di Mario Braconi

Ad ottobre del 2009, la Federal Communication Commission (FCC) ha stilato la Magna Charta dei diritti dei cittadini americani connessi in Rete: essa si riflette in una serie di obblighi e diritti dei provider di connettività a banda larga: "Compatibilmente con una gestione ragionevole della Rete", ogni provider non può impedire ai suoi clienti l'invio e la ricezione di contenuti legali, l'utilizzo di applicativi e di servizi di sua scelta, e l'accesso mediante qualsiasi dispositivo che non provochi danni. I provider, inoltre, non dovranno impedire o difficoltizzare la libera concorrenza tra fornitori di connettività, di applicazioni, di servizi e di contenuti e sono tenuti a trattare i clienti in maniera non discriminatoria, garantendo tra l'altro la piena trasparenza sulle modalità di gestione della rete ed sulle altre procedure funzionali al mantenimento dei livelli di servizio.

Una "gestione ragionevole della rete" implica la gestione delle problematiche di congestione sul proprio network, il blocco del traffico dannoso e/o indesiderato, del trasferimento illegale di contenuti e del trasferimento di contenuti illegali, nonché una serie imprecisata di altre "ragionevoli pratiche di buona gestione della rete". Come agenzia federale, la FCC è chiamata a stabilire un equilibrio armonioso tra diritti civili dei cittadini e diritto degli operatori ad operare in modo efficiente: un compito quanto mai difficoltoso in un contesto in cui la connettività è ormai quasi un diritto umano, la cui effettiva fruizione è però è mediata da entità che hanno il profitto come unico obiettivo.

Se è legittimo che i provider pretendano la libertà di organizzare i mezzi di produzione nel modo da essi ritenuto più consono al perseguimento dei fini aziendali, la loro possibilità di bloccare contenuti o di regolare la velocità di accesso potrebbe essere sempre usata in modo distorto e/o discriminatorio. Pensiamo ad fondo sovrano saudita con una partecipazione di maggioranza in una società fornitrice di connettività a banda larga, i cui amministratori potrebbero decidere di oscurare o rallentare i siti femministi in lingua araba... Lo potrebbero fare serenamente, invocando motivazioni tecniche.

Finora, in tema di net-neutrality (accesso universale alle medesime condizioni, tema molto caro anche al Presidente Obama) la FCC ha dimostrato di difendere più gli interessi dei cittadini che quelli delle corporation: si pensi al caso che ha coinvolto nel 2008 Comcast, il più grande operatore via cavo americano nonché primo fornitore di connettività internet negli USA, che porta TV via cavo, internet ad alta velocità e telefonia a milioni di clienti in 40 Stati. Poiché Comcast ha ammesso di aver deliberatamente rallentato la velocità di connessione di alcuni clienti che scambiavano file molto pesanti via peer-to-peer, la FCC, a seguito di un'indagine, ha condannato la società a non continuare la pratica di rallentamento del traffico e a comunicare in modo trasparente ai suoi clienti le sue policy di gestione della rete.

Purtroppo, però, Comcast è una corazzata con ottimi agganci nelle stanze del potere e forse nemmeno la FCC ha le spalle abbastanza larghe per poterla attaccare impunemente: infatti, lo scorso 6 aprile i tre giudici della corte d'appello del District of Columbia hanno stabilito che la FCC, quando ha sanzionato la Comcast, ha agito in modo ultroneo rispetto ai suoi effettivi poteri. Il fatto di aver ricevuto una sonora porta in faccia potrebbe spingere la FCC ad utilizzare la sua ultima cartuccia, quella che Craig Moffett, analista presso al Sanford C. Bernstein, definisce sul Washington Post l'"opzione nucleare": ovverosia l'assimilazione giuridica degli operatori via cavo a quelli telefonici, cosa che implicherebbe controlli molto più stringenti.

Un'idea per niente gradita agli operatori, ovviamente, ma che presenta l'obiettivo difetto di sottoporre gli operatori internet ad una regolamentazione concepita in piena era analogica e di monopolio telefonico. La questione sarebbe risolta in un secondo se si facesse della infrastruttura su cui viaggia internet una public utility: idea teoricamente ineccepibile, se non fosse per quei trenta miliardi l'anno di costi, attualmente nei stati patrimoniali delle società di broadband e telefoniche, e di cui il Governo degli Stati Uniti non sembra proprio così ansioso di farsi carico.

E in Europa? L'atteggiamento della FCC, almeno inizialmente, ha rappresentato un modello per i burocrati di Bruxelles: nel memo 09/491 del 5 novembre 2009 si legge, tra l'altro, che "tutte le misure intraprese dagli Stati Membri in merito all'accesso o all'uso di servizi o applicativi attraverso i network telefonici deve rispettare i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini, così come garantiti dalla Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e le Libertà Fondamentali ed in generale i principi della legge europea." Tuttavia, a soli quattro mesi di distanza, sembra che l'atteggiamento dell'Unione Europea sia mutato.

Lo si comprende leggendo il discorso che Neelie Kroes, Vicepresidente della Commissione Europea e Commissario per l'Agenda Digitale ha tenuto lo scorso 13 aprile alla conferenza della ARCEP (Autorité de Régulation des Communications Electroniques et des Postes) di Parigi: "[...] ognuno degli operatori telefonici che ho incontrato mi ha sottoposto la medesima questione: ognuno di loro vorrebbe far pagare una sorta di 'affitto' ai produttori di contenuti quando questi usino la loro rete in modo intensivo. E vorrebbero poter fornire ai loro clienti livelli di servizio differenziati - cosa che vediamo già in diversi altri contesti come il trasporto aereo e ferroviario."

Dopo l'enunciazione di alcuni concetti abbastanza scontati (libertà di espressione, trasparenza degli operatori, importanza degli investimenti in tecnologia, libera concorrenza e sostegno all'innovazione) Kroes spiega: mentre da un lato e dall'altro dell'Oceano non vi sono dubbi sul fatto che i consumatori abbiano diritto alle tre "A" (Accesso ai contenuti desiderati, Applicazioni, Apparecchiature) nonché ad un adeguato livello di trasparenza sul modus operandi del provider, in Europa si registra un certo scetticismo sul concetto di non-discriminazione, sostenuto invece dalla FCC. Infatti, “secondo alcune interpretazioni, esso impedirebbe ai provider di pretendere un incremento delle tariffe da quei fornitori di contenuti che realizzano servizi ad alto assorbimento di banda e che richiedono un livello di servizio minimo per consentire una trasmissione efficace."

Tradotto in parole semplici, internet potrebbe diventerebbe sempre più un'autostrada in cui chi paga soldi sonanti può andare a 300 chilometri all'ora, mentre gli altri dovranno accontentarsi di marciare (o marcire?) a 40 chilometri orari. Il nuovo quadro normativo europeo prevede che benché "le Autorità Nazionali, previa consultazione con la Commissione, abbiano la possibilità di stabilire livelli minimi di servizio", non sono obbligate a farlo, se non quando si verifichino problemi, ovvero, quando "le tecniche di gestione del traffico e la possibile segmentazione dei livelli di priorità producano un degrado del contenuto e dei servizi offerti da attori non commerciali o da nuovi entranti sul mercato".

Insomma, le Autorità interverranno solo quando il danno si sarà già prodotto e sempre che gli ordinamenti nazionali consentano ai cittadini di far sentire la propria voce (difficile dove non esista una class action degna di questo nome). Sembra proprio che, ad esser generosi, l'Unione Europea abbia ormai abbandonato la fiera posizione pro-consumatori che la contraddistingueva fino a poco fa, ritenendo i problemi degli provider almeno altrettanto meritevoli di attenzione.

di Mario Braconi

Per combattere i pregiudizi legati all'appartenenza ad una razza, è necessario capire in base a quali meccanismi si formino: un contributo importante in questo senso viene da Andreia Santos dell'Università di Heidelberg, che, attraverso uno studio recentemente pubblicato, ha dimostrato l'esistenza di una relazione causa effetto tra paura sociale e razzismo. Per fare questo, gli studiosi del suo gruppo hanno individuato una categoria di persone "immuni" dalla normale diffidenza verso gli estranei tipica delle persone "normali".

Le persone affette dalla sindrome di Williams, un'anomalia genetica caratterizzata dall'assenza di una trentina di geni dal braccio lungo del cromosoma 7, facevano esattamente al caso loro: infatti, oltre a presentare delle fattezze fisiche particolari (fronte spaziosa, denti spaziati, mento piccolo, occhi allungati) e a soffrire di problemi vascolari più o meno gravi (il gene mancante, infatti, ha un ruolo anche nel mantenimento della robustezza e dell'elasticità delle pareti dei vasi sanguigni), hanno difficoltà ad inibire la loro tendenza alla interazione sociale.

Il difettoso funzionamento dell'amidgala e del sistema della visione specializzato nel riconoscimento facciale (la fusiform face area o FFA) e l'insufficiente interazione tra l'uno e l'altra, fa in modo che le persone con la sindrome di Williams dimostrino un'apertura ed una socievolezza fuori dal comune.

Ai 20 bambini di età compresa tra i 7 e i 16 anni con la sindrome di Williams, così come al gruppo di controllo (20 bambini normali), è stato somministrato il PRAM II (Preschool Racial Attitude Measure II), un test disegnato per determinare la presenza di preconcetti connessi alla razza o al genere nei bambini: i ricercatori leggono delle brevi storie i cui protagonisti vengono descritti con aggettivi positivi o negativi e chiedono ai bimbi di identificare il personaggio "buono" e quello "cattivo" su un libriccino in cui, ad ogni pagina, vengono rappresentate due persone di sesso e/o di razza diversa.

I bambini senza il danno cromosomico hanno dimostrato un bias (o preconcetto) favorevole ai soggetti di razza bianca nell'83% dei casi, mentre quelli con la sindrome di Williams lo hanno manifestato 63 volte su cento: quest'ultima percentuale viene considerata da Santos talmente prossima al 50% da poter concludere che, nelle persone prive di paura sociale, l'identificazione del "buono" e del "cattivo" avvenga in modo casuale, e comunque non considerando il colore della pelle.

Secondo il team dell'Università di Heidelberg che lo ha ideato, l'esperimento prova l'esistenza di una relazione tra paura sociale e stereotipi di razza, anche se non è chiaro in quale modo essa si sviluppi: è la mancanza di inibizione sociale dei malati di sindrome di Williams ad impedire la formazione degli stereotipi, ovvero, al contrario, è la loro impermeabilità agli stereotipi a renderli tanto socievoli?

Santos esclude che la notevole differenza dei risultati riscontrati nei due gruppi possa essere spiegata da fattori diversi dalla presenza o meno di diffidenza verso gli estranei: il livello di intelligenza e di sviluppo mentale, pure diversificati nel gruppo dei soggetti analizzati, non sembrano avere influenza, né si può sostenere che i bimbi con la sindrome di Williams non siano in grado di valutare le caratteristiche specifiche degli altri in senso assoluto; essi, infatti, hanno dimostrato in ogni caso una inclinazione favorevole alle persone del loro stesso sesso. A questo proposito, è interessante notare, infine, che i bambini malati e quelli sani hanno dimostrato bias legati al sesso del personaggio osservato assai simili: questo significa che la base neurologica della formazione dei pregiudizi sul sesso è diversa quella relativa agli stereotipi di razza.

Va comunque notato che, come ricorda Ed Yong sulla rivista Discover, non siano mancati colleghi critici sulla portata effettiva dell'esperimento della Santos, di cui evidenziano limiti statistici e metodologici. Ad esempio, Alyia Saperstein, dell'Università dell'Oregon, ritiene che assimilare al 50% il 63% di risposte favorevoli al pregiudizio pro-bianchi, effettivamente riscontrato nei malati di sindrome di Williams, può essere anche accettabile quando si analizzano pochi casi, ma teme che, incrementando significativamente il numero dei soggetti analizzati, esso tenda a pesare molto di più: cosa che renderebbe le risposte dei bambini con la sindrome di Williams mediamente molto più simili a quelle degli altri. Secondo Robert Livingston, della Kellogg University, inoltre, per capire il bias razziale, è necessario distinguere con maggiore attenzione tra stereotipi (basati sulle nostre credenze) e pregiudizi (conseguenza delle nostre emozioni e giudizi sugli altri).

Lasciando agli scienziati il compito di validare o smontare i risultati dell'esperimento e di capire se un giorno potremmo finalmente avere un farmaco che guarisca dal razzismo, all'uomo della strada resta un po' di amarezza, apprendendo che il meccanismo ideato dall'evoluzione per difenderci dagli attacchi di potenziali nemici è lo stesso che ci fa ammalare dal morbo ripugnante dell'intolleranza.
 

 

di Alessandro Iacuelli

L'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha deciso di estendere a Google Ireland Limited l'istruttoria per possibile abuso di posizione dominante, avviata nei confronti di Google Italia l'estate scorsa, alle condizioni imposte in Italia agli editori dei siti web nei contratti di intermediazione per la raccolta pubblicitaria online. A renderlo noto è stata la stessa Autorità antitrust in una nota ufficiale. "Sotto indagine", si legge nel comunicato, "le condizioni contrattuali imposte ai siti web per la raccolta pubblicitaria online". L'estensione istruttoria a Google Ireland è determinata dal fatto che la sociètà svolge il ruolo di capogruppo nella raccolta pubblicitaria.

In pratica, per l'Antitrust italiana "le condizioni contrattuali fissate da Google non consentono agli editori di siti web affiliati di conoscere in maniera chiara, dettagliata e verificabile, elementi rilevanti per la determinazione dei corrispettivi loro spettanti". Il documento conclude in maniera abbastanza dura: "Google determinerebbe i corrispettivi degli spazi pubblicitari venduti attraverso la sua rete a sua assoluta discrezione e senza spiegare come vengono calcolati".

Quel che si capisce è che ad essere sotto inchiesta, in particolare, è la rete AdSense, un programma di affiliazione attraverso il quale i proprietari di siti internet possono vendere spazi pubblicitari utilizzando Google come intermediario. In base al contratto standard, si legge nella nota, gli utenti del programma AdSense "ricevono come corrispettivo somme determinate da Google di volta in volta a sua assoluta discrezione. Google non assume alcun obbligo di comunicare come tale quota sia calcolata; i pagamenti sono calcolati esclusivamente sulla base dei registri tenuti da Google; Google può inoltre modificare in qualsiasi momento la struttura di determinazione dei prezzi e/o dei pagamenti a sua esclusiva discrezione".

C'è naturalmente da precisare che queste caratteristiche sono specificate nel contratto standard di Google AdSense, denominato “Termini e Condizioni Generali del programma AdsenseTM Online di Google”, acquisito dagli uffici Antitrust in sede ispettiva. Queste caratteristiche, che i proprietari dei siti web sottoscrivono per poter partecipare al programma AdSense, sono considerata "anomalie nei contratti di affiliazione" dall'Autorità. Nei prossimi mesi il garante cercherà di capire se il network pubblicitario di Google stia violando le regole, italiane e comunitarie, in materia di abuso di posizione dominante.

L'Antitrust conclude che le condizioni contrattuali fissate da Google non consentono agli editori di siti web affiliati di conoscere in maniera chiara, dettagliata e verificabile elementi rilevanti per la determinazione dei corrispettivi loro spettanti: "Ostacolando, ad esempio, la pianificazione dello sviluppo e del miglioramento dei propri siti web, nonché l'apprezzamento della convenienza di eventuali altre offerte provenienti da intermediari concorrenti".

Già nello scorso agosto l'Antitrust aveva aperto l'istruttoria contro Google Italia, estesa successivamente alla casa madre americana, per aver minacciato gli editori che lamentano l'uso improprio delle notizie prelevate dai siti web dal motore di ricerca, di ritorsioni. In particolare, l'oscuramento dei siti da parte del motore di ricerca. Quali editori, ci si potrebbe chiedere. L'attacco a Google è partito dal Gruppo Espresso, da Rcs Quotidiani e dalla Società editrice Il Tempo. L'Antitrus ha fatto le sue verifiche e la conclusione è stata l'apertura di una prima istruttoria nei confronti del colosso americano per la posizione dominante di Google News nel panorama dell'informazione on line. Oggi si tratta di un’estensione al mondo pubblicitario della stessa istruttoria.

Il colosso di Internet risponde, tramite un proprio portavoce: "Benché siamo contrariati a questa decisione, continueremo a collaborare costruttivamente con l'Autorità, nella convinzione che le nostre attività rispettino le normative in vigore sulla competizione nel mercato".

In realtà, quel che sta succedendo è qualcosa di più sottile. Innanzitutto nessuno obbliga gli editori a sottoscrivere il contratto di Google AdSense. Anzi, a dire il vero non sono obbligati neanche ad usare AdSense, e sono liberissimi di rivolgersi ad altri operatori pubblicitari, magari più tradizionali, per ottenere introiti di questo tipo. AdSense ha certamente dei grossi limiti ma, proprio grazie alle sue enormi potenzialità dovute alla capacità di produrre una pubblicità targhetizzata come mai avvenuto prima, attira milioni di euro di pubblicità che viene sottratta proprio ai giornali e ai gruppi editoriali (gli stessi che hanno denunciato Google all'Autority).

L'indagine dell'Antitrust sembra, a prima vista, voler difendere i piccoli siti web, i piccoli utenti "indifesi" che scrivono su blog e siti che, con l'aumentare della targhetizzazione e dell'uso consapevole di Internet degli utenti italiani, iniziano lentamente a non visitare più i soliti pochi siti dei grandi quotidiani, che si vedono così diminuire gli introiti pubblicitari.

In definitiva, l'impressione che salta agli occhi è che si tratti di un tentativo di colpo di mano di una lobby in difficoltà, quella della grande editoria, che cerca con tutti i mezzi di frenare un'innovazione che sfugge alla mentalità italiana, in quanto basata su un modello di business marcatamente anglosassone.

di Giuseppe Zaccagni

Per molte lingue minori è un funerale annunciato. La notizia viene da un gruppo di studio dell’Unesco che in questi anni ha monitorato le diversità linguistiche e culturali del mondo giungendo alla realizzazione di un “Atlante” di quelle lingue sulle quali incombe la minaccia di scomparsa. Ed anche la vecchia Europa segna punti in negativo con circa cinquanta idiomi in via di estinzione.

Ma non c’è solo l’Unesco ad occuparsi di questa situazione etno-culturale. Da Mosca arriva la notizia che l’Istituto di linguistica sta gestendo un progetto per la creazione di una base informativa unica relativa al maggiore numero possibile di lingue. E il filologo Andrej Kibrik - capo del Gruppo di studio russo denominato “Le lingue del mondo” - annuncia che solo negli ultimi decenni la scienza linguistica ha preso coscienza di quanto sia grave il problema delle lingue dei piccoli popoli. Esistono - dice lo studioso - previsioni pessimistiche secondo cui alla fine del XXI secolo il numero delle lingue potrà dimezzarsi. E morendo una lingua significa che ne muoiono i “portatori”.

Kibrik, di conseguenza, lancia l’allarme facendo notare che il problema della scomparsa di lingue non è ancora compreso al livello dovuto dall’umanità e, quindi, non viene risolto a livello statale. Ed anche  la Russia - che registra un altissimo numero di lingue minori - non può vantare successi nel campo della preservazione di antichi idiomi. E’ comunque chiaro che è impossibile costringere in maniera artificiale la gente a parlare una lingua che si vuole dimenticare. Occorre che ci sia la comprensione naturale che una lingua - come pure altri aspetti della cultura - possiede un valore assoluto. Andrei Kibrik sostiene che se i piccoli popoli sono preoccupati per il problema della sopravvivenza momentanea, non è il caso di pensare ad un lusso come la conservazione delle lingue. Solo la crescita del benessere e la propria volontà - dice - sono in grado di fare un miracolo. E una lingua che stava morendo può rianimarsi.

Ma il funerale collettivo di tante altre lingue è un fatto ormai scontato. Prendiamo le tante realtà europee segnate dall’aumento  del numero degli stati membri dell'UE. Con i  recenti allargamenti che hanno portato a 23 le lingue ufficiali, senza contare poi le oltre 60 lingue parlate in alcune regioni e da gruppi specifici. Se a questo si aggiungono i fenomeni di globalizzazione e di migrazione che sempre più frequentemente interessano l'Europa è evidente che la diversità linguistica rappresenta uno dei caratteri distintivi dell'UE.

Gli studiosi del vecchio continente annunciano i funerali di una cinquantina di lingue “europee”. Si parla così della estinzione del “Faroese”, lingua germanica settentrionale parlata da circa 80.000 persone (di cui 48.000 nelle isola Faer Oer, 25.000 in Danimarca e 5.000 in Islanda). In lista d’attesa c’è poi il “Frisian”. E cioè il  “frisone settentrionale” parlato in Germania in alcune parti della Frisia Settentrionale e nelle isole di Sylt, Amrum e Fohr e in alcune isolette vicine, in pochi circondari della terraferma ed anche nell’isola di Helgoland. E qui risulta che su 164.000 abitanti delle zone della Frisia Settentrionale, 10.000 parlano ancora frisone. Esistono nove dialetti del “Frisone” settentrionale, ed alcuni di essi sono a rischio d’estinzione. Nella porzione danese della Frisia settentrionale la lingua è ormai praticamente estinta.

Brutte notizie anche dal fronte del Belgio dove entra in agonia la lingua romanza “Vallone” che oltre ad essere ancora parlata in Vallonia trova spazio in Francia, nella zona denominata «botte de Givet» (nel nord delle Ardenne), oltre a qualche piccolo centro del dipartimento del Nord (Cousolre) e negli Stati Uniti in una piccola regione del Wisconsin. C’è poi il “Romansh”, lingua neolatina, parlata in Svizzera e che ha grandi affinità col ladino e con il friulano. Secondo i dati del censimento svizzero nel 1990 vi erano ancora 66.356 persone che parlavano regolarmente “Romansh”, di cui 39.632 come lingua madre. E nel  2000  soltanto 35.095. E sempre in Svizzera stanno morendo il “Sursilvan”, parlato nella valle del Reno anteriore; il “Sutsilvan”, parlato nei territori del Reno posteriore;  il “Surmiran” nella valle dell'Albula; il “Putér” nell’Alta Engadina e il “Vallader”, parlato nella Val Mustair.

Ora se le previsioni per le lingue minori europee sono tutte in nero anche quelle che riguardano la lontana Russia mostrano zone di turbolenza. E’ il caso - lo segnala il filologo russo Kibrik - della regione siberiana “Khanty-Mansiskij”. Qui, nella tundra,  sta morendo la lingua locale. Era stata “inventata” dai sovietici nel 1930 e sino al 1950 imposta alle popolazioni locali. Funerali collettivi, quindi, in nome di una mondializzazione selvaggia che umilia sempre più particolarità e culture profondamente nazionali.

 

di Liliana Adamo

Sostiene Giulio Carlo Argan che l’operazione di Lichtenstein è precisa come un’analisi di laboratorio, cui l’oggetto è la struttura dell’immagine nei racconti dei comic strips, un mezzo di comunicazione di massa tra i più moltiplicati. Le figure fumettistiche, diffuse in milioni d’esemplari dalla stampa e dai periodici, non pretendono di rappresentare l’arte tout court: comunicano sinteticamente e visivamente un contenuto narrativo.

La struttura risponde a due esigenze, la riproducibilità con gli ordinari processi tipografici e generare nei lettori un certo trasporto emotivo. Lichenstein isola soltanto una delle immagini seriali, la riproduce a mano, ingigantita, svincolandola dal normale “consumo”; la guarda al microscopio, n’è ripristina il tessuto (in pratica il retino tipografico), con una personale tecnica grafica e pittorica. L’immagine fuoriesce dalla serialità tecnologica e industriale per una pratica esclusivamente artigianale.

Ma l’artista procede anche all’operazione inversa: si appropria di un’immagine esteticamente qualificata (un Picasso o un Mondrian) e la trascrive nel codice segnico della riproduzione seriale e tipografica: bianco, nero, uno o due colori, chiaro, scuro, tutto ridotto a un reticolo punteggiato in parte fittamente. Un’operazione che vuole esaminare un passaggio da una classe di valori a un’altra, senza interessarsi minimamente del contenuto del messaggio, ma solo del modo in cui questo è comunicato, attraverso un medium, anticipando, in un atteggiamento acutissimo, la scoperta del teorico della comunicazione moderna, Mc Luhan, per cui il messaggio è il medium e il medium non comunica altro che se stesso.

Nella bella mostra alla Triennale di Milano (“Meditazioni sull’arte”), Roy Lichtenstein rielabora i dipinti ottocenteschi con scene del far west americano, inoltrandosi fino all’impressionismo di Monet e Cezanne, al futurismo di Carrà, al cubismo di Picasso e Leger, alle geometrie di Mondrian, al surrealismo di Dalì. Tra i noti e celebri dipinti di grandi dimensioni, “Figures in Landscape” (1977), “Sunrise” (1965), “Girl with Tear” (ancora del ’77), s’inserisce l’illuminazione al “classicismo”, nel “Laocoonte” (1988) o l’ispirazione per l’arte orientale, con “Vista with Bridge” (1966).

Particolarmente interessanti alcuni lavori che risalgono agli anni Cinquanta, per la prima volta esposti al pubblico, nei quali Lichtenstein si confronta con la pittura medievale e l’arte americana del primo Ottocento. Capeggia una grande tela (datata 1974), “Red Horseman”, ispirata al “Cavaliere Rosso” di Carrà che ha particolarmente entusiasmato l’assessore alla cultura del Comune di Milano, Massimiliano Finazzer Flory. Presente nelle sale, durante l’anteprima, anche la vedova dell’artista. Grande merito di questo evento eccezionale va soprattutto al curatore, Gianni Mercurio, che, alla Triennale, ha firmato antologie dedicate ad Andy Warhol, Keith Haring, Jean Michel Basquiat.

La mostra è compendiata in un bel catalogo di quattrocento pagine, edito da Skira, che comprende oltre al testo introduttivo del curatore, saggi critici di Demetrio Paparoni, Robert Pincus-Witten, Annabelle Ténèze, Frederic Tuten. L’edizione è completata da una selezione di materiale fotografico in gran parte inedito con un documentario sulla vita di Roy Lichtenstein ed è pubblicato in tre differenti edizioni, in Italiano, Inglese e Tedesco.

 


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