di Luca Mazzucato

La macchina più potente e precisa mai costruita è stata accesa. Dopo le fuoriuscite di liquido di raffreddamento ed i bombardamenti di baguette da parte di uccelli francesi sabotatori, finalmente i primi dati raccolti dal Large Hadron Collider sono stati pubblicati, confermando che tutto funziona alla perfezione. Ne parliamo con Marco Zanetti, ricercatore del MIT di Boston, che fa parte della collaborazione CMS ad LHC.

Tutti i fisici del pianeta stanno col fiato sospeso, pregustando l'enorme mole di dati che presto inonderà la comunità e svelerà i segreti dell'universo. Ci sono avvisaglie di nuova fisica in questo primo ciclo di collisioni?

La speranza che tutti riponiamo in LHC è quella e di avere evidenza di fenomeni non inquadrati Modello Standard delle particelle elementari. Le prime collisioni tra fasci di protoni non hanno avuto come scopo quello di scoprire nuove particelle, ma capire con precisione il funzionamento della macchina. LHC in dicembre 2009 ha prodotto solo una manciata di eventi ad energia non molto alta, che sono stati molto utili per confrontare le vaste simulazioni al computer con i dati reali. In questo modo abbiamo calibrato le simulazioni Monte Carlo per la parte di interazioni nucleari forti che sono molto difficili da trattare: le interazioni tra i quark e i gluoni prodotti nelle collisioni, che formano dei complicati “jet” di particelle e si depositano nei rivelatori. In questo modo abbiamo testato il funzionamento dei rivelatori.

Quando sono previste le prime collisioni ad energie utili per vedere nuova fisica?

Il piano di battaglia è il seguente. Faremo andare la macchina per 18-22 mesi nel corso di questo e del prossimo anno, ad un energia massima di 7 Teraelettronvolt (TeV) nel centro di massa, che è circa metà della potenza che avrà LHC a pieno regime ma comunque superiore di tre volte e mezzo al record mondiale detenuto attualmente dal Tevatron di Chicago. Alla fine di questo periodo, raggiungeremo una statistica di eventi con la quale contiamo di migliorare i risultati ottenuti dagli esperimenti del Tevatron in termini di comprensione dei limiti del Modello Standard. Per raggiungere le prestazioni di progetto di LHC (14 TeV e 40 milioni di eventi prodotti al secondo) si dovrà aspettare qualche anno, il tempo necessario per consolidare i circuiti superconduttori della macchina. Una volta a regime, l'energia sarà tale per cui se c'è qualcosa di nuovo là fuori, lo scopriremo.

Parliamo di CMS, l'esperimento al quale tu lavori.

Il Compact Muon Solenoid (CMS) è uno dei due esperimenti dedicati a studiare ogni aspetto degli eventi prodotti da LHC (l'altro esperimento si chiama ATLAS). È una sorta di macchina fotografica ad altissima precisione che consente a noi fisici di vedere i prodotti delle collisioni tra i fasci di protoni che girano nell'acceleratore. Analizzando le proprietà delle particelle prodotte si riesce poi a ricostruire la fisica che governa le interazioni fondamentali, che si manifestano nel luogo dell'urto. CMS è dotato del più grande magnete superconduttore mai costruito al mondo: produce un campo magnetico omogeneo di 4 Tesla (circa 100.000 volte quello terrestre) immagazzinando un'energia equivalente a quella necessaria per fondere diciotto tonnellate di oro. Il magnete solenoide è circondato da un giogo di ferro che determina dimensioni (15 m di altezza per 20 m di lunghezza) e peso (12500 tonnellate, circa tre volte la torre Eiffel) dell’esperimento. Il cuore dell’esperimento è il “tracciatore” posto al centro del solenoide composto da 250 metri quadri di rivelatori al silicio che servono a ricostruire la traiettoria delle particelle cariche, prodotte nelle collisioni, con una precisione di circa 10 millesimi di millimetro. In aggiunta a questo, CMS dispone di altri rivelatori, ciascuno dedicato alla misura di una particolare classe di particelle, ossia fotoni ed elettroni (calorimetro elettromagnetico), adroni (calorimetro adronico) e muoni (camere a muoni). I circa ottanta milioni di canali di lettura producono ogni secondo una quantita’ di informazione pari a diecimila enciclopedie (cinquecento Gigabits al secondo). Tali informazioni vengono distribuite nei centri di ricerca di tutto il mondo tramite la tecnologia GRID.
  
La scorsa settimana è stato pubblicato sul Journal of High Energy Physics il primo articolo della collaborazione di CMS. Di cosa si tratta?

I risultati pubblicati non riguardano nuove scoperte, ma il funzionamento della macchina. Sono risultati molto incoraggianti dal punto di vista sperimentale, che confermano la nostra piena comprensione di come il gigantesco rivelatore funziona. Abbiamo prodotto particelle a più di due Teraelettronvolt, l'energia più elevata mai raggiunta finora. C'è un accordo spettacolare tra i dati raccolti dal rivelatore e le simulazioni al computer del suo funzionamento, su cui abbiamo basato l'analisi dei dati. Capire nei minimi dettagli come funziona la macchina è il requisito necessario per studiare la nuova fisica, data la complessità degli eventi di collisione di particelle che dovremo studiare.

Attorno all'acceleratore sono stati costruiti due rivelatori gemelli, ATLAS e CMS. Perché sono necessarie due copie dello stesso esperimento e quanto costano?

Il costo dei rivelatori è di circa un miliardo di euro ciascuno. Le due collaborazioni che hanno portato alla costruzione di ATLAS e CMS coinvolgono migliaia di persone: sono circa tremilaseicento per CMS. I due esperimenti sono in un certo senso concorrenti, sono stati progettati e costruiti in maniera del tutto indipendente. Lo scopo è di avere una ridondanza delle misure. In pochi infatti si fiderebbero, se un solo esperimento annunciasse la scoperta del bosone di Higgs, come accadde nel precedente esperimento ALEPH, ai tempi dell'acceleratore LEP (nello stesso tunnel dove ora c'è LHC). Che poi si rivelò una bufala. Se entrambi gli esperimenti osserveranno la stessa nuova particella, si tratterà di due conferme indipendenti.

di Mario Braconi

"Oltre che di ossigeno e di anidride carbonica, gli esseri umani sono fatti di storie: raccontarle e desiderarle sono elementi imprescindibili della nostra vita. Oggi, però, la questione è “dove” raccontare e “come” trasformarle in denaro sonante senza rischiare di imbastardirle". Con questa frase si conclude il pezzo che qualche giorno fa Paige Williams, giornalista freelance per diverse testate americane, ha scritto per l'edizione americana di Wired.

Anche se non occorreva l'articolo della Williams per spiegare che avere un buon progetto non significa automaticamente trovare qualcuno disposto a crederci (leggi: metterci sopra i suoi soldi) esso dimostra che "un altro tipo di giornalismo è possibile". In effetti, quella che Paige Williams aveva tra le mani era una “storia” formidabile e molto appropriata in tempi schiavi dell'economia e del consumo come i nostri: quella di Dolly Freed (uno pseudonimo), educatore ambientale in Texas. Chi la va a trovare oggi per farsi consigliare, che so, su come installare una serra nel proprio giardino, conosce il suo vero nome e quindi non saprà mai che la signora robusta e brizzolata che ha davanti trenta anni prima è stata un'autrice di successo.

Dolly, a soli 17 anni, pubblicò quello che nei Paesi anglosassoni è divenuto in breve tempo un vero classico “alternativo”: "Vivere come un opossum - vivere bene senza un lavoro e (quasi) senza denaro". In "Possum Living" la Freed raccontava la sua vita accanto al padre Frank (la madre e il fratello costituivano una famiglia separata), un uomo deciso a non venire a compromessi con gli aspetti della società americana che non condivideva: la sostanziale obbligatorietà del lavoro, il denaro, il commercio.

Racconta Paige Williams sul suo sito che, quando Dolly scrisse il suo libro, "l'economia era in recessione, Dolly e Frank erano abbastanza felici di non avere lavoro; loro, infatti, avevano rifiutato l'economia basata sul denaro, tenendosi lontani dalla vita comoda e da quell'atteggiamento competitivo basato sull'acquisto, che rendevano infelici tanti loro connazionali”. Williams cita Freed: "Possiamo ottenere le cose buone della vita in modo talmente facile che sembra assurdo cercare un qualche lavoro stupido, senza senso e frustrante per procurarsi denaro per comprarle. [...] Gli altri chiamano questo “farsi una posizione”, io invece lo chiamo schiavitù. [...] Non viviamo in questo modo per ragioni ideologiche, come qualcuno sembra credere; […] solo perché ci sembra più semplice imparare a fare a meno di alcune delle cose che possono essere acquistate con il denaro che sbattersi per guadagnare i soldi necessari a comprarle.”

Ma Dolly non è solo l'autrice capace di far convivere in armonia nello stesso testo "la ricetta per le polpettine di pesce e citazioni da Diogene, Napoleone, Darwin, Wagner, Demostene, e l'Ecclesiaste”; e sbaglierebbe di grosso chi la considerasse “una specie di hippie, una sgobbona fissata con la natura, la soia e lo yogurt”. Abbandonato il padre (ormai nella fase discendente della parabola che lo trasformò da genio rurale in alcolista violento), divenne ingegnere aerospaziale, lavorando alla NASA per moltissimi anni. Salvo poi mollare tutto e mettere su casa in Texas con marito, un collega dell'Agenzia Spaziale, e ai due figli. Quando Paige Williams è andata a trovarla, Dolly le ha confessato che attualmente il suo regime è "semi-opossum", il che vale a dire che almeno qualche oggetto la simpatica signora lo ha acquistato anziché produrlo in casa.

Seguendo la tassonomia proposta da una scuola di giornalismo, il progetto della Williams sulla Freed potrebbe essere definito un pezzo di "giornalismo narrativo", un genere in crisi per l’ovvia ragione che il lettore medio ha pochissimo tempo disponibile per gli (eventuali) approfondimenti e che comunque viene bombardato da decine di notizie superficiali pronte da consumare.

Per la verità, il New York Times aveva acquistato la storia con l’idea di pubblicarla nella sua corposa edizione domenicale, salvo poi rifiutarne la pubblicazione quando Paige si è impuntata a non voler rivelare l’identità della signora che si nasconde dietro lo pseudonimo di Dolly Freed. La giornalista non si è scoraggiata, anzi: ha assunto un web designer e messo su un sito personale su cui ha pubblicato, oltre ad altri suoi articoli, anche il pezzo sulla Freed. La vera novità è che sul sito ha aggiunto un box attraverso cui i lettori che lo vogliono possono remunerare il lavoro della Williams e del suo piccolo staff con una libera donazione online.

La Williams ha definito questo modello "giornalismo Radiohead", dall'omonimo gruppo rock britannico che ad ottobre del 2007 pubblicò "In Rainbows" bypassando le etichette discografiche e rendendolo disponibile sul sito internet della band: chiunque lo desiderasse poteva scaricare l'album lasciando la propria e-mail e pagando una somma a piacere, senza alcun obbligo (volendo, si poteva legalmente scaricare il disco gratis); risultato, incassi iniziali stimati tra i 6 e i 10 milioni di dollari.

La Williams certamente non ambisce ad arricchirsi, le basta recuperare i circa 2.000 dollari spesi per realizzare il pezzo e metterlo online (viaggi, interviste, foto, web hosting, eccetera); cosa che le è praticamente riuscita, dato che al 14 febbraio ben 160 persone avevano effettuato donazioni sul suo sito, consentendole di raggranellare circa 1.500 dollari. L'esperimento di giornalismo "indie" (indipendente) della Williams è una dimostrazione di come un buon lavoro di ricerca e di scrittura, unito ad una certa scaltrezza commerciale e corroborato dalla potenza virale dei social network (Twitter ha pompato gli accessi al suo sito internet) possa fare miracoli; troppo poco, forse, per fare della Williams il prototipo di un nuovo modello di giornalismo.

Una cosa è certa: se da un lato firmare pezzi per una testata autorevole conferisce credibilità, quando si esplorano le possibilità di quella giungla che chiamiamo Rete in solitaria, bisogna conquistarsi la fiducia dei lettori con standard giornalistici "inviolabili. La storia e il modo in cui la si racconta sono importanti - chiosa la Williams - ma altrettanto importante sono la personalità del giornalista e il fatto che abbia o meno costruito la narrazione su una solida base di informazioni verificate e di integrità.

In effetti, il prestigio di una testata, che normalmente conferisce autorevolezza, talora può funzionare da passepartout per contrabbandare al pubblico le menzogne e i plagi di un numero ridotto, ma pernicioso, di personaggi privi di scrupoli: si pensi al caso di Jayson Blair, ex "star" del NYT rivelatosi un vero e proprio criminale della carta stampata, o a quello, recentissimo, di Zachery Kouwe, giornalista economico del quotidiano newyorkese costretto alle dimissioni dopo essere stato pizzicato a copiare di sana pianta (senza citarli) articoli del WSJ e della Reuters.

di Emanuela Pessina

La notizia è ufficiale: dopo 75 anni di glorioso matrimonio, la Emi Ltd è costretta a separarsi dagli studi discografici di Abbey Road per raccogliere soldi. I debiti sono altissimi e la società non riesce a far fronte alla situazione. Certo, di questi tempi la notizia potrebbe non sorprendere più di tanto: la recente crisi economica ha abituato a parole come insolvenza, bancarotta e cassa integrazione e ormai nulla sconvolge più, anche quando si parla di case discografiche multinazionali con un giro d'affari immenso come la EMI. Ma il significato artistico di Abbey Road è grandissimo e la sua vendita rischia di acquistare un significato quasi simbolico. Per i grandi appassionati di musica, quasi una cesura con il passato.

Gli Abbey Road Studios sono considerati all'unanimità gli studi discografici più famosi al mondo. Acquistati dalla EMI nel 1929 queste stanze hanno visto la registrazione del primo pezzo rock & roll della storia della musica inglese, "Move it" di Cliff Richards, risalente al 1958; da non dimenticare, tuttavia, i numerosi artisti che ci sono passati ancor prima della nascita del rock inglese, personaggi del calibro di Fred Astaire e Glenn Miller. Ma la consacrazione vera e propria degli studios targati NW8 - dal codice postale dell'aristocratico quartiere londinese di St John's Wood, in cui si trovano - arriva nel 1962, quando i Beatles vi registrano il loro primo successo, Love me do. In queste stanze, i Fab Four hanno registrato il 90% dei loro LP: fino alla pubblicazione dell'LP Abbey Road, nel 1969, che ha strappato la Abbey Road alla storia per consegnarla alla leggenda.

Nel 1969, il fotografo Iain Mcmillian ha ritratto i Beatles sulle strisce pedonali che si trovano appena fuori lo studio. Una foto quasi per caso: tutti in fila, i ragazzi di Liverpool  attraversano la strada sulle striscie pedonali con fare deciso, John Lennon in testa con la sua capigliatura leonina, Paul Mc Cartney a piedi nudi in giacca e cravatta, gli altri vestiti secondo i canoni degli anni 60. La foto è diventata la copertina dell'omonimo album Abbey Road, trasformando la via londinese in una meta di pellegrinaggio per i milioni di appassionati della musica rock.

Ma i tempi sono cambiati e la gloria della major EMI non è più quella dei tempi della leggenda di Abbey Road. Tre anni fa, la EMI Ltd. è stata comprata dal gruppo di private equity Terra Firma Capital Partners Ltd. per 4,8 miliardi di euro. La somma pagata, tuttavia, non è risultata adeguata alle aspettative, tanto che ora Terra Firma ha citato in causa la Citigroup con l'accusa di aver gonfiato il prezzo di vendita. A dicembre, la Emi Group accusava una perdita di 2,8 miliardi di sterline e Terra Firma sta ora tentando l'impossibile per salvarla: dopo aver cercato di recuperare nuovi investitori, ora è il momento deilla vendita dei cimeli di famiglia.

Che le maggiori etichette discografiche stiano vivendo oggi una situazione di profonda crisi e trasformazione non è un mistero: per le “grandi” della musica, il problema è la capillare evoluzione del web 2.0. Se dagli anni '40 agli '80 le major costituivano l'unica via al successo per gli artisti, oggigiorno chiunque ha la possibilitá di diventare famoso grazie alla politica di youtube &co. Il ruolo delle etichette è diventato quasi superfluo e la “dittatura” degli anni passati è finita per lasciare spazio all'era del 'broadcast yourself': il digitale (con la masterizzazione selvaggia dei cd) e la facilità di accesso a internet hanno sconvolto l'assetto elitario della musica, favorendo il proporsi del singolo artista e delle etichette indipendenti.

Certo, sentire che lo studio di Abbey Road, una pietra miliare nella storia del rock che ha avuto l'onore di ospitare, dopo i Beatles, musicisti del calibro di Pink Floyd, Queen, Simple Mind, Sting, Muse, U2 e  Radiohead, può lasciare un sapore amaro in bocca. Soprattutto in considerazione della melancolica foto che sta sulla copertina di Abbey Road, che fa pensare a magici anni lontani ormai scomparsi. Ma i tempi cambiano e, con i tempi, le esigenze. Anche l'impero romano, con le sue meraviglie, sarebbe oggi totalmente fuoriluogo. Che ci piaccia o meno, gli imperatori hanno dovuto cedere il passo alla meno spettacolare democrazia.

 

di Mario Braconi

Quando, il 24 novembre del 1994, Charlene Hsu Chi-Ying morì per una particolare forma di anoressia in una strada di Hong Kong, i giornali locali identificarono il disturbo alimentare che l'aveva uccisa con le forme patologiche normalmente diagnosticate nei Paesi Occidentali. I cronisti consultarono un manuale di sintomatologia psichiatrica americano e, una volta trovata una sintomatologia simile a quella di cui Charlene era rimasta vittima, gliela attribuirono.

Questa sciatteria ebbe due conseguenze indirette: inanzitutto privò di ogni utilità scientifica il lavoro fino ad allora svolto dal ricercatore Sing Lee della Chinese University di Hong Kong, il quale stava indagando su una forma di anoressia nervosa endemica caratterizzata dall’assenza nei pazienti della fobia per il grasso (tipica invece delle forme diffuse in Occidente). Inoltre, l'introduzione ad Hong Kong del concetto di anoressia “all'occidentale” fece in modo che la "nuova" malattia si diffondesse in modo incontrollato; Lee racconta infatti che nel 2007 il 90% degli anoressici in cura presso di lui lamentavano della fobia per il grasso.

Il caso dell’anoressia cinese viene citato dal Ethan Watters, giornalista freelance (New York Times e Wired USA) e scrittore nel suo ultimo libro "Crazy like Us" ("Pazzi come noi") quale esempio di una globalizzazione che ormai non si limita al solo commercio dei beni e servizi, ma finisce per avere implicazioni molto più gravi e impreviste. Uno specialista occidentale tenderà normalmente a ricondurre i sintomi che riscontra in un paziente alla casistica del DSM IV, il manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali, compilato da psicologi e psichiatri occidentali. La diffusa convinzione di essere i depositari della verità ultima, l'arroganza e il generico disprezzo per culture diverse, ha spinto gli occidentali ad esportare questa metodologia anche in paesi caratterizzati da culture totalmente diverse ed incompatibili con la nostra, con esiti imprevedibili.

Alla base di questa ennesima declinazione di egemonia culturale americana (poco nota ma non per questo meno pericolosa) sta la convinzione che "i disturbi mentali descritti nelle 844 pagine del manuale dedicate a quelli non sociali, siano malattie relativamente impermeabili alle differenze culturali tra paese e paese." Quello che gli psichiatri americani ed europei sembrano non comprendere è che tutte le malattie mentali, invece - incluse depressione, disturbi da stress post traumatico e perfino la schizofrenia - sono influenzate da credenze ed aspettative di tipo culturale". Ciò non significa che le sofferenze di questi malati non siano autentiche o che i pazienti costruiscano i loro sintomi al fine di riconoscersi in una determinata nicchia patologica. [...]. Ma piuttosto che “la malattia mentale [...] non può essere compresa senza capire anche le idee, le abitudini e le predisposizioni - le trappole culturali idiosincratiche - della mente che la ospita".

Del resto, spiega Watters in un breve saggio sul New York Times, la psichiatria occidentale ha fallito il suo obiettivo di convincere la gente a considerare la malattia mentale alla stregua di un qualsiasi disturbo di tipo fisico. Questa battaglia di civiltà finalizzata a risparmiare al paziente la vergogna e lo stigma sociale in passato associato alla sua condizione, come dimostrano quattro studi condotti in Paesi molto diversi (USA, Germania, Turchia, Russia, Mongolia), é stata persa. Già nel 1997, una ricerca di Sheila Mehta, dell'Università di Montgomery (Alabama), concluse che quando una persona dichiara pubblicamente di essere affetta da una malattia mentale, viene trattata dai "sani di mente" in modo mediamente più aggressivo quando afferma che tale disturbo è dovuto ad un problema congenito o ad una alterazione dell'equilibrio chimico del cervello, piuttosto che quando sostiene che la patologia è stata provocata da un elemento esogeno (ad esempio un trauma). Le persone oggetto dell'esperimento, infatti, sembravano convinte che un cervello reso infermo da cause naturali sia "danneggiato in modo assai più grave ed irreversibile dalle patologie con cause naturali che dagli eventi della vita".

I limiti dei protocolli di cura occidentali sono ben documentati dai risultati di uno studio realizzato dalla OMS negli anni Settanta e che si è concluso trenta anni più tardi: secondo lo studio, i malati di schizofrenia che vivevano in paesi diversi dagli USA o dall'Europa manifestavano una tendenza alle ricadute inferiore di due terzi rispetto agli altri. Per mettere alla prova questa scoperta, l'antropologa americana Juli McGruder ha passato un anno intero a studiare gli schizofrenici e le loro famiglie nel Madascar. In quel Paese la schizofrenia è vista come un effetto dell'influenza di certi spiriti maligni; gli usi locali prevedono che essi vengano affrontati e sconfitti non attaccandoli frontalmente a suon di esorcismi (come si farebbe in un contesto cristiano) quanto piuttosto tentando di ingraziarseli con piccoli atti di gentilezza verso la persona "posseduta".

D'altro canto, l'eventuale guarigione lascia marchi sociali meno indelebili di quanto avvenga in Occidente, semplicemente perché la malattia viene considerata come il brutto tiro di una divinità, cosa che "scagiona" completamente la vittima che lo ha subìto. Certo, spiega a McGruder, "queste credenze non hanno alcun effetto curativo sulla schizofrenia", ma in compenso hanno l’indiscutibile pregio di mantenere il malato all'interno della sua cerchia familiare senza emarginarlo, garantendo nel contempo una calma ed un senso di accettazione del male da noi del tutto sconosciute. Per gli Stati Uniti questa considerazione vale in modo particolare: in un un Paese in cui si professa una fede cieca nella capacità dell'individuo ad essere (o divenire) l'artefice ultimo del suo destino, una devastante malattia mentale non può che rappresentare un elemento di discontinuità irriconciliabile, uno scandalo.

La globalizzazione delle terapie psicologiche, insomma, rischia di diventare un grosso guaio per i "globalizzati": come nota Derek Summerfield dell'Institute of Psychiatry di Londra, il “discorso” sulla salute mentale occidentale contiene al suo interno elementi sostanziali della nostra cultura, inclusi una teoria della natura umana, una definizione di ciò che chiamiamo “persona”, un senso del tempo e della memoria ed una fonte di autorità morale. Niente di tutto ciò, però, è “universale." E in fondo, conclude Watters, non è detto che l'Occidente non stia spendendo miliardi di dollari per sconfiggere la  "malattia mentale" solo perché ha perso fiducia nei sistemi di fede che la contestualizzavano e le davano un "senso”. A prescindere da altre considerazioni morali e culturali, esportare un sistema di credenze basato sulla perdita di significato, non sembra la più brillante e produttiva delle idee.

 

di Alessandro Iacuelli

Di regola, certe operazioni di politica globale dovrebbero farle gli Stati, o le confederazioni e unioni di Stati. Ma, di fronte ad un colosso dell'economia come la Cina, gli stati occidentali chinano la testa, vuoi perché la Cina detiene il loro debito pubblico, vuoi per evitare un aggravarsi della crisi economica in cui versa attualmente il modello capitalista. Così, succede che di fronte alla sistematica violazione dei diritti umani dei suoi cittadini, a prendere posizione contro Pechino non sia l'ONU, o gli USA, o l'UE, ma un'azienda privata. Anzi, un colosso dell'industria informatica moderna: Google.

La società di Mountain View sostiene di avere le prove di svariati tentativi di violazione del suo sistema Gmail e di analoghi gesti ai danni di attivisti di movimenti a difesa dei diritti umani. Tutti casi di tentativi che, secondo i dirigenti di Google, sono caratterizzati da una chiara e inequivocabile matrice cinese. Governativa. E la presa di posizione dell'azienda americana è talmente forte da essere, per la prima volta nel mondo, un ultimatum al governo cinese: Pechino non applicherà alcun filtro censorio, così come fatto finora, altrimenti Google lascerà del tutto il mercato cinese, nonostante sia uno di quelli in più rapida e significativa espansione.

"Abbiamo deciso", dichiarano sul blog ufficiale di Google, "che non abbiamo più intenzione di continuare a censurare i nostri risultati su Google.cn, per questo nelle prossime settimane incontreremo il Governo cinese per discutere le basi sulle quali potremo gestire un motore di ricerca senza filtri, nel rispetto delle leggi vigenti nel Paese. E siamo pienamente consapevoli che questo potrebbe portare alla chiusura di Google.cn e dei nostri uffici in Cina."

Immediate le reazioni, sia da parte degli utenti cinesi, sia a livello internazionale, a cominciare dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che ha avanzato richieste di spiegazioni direttamente al Governo Cinese. In Cina c'è chi trova incomprensibile l'ipotesi prospettata da Google, sottolineando che l'uscita dal Paese, di fatto, è una ulteriore e ancor più drastica forma di censura. E c'è anche chi non accetta le accuse al proprio Paese o, ancora, chi trova economicamente ingiustificabile che una multinazionale possa volontariamente tagliarsi fuori da un mercato con possibilità di crescita illimitate. Molti, però, hanno salutato con favore l’ipotesi. Gli analisti economici, a livello internazionale, esprimono più di un dubbio sull’opportunità di escludersi da un mercato che sta al momento crescendo del 40% all'anno. Una tal scelta potrebbe avere degli effetti limitati sull'immediato, ma sul lungo periodo potrebbe rivelarsi disastrosa.

Probabilmente, la cosa migliore da fare, al momento, è prendere con le dovute cautele un annuncio che sembra una presa di posizione, prima che una decisione già presa. Infatti, sul piatto della bilancia ci sono due questioni che stanno molto a cuore a Google: da un lato il ritorno d’immagine negli Usa, acconsentendo alle rigide richieste della censura cinese; dall'altro l’effetto boomerang sulla reputazione dei propri servizi presso gli utenti, che in Cina hanno sistematicamente ben poca sicurezza e privacy.

In occasione del suo ingresso sul mercato cinese, nel gennaio 2006, Google aveva scatenato una protesta nella comunità internazionale. Il motore fu costretto a rispettare le leggi in vigore in Cina e dunque censurare i risultati contrari alla politica locale. Lo scorso giugno, Pechino aveva negato per alcune ore l'accesso a Google e Gmail per costringere il motore di ricerca ad eliminare alcune parole chiave dal suo sistema di ricerca automatica. Oggi, sottraendosi alle leggi cinesi, Google di fatto rompe il patto di neutralità politica rispettato fino ad oggi, con pesanti conseguenze nei prossimi mesi: il braccio di ferro è appena all'inizio.

La risposta cinese è naturalmente politica: "La Cina è favorevole alle attività sul suo territorio delle società Internet internazionali che siano conformi alla legge cinese", é la dichiarazione ufficiale del Governo di Pechino, rilasciata dalla portavoce del ministero degli Affari esteri, Jiang Yu, che prosegue dicendo: "Internet in Cina è aperto e il Governo cinese ne incoraggia lo sviluppo e si sforza di creare un contesto che sia favorevole a ciò".

Sul piano economico, gli esperti del settore ritengono probabile che Google e il Governo cinese possano trovare un compromesso. Già in passato il gruppo californiano ha assunto posizioni drastiche, ma solo come tattica nella trattativa. "Sono sicuro che saranno pragmatici. Google è una società molto dinamica. Dubito che se ne andranno dalla Cina. La presenza nel Paese è cruciale, perché è lì che ci sarà la prossima ondata di crescita", rileva Christopher Tang, professore della Ucla Anderson School of Management. Non bisogna dimenticare infatti che la Cina da sola ha circa 360 milioni di utenti Internet e il suo mercato dei motori di ricerca ha toccato un miliardo di dollari lo scorso anno. Il Governo cinese tuttavia pone stretti limiti all'accesso dei cittadini al Web, operando una censura automatica sui siti sgraditi.

Non è stata solo la portavoce del governo a prendere posizione sulla vicenda. Anche il ministro dell'Ufficio informazioni del Consiglio di Stato, Wang Chen, ha detto che pornografia online, frodi e "rumours", le cosiddette "voci", termine con cui i dirigenti cinesi indicano il dissenso in rete, rappresentano una minaccia. E ha aggiunto che i media su Internet devono contribuire a "guidare l'opinione pubblica" in Cina, brutta espressione con la quale ha voluto ricordare tra le righe che, contando il maggior numero al mondo di utenti, è un mercato importantissimo per gli operatori internazionali, a condizione che accettino la censura imposta dal governo.

Nelle sue dichiarazioni Wang non ha mai citato espressamente Google. Ma sono parole che pesano, soprattutto la pretesa di "guidare l'opinione pubblica", che si scontra con uno dei caposaldi della democrazia, ovvero la libertà di opinione. Difficile dunque immaginare un'intesa attorno ad un qualsivoglia compromesso. A Washington, Barack Obama ha fatto sapere, proprio in concomitanza con il braccio di ferro avviato da Mountain View, che lui e la sua amministrazione sono "convinti sostenitori della libertà per internet".

Sempre negli USA, il New York Times cita "fonti vicine all'indagine" condotta da Google, e spiega che gli attacchi oggetto della presa di posizione sono stati condotti contro 34 compagnie o entità che si trovano nella Silicon Valley, in California, sede dei server di Google usati da molti cinesi che vogliono sfuggire alla censura. Che non colpisce solo i motori di ricerca, ma anche social network e siti di condivisione come Youtube, Facebook e Twitter. Rebecca MacKinnon, esperta di Internet in Cina, afferma che "Google ha subito negli ultimi mesi ripetute prepotenze e rischia di non poter garantire agli utenti la sicurezza delle sue operazioni".

Intanto, Google ha deciso di mettere a disposizione il suo motore senza filtri a tutti gli internauti cinesi. Così, da oggi, in Cina, usando Google, si può vedere la celebre fotografia divenuta simbolo della rivolta degli studenti alle autorità cinesi nel 1989 in piazza Tien an men, fino ad ora censurata. Una vera e propria provocazione. Una risposta politica, a costo di perdere vantaggi economici, che non arriva dall'ONU, ma da un'azienda privata. Anche su questo non c'è da meravigliarsi: mentre gli stati occidentali hanno debiti pubblici sempre più alti, e con quote detenute sempre più spesso proprio dalla Cina (USA in primis), Google è un'azienda con un bilancio solido - certamente più solido di quelli statali - e non ha debiti con nessuno. Neanche con la Cina.

 

 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy