di persone perché consentivano la condivisione di informazioni anche con chi non fosse propriamente un amico. Nel tempo queste reti territoriali hanno cominciato a contare centinaia di migliaia di persone e la facilità con cui era possibile carpire notizie personali, ha spinto i vertici dell’azienda a eliminarle definitivamente, introducendo una nuova piattaforma d’impostazioni.
Sulla carta, l’operazione di Zuckerberg e soci appare tecnicamente perfetta e soprattutto rispettosa della privacy dei singoli utenti, ma dalla Electronic Frontier Foundation - la più stimata organizzazione no profit nell’ambito della tutela dei diritti civili sul web - arriva un rapporto in cui le innovazioni vengono perlopiù criticate. Secondo gli esperti di San Francisco, infatti, le nuove impostazioni di privacy spingono gli utenti a diffondere nel web i loro contenuti personali: una volta apparso il cosiddetto “transition tool”, il fruitore di Facebook è stato messo davanti al fatto che (di default) tutte le sue informazioni erano visibili a chiunque, e nel caso in cui non si fosse andati personalmente a modificare le impostazioni, i contenuti sarebbero rimasti totalmente accessibili.
A onor del vero, la transizione ha portato una semplificazione significativa dei passaggi per la pianificazione della privacy. Con un’interfaccia più chiara ed intuitiva è ora possibile scegliere, ambito per ambito, cosa far vedere a tutti, solo agli amici oppure agli amici degli amici. In questo modo la privacy sembrerebbe in una botte di ferro: basta un po’ di accortezza ed è possibile schivare il rischio di avere le proprie foto in ambienti o atteggiamenti poco consoni, diffuse su tutto il web.
La questione non è però così semplice. Quando Zuckerberg e soci ci dicono ad esempio che le nostre generalità - ovvero sesso, data di nascita, residenza, lista degli amici e pagine - sono automaticamente visibili nel momento in cui noi facciamo uno di quegli irresistibili test sulla nostra personalità freudiana o parliamo con la nonna di Bari vecchia, si dimenticano di precisare che è proprio da questa nostra gentile concessione che arrivano gli utili della loro azienda. In pratica quei giochini tanto carini sono delle immani miniere d’informazioni su gusti, inclinazioni e comportamenti personali che vanno ad ingrassare le liste di compilazione necessarie a sondaggi e ricerche di mercato di ogni genere e sorta. E com’è ovvio ogni servizio ha un prezzo.
Se a ciò aggiungiamo il fatto che ogni restrizione sulla privacy è una perdita in termini di guadagno per quanto riguarda la probabilità di indicizzazione sui vari motori di ricerca, Google in testa, ben si potrà capire come mai durante la fase di setting delle impostazioni due righe di testo ci suggerissero che “consentire a tutti di vedere le informazioni, faciliterà l’identificazione da parte degli amici”. D’altra parte la concorrenza di una piattaforma come Twitter, in cui tutti i contenuti sono pubblici e di conseguenza indicizzabili da Yahoo e soci, ha un peso sempre maggiore nei bilanci dell’azienda di Zuckerberg.
Ora, il problema non sta tanto nella pubblicazione d’informazioni quali l’istruzione o il luogo di lavoro. I guai cominciano ad arrivare nel momento in cui ragazzini poco meno che adolescenti lasciano, o per buona fede o per pigrizia, le impostazioni di default e rendono pubbliche immagini appetibili ad ogni sorta di maniaco deviato che circoli in rete. Sebbene al momento dell’iscrizione si richieda la maggiore età, su Facebook sono presenti migliaia di studenti delle medie e delle elementari, bambini e ragazzini che si approcciano con curiosità alla rete e vedono in questo sito la via più semplice per creare network interattivi con i propri compagni di scuola, di sport o di vacanze. Sono loro che statisticamente pubblicano più informazioni, sono loro la più grande fonte di guadagno per le ricerche commerciali ma sono anche loro ad essere i più esposti alle minacce che un sistema come il web, anarchico per antonomasia, non può illudersi di combattere né tantomeno eludere.
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di Rosa Ana De Santis
Papa Ratzinger torna in udienza generale a ribadire l’intoccabilità, da parte della politica, dei confini estremi dell’esistenza umana. Nessuna sorpresa che il capo della Chiesa Cattolica riconduca all’autorità del Creatore la vita terrena, l’azione morale e il valore degli eventi. La fede e soltanto gli argomenti mistici che la sostengono possono arrivare a questo, in perfetta coerenza e armonia di ragionamento. Più difficile è il ricorso alla tesi della natura e delle sue leggi.
Difficile perché non sempre difendibile, soprattutto da parte di coloro che per primi muovono ogni giorno battaglie culturali sulla moralità e la bontà dell’agire umano. Non è certamente l’attuale Pontificato ad essersi inventato il ricorso all’argomento della bontà della natura. E’ un metodo spesso rivendicato dalla religione cattolica, infarcito - va precisato - al momento giusto di proiezioni provvidenziali sul corso degli accadimenti naturali volte a coprire i buchi neri del ragionamento e le contraddizioni.
Andrebbe intanto ricordato che il confine tra quanto segue il corso della natura e quanto è prodotto dalla tecnica e dalla scienza non è dato una volta per tutte. Se non fosse così, con il progresso della medicina oggi non ci porremmo interrogativi etici che anche solo decenni fa sarebbero stati al limite della fantasia. I diversi modi di procreare e di nascere o di non nascere, l’eutanasia, il suicidio assistito, l’accanimento terapeutico sono confini dell’esistenza che non rappresentano più limiti concettuali, né confini invalicabili di azione.
Il limite del non naturale si è spostato in avanti, rivoluzionando in profondità costumi culturali ed emozioni. Quello che fa la filosofia morale è proprio lavorare su questi spazi nuovi di ragionamento. Costruire argomenti, fondarli, rispondere alle obiezioni. Tutto il contrario di quello che Benedetto XVI va dicendo sui giornali e sulla tv ammonendo la superbia degli uomini. Non c’é alcun abbandono della morale e alcun incedere nel relativismo. Si cerca, al contrario,di rendere l’azione degli uomini sempre più blindata e fortificata dalla ragione per reggere l’impatto con le nuove possibilità di vivere e di pensare l’esistenza. Scivolare dalle novità morali al rischio del disorientamento personale è il metodo tipicamente clericale di toccare le corde emotive della paura per paralizzare ogni forma di risveglio di coscienza. Il vero nemico non è il paventato nichilismo dei valori, ma l’autonomia di giudizio. Sarà bene ricordarlo.
Andiamo sugli esempi. Secondo i cattolici abortire non è naturale o, per dirla meglio, è l’interruzione immorale di un percorso potenziale inscritto nel dna della procreazione naturale. Ma dove sta la verità di quest’affermazione? Sappiamo bene che l’aborto può avere anche una genesi naturale e spontanea. Facile smascherare l’ipocrisia di ragionamento. Non è il fatto di natura in sé e per sé, direbbe Hegel, ad avere una sua legittimazione o verità, ma l’intenzione morale che può indurre una donna ad intervenire sul corso degli eventi. Il vero bersaglio della condanna religiosa è la moralità che contraddice la dottrina, poco c’entra la natura. Quello che sembra uno slittamento raffinato e puramente accademico, ci permette invece di elencare tantissimi esempi in cui il corso della natura, elevato dai cattolici a paradigma, porta alla sensibilità morale di ognuno eventi assolutamente inaccettabili.
La selezione degli organismi più forti con corredo genetico migliore, ad esempio. E’ proprio la natura matrigna, così non a caso l’ha messa in versi un grande conoscitore dell’animo umano come Leopardi, ad approntare una severissima eugenetica. I deboli, i meno adatti alla competizione per la sopravvivenza, soccombono, ammalandosi e morendo, ad esempio. Non importa se bambini, giovani, d’animo nobile e d’intelletto. La natura li scarta. E’ l’azione delle persone e l’intenzione morale ad intervenire con dei correttivi tecnici. La cura e le terapie non sono altro che il segno tangibile del progresso della tecnica utilizzato secondo ragioni e intenzioni che attengono alla sfera dell’azione e quindi alla moralità.
La natura procede rimuovendo ogni valutazione di giusto o sbagliato. Le appartengono i fatti, senza valutazioni intrinseche di bontà. La malattia o la sofferenza fisica, o la nascita con deficit psico-fisici, è forse un bene in sé? La fede, spiegherebbe con buona probabilità il Papa, può attribuire significati positivi anche ad eventi come questi, seguendo come si preferisce la dottrina della provvidenza, la salvezza della croce o la prospettiva del Paradiso. Tesi di fede che nulla hanno a che vedere con la giustezza di ciò che la natura dispone. Ed é per questo che il richiamo alla legge naturale oltre ad essere sempre più incrinato dalle evidenze scientifiche, rischia di danneggiare la religione e la sua funzione sociale, piuttosto che rafforzarla come poteva accadere in passato. A questo va aggiunto che questa arringa sulla natura confligge con il lavoro enorme e complesso che la filosofia fa da sempre, entrando nei laboratori della scienza. Dai geni alle stelle.
L’argomento della natura dovrebbe servire, nelle intenzioni della Chiesa e nella dialettica con la legge pubblica, a conquistare il consenso di quanti non sono rigorosamente fedeli. Tutti coloro per i quali la spiegazione rigorosamente dogmatica non può essere convincente. Ma è una teoria di conservazione della tradizione, di debole resistenza al progresso che manca di evidenze e di coerenza interna. E’ proprio la scienza degli uomini a smentirla ogni giorno sempre di più.
Se la Chiesa deve continuare a mantenere, come pure é comprensibile, una pastorale di monito e condanna sulla crescente disponibilità della vita alla scelta degli uomini e delle donne, in onore ad una sacralità che è religiosa e non scientifica, dovrà dare luogo ad una rivisitazione generale del proprio linguaggio e, forse, a un ritorno anche un po’ romantico, se vogliamo, della religione all’esistenzialismo.
E’ di questo forse, più di ogni altra cosa, che ha bisogno l’uomo contemporaneo, Credere fosse anche alla consolazione più inesistente in natura. Più la scienza va avanti e la filosofia ne accompagna moralmente il corso, più la religione deve rientrare in un ambito specifico e intimo che rinunci a spiegare a mutuare dalla natura prove e fondamenti che tanto non potrà dimostrare.
Galileo Galilei, solo di recente riabilitato, sosteneva che mentre la scienza c’insegna come vadia il cielo, la religione ci dice come si vadia al cielo. Alla Chiesa che sente la necessità di limitare l’azione degli uomini sui confini estremi della vita non spettano argomenti che non siano rigorosamente di fede. E ‘ proprio la filosofia della natura a conquistare sempre meno spazi di credibilità, mentre la cultura scientifica sempre di più consegna la vita, fin dalle sue forme minime ed essenziali, a ciò che ciascuno sceglie di essere o fare. Vivere ed esistere non saranno mai la stessa cosa e la morale non è scritta nei geni, ma nella libertà. Un vizio della specie umana che la natura proprio non può tollerare. E la Chiesa, forse più di dio, nemmeno.
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di Mariavittoria Orsolato
Chi non conosce il programma X factor? Quel talent show canoro in cui baldi giovani con velleità artistiche, si sfidano all’ultima cover per vincere l’ambito premio in denaro ed una folgorante carriera musicale? Lo show, un clone del seguitissimo American Idol, è stato creato dal talent scout inglese Simon Cowell nel 2004 e da allora spopola sia in termini di ascolti televisivi che di vendite discografiche. Negli anni il format si è espanso a macchia d’olio in tutto il globo e se noi, magari nostro malgrado, ne siamo a conoscenza, è perché assieme alle versioni dell’Arabia Saudita, dell’India e della Colombia, c’è rientrata pure quella italiana, condotta dal figlio dei Pooh Francesco Facchinetti.
Ebbene, in Inghilterra - dove da 6 anni il format va in onda - un gruppo di utenti Facebook ha lanciato una provocazione proprio contro Simon Cowell e il suo X Factor: dal momento che puntualmente, ogni Natale, la hit in vetta alle classifiche (oramai esclusivamente digitali) appartiene all’artista vincitore del programma, l’obiettivo è quello di boicottare X Factor tentando di portare al numero uno, un brano che non appartenga alla folta schiera degli adepti di Cowell.
La mission del gruppo non a caso recita provocatoriamente: “Stanco che l’ultima versione karaoke di X Factor sia il singolone di Natale?” Era già successo l’anno scorso, quando “Halleluja” il celeberrimo brano di Leonard Cohen è stato oggetto di una guerra di cover tra l’indimenticabile versione del 1994 di Jeff Buckley - compianto cantautore indie, figlio di un altro mostro sacro, Tim - e quella di Alexandra Burke, vincitrice dell’edizione Uk. Inutile dire che “la versione karaoke” di X Factor si sia aggiudicata la sfida.
Probabilmente convinti che quest’anno la musica sarà un’altra, gli anti-X Factor ci provano ancora e stavolta scelgono il brano di un gruppo che nella storia del rock ha sicuramente il primato per quanto riguarda l’attivismo politico e sociale. Stiamo parlando dei Rage Against The Machine e della loro ormai classica “Killing in the name”, tratta dall’album omonimo del 1992. La scelta non è casuale: gli statunitensi RATM sono da sempre conosciuti e apprezzati per il loro impegno politico a sinistra e per le battaglie in favore delle minoranze etniche.
Rappresentano infatti l’emblema di quel tipo di musica che non vuole solo essere intrattenimento fine a sé stesso, ma ambisce a creare nel suo pubblico una consapevolezza maggiore delle tensioni socio-culturali cui è inevitabilmente sottoposto. Certo, il singolo in questione, sebbene tratti delle connivenze tra Ku Klux Klan e polizia americana, non è uno dei loro testi più rappresentativi, ma la canzone è una delle più famose e il gruppo Facebook “Rage Against The Machine For Christmas Number 1” al momento ha già sfondato la quota dei 655.000 membri. Proprio oggi cominceranno le operazioni di download (ovviamente legale) per contrastare lo strapotere di Cowell e della sua SyCo, l’entertaining network che ruota attorno al programma televisivo e ai suoi sottoprodotti, e tra i sostenitori del gruppo c’è quasi un’ansia spasmodica.
L’iniziativa in sé sembra essere una buona cosa. Quale amante della musica non vorrebbe che in vetta alle classifiche, al posto dei ragazzi di Amici, ci fossero artisti validi e talentuosi che producono in modo autonomo la loro musica e soprattutto non sono costretti a fare piroette con Garrison o pietose litigate con la Maionchi? La realtà è però molto più dura e potrebbe scoraggiare chi, colto dall’incontrastabile buonismo natalizio o inebriato dai risultati del popolo viola, decida di aderire all’iniziativa promossa su Facebook.
Quello che i tabloid inglesi hanno sottolineato è che, comunque vada l’operazione di contrasto, per Simon Cowell sarà un successo, soprattutto in termini economici. Simon Cowell è infatti il fondatore e il proprietario della SyCo, una divisione della major discografica Sony Music Entertainment la quale ha l’esclusiva su tutti gli artisti di Cowell. La canzone “Killing in the name”, apparentemente perfetta per il nobile scopo, è invece tratta da un album prodotto sotto l’etichetta Epic Records che è però anch’essa una sottobranca della Sony, la quale inevitabilmente si accaparra anche i proventi di questo “acquisto etico/politico”.
Insomma, alla fine vincono sempre loro e la “rage against Simon Cowell” si trasforma in decine di migliaia di download extra per la Sony e, immaginiamo, in premi aziendali per lo stesso Cowell. A Natale, anche a provare a fare i buoni, si finisce sempre per agevolare i cattivi.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Tarocchi, divinazioni, maghi telegenici: per aprire una finestra sul futuro ci si presta alle pratiche più improbabili. Ciò che i fondi di caffè non potranno mai dirci, si può però scoprire con la matematica: grazie alla teoria dei giochi siamo ora in grado non solo di predire il futuro, ma di piegarlo ai nostri interessi. Bruce de Mesquita, professore di scienze politiche alla New York University, ha sfruttato appieno la potenza predittiva di questa disciplina e ne svela i segreti nel suo ultimo libro “The predictioneer's game,” ovvero “Il gioco del divinatore.” Riusciranno i leader mondiali a trovare un accordo per bloccare le emissioni di gas serra e salvare il pianeta dall'ebollizione? Gli iraniani costruiranno la bomba o abbandoneranno il programma nucleare? Come si può risolvere il conflitto tra israeliani e palestinesi?
Questo è il genere di problemi a cui si dedica Bruce Bueno de Mesquita. Usando la teoria dei giochi, de Mesquita ha elaborato un modello matematico che riesce a predire l'esito di situazioni complesse, basandosi su una semplice ma geniale assunzione: ogni decisione che prendiamo è tesa a massimizzare il nostro tornaconto personale. Secondo la teoria dei giochi, sviluppata a partire dagli anni cinquanta da John von Neumann (ovvero il “Dottor Stranamore”) e John Nash (il matematico del film “A beautiful mind”), l'uomo è un essere razionale, nel senso che le sue decisioni sono prese in base al proprio esclusivo interesse. A parte i neonati e gli schizofrenici, tutti gli esseri umani sono razionali, inclusi i kamikaze, Madre Teresa e Ahmadinejad. Ma come funziona in pratica questo modello matematico?
L'idea è molto semplice. Per fare un esempio concreto, prendiamo il programma nucleare iraniano. Prima di tutto, dobbiamo identificare i vari giocatori della partita e l'obiettivo che ciascuno di loro vuole raggiungere, ma anche quello che viene dichiarato pubblicamente, perché una parte essenziale del gioco è il bluff. Nel nostro esempio, gli attori sono l'ayatollah Khamenei, il presidente Ahmadinejad e i movimenti politici e gruppi economici iraniani, oltre alle potenze straniere. Nel gennaio 2009, lo scopo dichiarato del regime era di costruire centrali nucleari, mentre l'obiettivo reale era arricchire abbastanza uranio per produrre una bomba, ma senza produrla realmente.
A questo punto, dobbiamo valutare altri due fattori: quanto è importante il programma nucleare per ciascuno dei giocatori, rispetto agli altri grattacapi di cui si deve occupare, e il potere effettivo che ciascuno è in grado di esercitare per ottenere il proprio obiettivo. Tutte queste informazioni, che sono l'input da fornire al modello, non sono il frutto di rapporti top secret della CIA, ma si tratta più semplicemente di fatti reperibili sul New York Times o su Wikipedia.
Nel caso di un negoziato politico, lo scopo di tutti gli attori è non solo il raggiungimento del proprio obiettivo, ma anche il riconoscimento pubblico del ruolo svolto. È cruciale capire se per ciascun giocatore sia più importante il riconoscimento del proprio impegno rispetto all'ottenimento dell'obiettivo stesso. Per esempio, giocatori con posizioni pregiudiziali di solito sono più interessati a dimostrare la propria “integrità morale” che ad ottenere gli obiettivi per cui si battono.
Un fattore che invece non compare affatto nel modello è la storia passata delle parti in causa. Le loro decisioni precedenti non concorrono in alcun modo nel determinare il loro futuro comportamento, al contrario di quanto si potrebbe pensare. La matematica ci insegna che il senso comune in questo caso è proprio sbagliato. Una volta impostate queste condizioni, de Mesquita preme il tasto Invio e aspetta che il computer faccia girare il suo modello matematico, che peraltro l’ha reso milionario grazie alla sua società di consulenza.
Qual è la predizione del modello sul futuro del programma nucleare? Entro l'estate 2010 il regime iraniano abbandonerà la costruzione della bomba e si dedicherà all'arricchimento per scopi civili e di ricerca. In questo modo, l'Iran soddisferà l'orgoglio nazionale, dimostrando ai vicini di possedere in caso di bisogno la tecnologia necessaria a costruire la bomba, ma non la costruirà nella pratica. Inoltre, le pressioni internazionali e le eventuali sanzioni avranno l'effetto opposto di posticipare di qualche mese l'abbandono del programma nucleare militare.
Possiamo fare altre domande all'oracolo informatico. Chi comanderà in Iran fra un anno? Il modello predice che fra un anno l'influenza politica di Ahmadinejad sarà sparita, mentre gli ayatollah radicali segneranno il passo rispetto a quelli più moderati e riformisti della zona di Qum. L'attuale conflitto politico lascerà un unico vincitore: gli interessi economici dei petrolieri e dei commercianti, che determineranno il futuro del paese. Il professore ci insegna che non tutto si può predire: per esempio l'andamento del mercato azionario sfugge alla teoria dei giochi. Ma una volta acquisita la capacità di predizione, il passo successivo è come sfruttare questo modello per guidare gli eventi nella direzione da noi voluta. Si tratta di una nuova scienza che de Mesquita chiama “ingegneria politica.”
Il paragone con il mondo fantascientifico della Fondazione, inventato da Isaac Asimov, è assolutamente calzante. Il nostro professore altri non é se non Hari Seldon, il protagonista della serie fantascientifica che usa un modello matematico per manipolare il futuro dell'umanità dopo la caduta dell'impero galattico. Una volta acquisita la capacità di predire l'effetto delle nostre ipotetiche scelte, possiamo scoprire quale opzione ci permette di ottenere il risultato voluto al costo minore. Il limite fino a dove ci possiamo spingere nel futuro è determinato soltanto dalla potenza di calcolo a nostra disposizione.
Questo è proprio quello che fa de Mesquita. La società di consulenza fondata dal professore viene spesso chiamata dalla CIA e dal Dipartimento di Stato americano per cercare di capire come gestire le crisi più complesse. Un recente documento della stessa CIA ha rivelato che, nei casi in cui tutti i cosiddetti “esperti” dell'agenzia hanno toppato alla grande, le predizioni del modello matematico di de Mesquita sono state esatte il 90% delle volte.
Ma il modello di de Mesquita si può utilizzare anche retroattivamente, per fare della fantapolitica. Per esempio, può essere studiato per capire quali eventi storici si sarebbero potuti cambiare e in che modo. Nel suo libro non mancano le succose divagazioni su molti degli episodi più controversi della storia mondiale. Per esempio, come si sarebbe potuta evitare la prima guerra mondiale se gli inglesi avessero spedito una nave da guerra in crociera nel mare Adriatico. Oppure come il Reichstag avrebbe potuto fermare Hitler nel 1932, se socialdemocratici e comunisti avessero eletto a cancelliere il leader del partito centrista cristiano-democratico. Se volete scoprire cosa ne sarà del riscaldamento globale o del processo di pace in Medioriente, non vi resta che ordinare il libro, per ora disponibile soltanto nell'edizione americana.
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di Liliana Adamo
Se nella vita e nella mente di un uomo si può celare un ginepraio da cui affiorano cause e motivazioni (vere o presunte) a decifrare il perché di un gesto talmente spropositato agli occhi di qualsiasi persona comune, allora, nella storia personale del soggetto in questione, nei comportamenti, nelle scelte, o in quant’altro possa ascriversi nella soggettività e nel carattere, il gap tra follia e controllo è sempre pronto a esplodere.
Trentanove anni, single, laureato in biochimica al Virginia Tech (già teatro di un massacro nel 2007), specializzato alla rinomata Herbert School of Medicine del Maryland e psichiatra dell’Us Army, dal 6 novembre scorso la vita e la mente del maggiore Nidal Malik Hassan, sono state esaminate e scandagliate pezzo per pezzo. Sbandierate ai quattro venti le origini palestinesi, la religione musulmana, il malcontento e l’avversione per la prossima missione al fronte iracheno, dove avrebbe sperimentato su di sé, lo stress e gli effetti devastanti della guerra, come in quei reduci assistiti durante il suo tirocinio con il grado di “counselor psichiatrico” al “Walter Reed Center”. Aveva perfino ingaggiato un avvocato per giungere a un compromesso con l’esercito degli Stati Uniti e quando l’accordo è stato rigettato, Hasan, non è andato in guerra, l’ha scatenata all’interno dell’esercito americano.
Certo, siamo a Killeen, in Texas, dove raptus omicidi e angeli sterminatori sono di casa: nel 1991, George Hennard jr, disoccupato, già arruolato nella Marina, bianco, omofobo e razzista, entra col suo pick up in un popolare ristorante self service e fa fuori ventitré persone prima di togliersi la vita. Nel 1993, nella vicina Waco, gli stessi agenti federali trucidarono settantaquattro, tra uomini, donne e bambini, asserragliati nel ranch dei davidiani. Si levano, di tanto in tanto, le diatribe per l’ormai arcinota deregolamentazione sul libero possesso delle armi, un “bene” d’uso comune, che, in pratica, implica tutti i substrati della società texana e non solo.
La stessa Fort Hood, la più grande base militare in territorio statunitense, detiene il record di soldati uccisi in Iraq e Afghanistan - 685 - a oggi. Nello stesso periodo, a Fort Hood, si sono suicidati settantacinque soldati, dieci, nell’arco di quest’anno. Tutta questa virulenza e disperazione hanno convinto il tenente generale Rick Lynch, a creare, all’interno della base, una struttura adibita al recupero per sindrome da stress post traumatico, il Resiliency Campus, che comprende un Centro Benessere Spirituale per la meditazione e un altro per il Potenziamento Cognitivo.
Insomma, propedeutica spirituale per affrontare gli orrori della guerra. Ma questa è solo una divagazione sul tema che s’intende trattare. Tornando a Nidal Malik Hassan, la matrice della strage sarebbe stata l’imminente partenza, oppure le discriminazioni subite da parte dei suoi colleghi in divisa, o ancora, il gesto conclusivo di una reazione personale, legata all’indole (del musulmano matto) e al momento difficile. Tranne che per Paul Joseph Watson del Prison Planet, nessuno, tra i promotori mediatici dell’establishment americano, sembra chiedersi se il medico psichiatra, autore della strage di Fort Hood, facesse uso di farmaci psicotropi, in una sorta di “auto-cura”, cui ricorrono molti degli stessi psicopatologi.
La somministrazione di farmaci psicotropi ai militari americani e la faciloneria con la quale questi prodotti sono impiegati anche in casi meno appropriati, sono ormai cosa nota. Ed è nota anche la casistica d’effetti collaterali in comportamenti che sfociano in suicidi e omicidi. L’uso indiscriminato degli SSRI, vale a dire, inibitori della ri-captazione della serotonina, è veramente azzardato nell’ipotesi in cui la depressione è di tipo post-traumatico, questa si affronta in terapia con supporti psicologici sostanzialmente diversi dalla farmacologia psichiatrica. Spingere il “malato” a uscire dal guscio in cui tenta di chiudere se stesso e il suo dolore con farmaci neurotonici che origineranno agitazione mentale e inquietudine (akathisia), sempre più pesanti da assimilare e da controllare, è come accendere una miccia a lenta combustione.
Il British Medical Journal, in un atto di coraggio, ha informato di tre studi clinici che indagano sul nesso tra impiego di farmaci antidepressivi, in particolare gli inibitori selettivi nel riassorbimento della serotonina (SSRI) e i rischi di suicidio e/o omicidio. Una revisione sistematica con approfonditi studi clinici è stata resa pubblica dai ricercatori dell’Health Reserch Institute, nell’Ontario. Ricercatori dell’University of Bristol e dell’University of London hanno compiuto successive analisi confrontando farmaci SSRI con il placebo nei pazienti adulti. Il risultato di questi screening è a dir poco sorprendente: l’esito è che la frequenza concernente l’ideazione suicidaria, l’autolesionismo, finanche l’omicidio, è stata enormemente sottostimata dalle case farmaceutiche e dagli studi precedenti.
Il rischio aumenta enormemente tra i pazienti di età uguale o inferiore ai diciotto anni, trattati con SSRI. E dunque se si dà una sbirciata alla letteratura clinica di questi antidepressivi, plausibile che ti si rizzino i capelli e se la medesima sbirciata si rivolge al volume d’affari delle case farmaceutiche coinvolte in quest’affare colossale, plausibile che ti si sbianchi anche il volto.
Sono motivazioni politiche, personali che rendono comprensibile l’ennesimo massacro? Può darsi. E’ chiaro, però, e su questo si alza un muro di silenzio se non di omertà, che in quasi tutte le sparatorie stragiste avvenute negli ultimi due decenni e cioè da quando l’uso dei farmaci antidepressivi è divenuto così massiccio e popolare, ogni volta l’omicida era sotto l’effetto di SSRI. Altra coincidenza, anche l’autore del massacro al Virginia Tech, Seung-Hui Cho, era sotto effetto di farmaci psicotropi.
Vogliamo andare avanti? Eric Harris e Dylan Klebold, artefici e ideatori del massacro nelle aule della Columbine, come il quindicenne Kip Kinkel, omicida dell’Oregon che assassinò i compagni di classe e i suoi genitori, erano sotto l’effetto del Prozac, notoriamente “pillola della felicità”, tra i più noti della nutrita compagnia degli SSRI. A Omaha, in Nebraska, Robert Hawkins che uccise con un fucile d’assalto otto persone prima di suicidarsi, aveva una storia personale puntellata da trattamenti psichiatrici per depressione e ADHD, controversa sindrome da deficit d’attenzione e iperattività; anch’egli, nel momento della sparatoria, era sotto Prozac. Così Jeff Weise, l’omicida della Red Lake High School, l’Unabomber, Ted Kaczinski, John Hinckley Jr, Byran Uvesugi, Mark David Chapman, Charles Carl Roberts, l’assassino della scuola Amish e Steven Kazmierczak, tutti erano sotto effetto di farmaci psichiatrici di nuova generazione o SSRI.
Ci si chiede se anche il maggiore Nidal Malik Hassan sia stato vittima di un processo perverso in cui gli affari dell’industria farmaceutica s’intrecciano con quelli dell’apparato militare, con l’incompetenza, l’analfabetismo di chi l’ha deciso. Lo psichiatra che spara all’impazzata contro chi doveva curare è la perfetta metafora che si ha oggi della psichiatria e della sua rete depressiva.