di Alessandro Iacuelli

Il 31 maggio scorso è stato il giorno di una singolare iniziativa in rete: l'abbandono - da parte di un discreto numero di persone - di Facebook. L'iniziativa è stata indetta attraverso un sito, quitfacebookday.com, che ha raccolto un movimento di protesta contro il social network fin troppo popolare. Il motivo della protesta? Il modo in cui vengono trattati, e trattenuti, i dati personali degli utenti.

Secondo molte persone sparse nel mondo, la considerazione che Facebook ha della riservatezza degli utenti è andata progressivamente scadendo nel tempo. Nei primi tempi di apertura del sito, infatti, c'era una elevatissima tutela dei dati personali, non a casola policy che ogni utente accettava recitava: "Nessuna informazione personale sarà disponibile ad altri utenti, che non appartengono ad alcun gruppo sottoscritto", mentre ovviamente alcune informazioni meno sensibili erano di pubblico dominio, come il nome, il sesso, la nazione di provenienza.

C'è però una specie di "peccato originale" nella policy di Facebook, che si porta dietro fin dalla nascita: le foto, i video e ogni altro contenuto immesso su Facebook non appartengono più a chi l'ha pubblicato, ma a Facebook. Interessante e divertente come manovra: far credere all'utente di trovarsi in uno spazio "proprio", dove può pubblicare contenuti propri, rimanendo proprietario delle proprie foto o dei propri testi; peccato per quella clausola scritta in piccolo, in quei "termini di servizio" che ognuno è costretto ad accettare all'atto dell'iscrizione, e che l'utente medio accetta spesso senza leggero.

Quindi, una volta iscritti al social network, si perdono i diritti di proprietà intellettuale su ciò che viene inserito. Quei diritti esistono, e sono proprietà esclusiva di Facebook, che ha anche il diritto di venderli, di lucrarci. Non solo. Facebook può anche concederli in licenza ad altri, senza nemmeno informare l'utente. Un metodo geniale per rastrellare contenuti dalla rete, che siano foto o video o pagine e pagine di testi, e farli propri.

Non finisce qui. Perché nel momento in cui un utente decide di eliminare alcuni contenuti sul proprio account, a meno che tali contenuti non siano stati condivisi con terzi e che questi non li abbiano eliminati, potrebbero essere conservati come copie di back-up per un determinato periodo di tempo da Facebook. D'altronde, è proprietaria di quei contenuti stessi.

Nel tempo, e con la caduta di certe restrizioni sulla privacy da parte dell'azienda gestore del social network, sono sorti anche altri problemi. Primo tra tutti quello riguardante i pagamenti: Facebook memorizza i dati relativi ai pagamenti che vengono effettuati tramite il sito. Non serve modificare le impostazioni nella pagina dei pagamenti: i gestori profilano gli acquisti degli utenti, sapendo cosa comprano, a cosa sono interessati, in pratica schedano tutti.

Anche l'uso delle applicazioni contiene un raggiro. Raggiro che si cela dietro il funzionamento poco chiaro del software della piattaforma. Quando un utente accede ad una nuova applicazione, per usarla è obbligato a dare il permesso, all'applicazione, di accedere a qualsiasi contenuto o informazione del proprio profilo. Questo implica che se l'utente X condivide una foto molto privata solo con l'utente Y, e l'utente Y accede ad un'applicazione concedendole i permessi, l'applicazione (e chi la gestisce) potrà visualizzare e stampare quella foto molto privata dell'utente X. Pertanto, non serve essere accorti nella gestione della propria privacy, poiché questa dipende anche dal comportamento degli utenti presenti nella lista di amici. Il tutto è descritto al punto 4. della privacy policy, che tutti gli utenti sottoscrivono.

E se si decide ci cancellarsi dal social network - il che non avviene semplicemente disattivando l'account, ma proprio eliminandolo - i dati personali ed i contenuti restano in possesso di Facebook, e l'utente non ha alcuna possibilità di eliminarli, né singolarmente né in blocco. Quel link "elimina" accanto ad ogni contenuto, si riferisce semplicemente al non renderlo più visibile nelle bacheche e nelle pagine del sito, ma non ad una reale eliminazione dai server.

Nelle scorse settimane, ad evidenziare le lacune di Facebook ci aveva già pensato youropenbook.com, un sito che si è messo a rivelare proprio le lacune rispetto alla privacy del social network. Infatti, a fine aprile scorso Facebook ha rilasciato moltissime informazioni sugli utenti, rendendole disponibili alle applicazioni per favorire l'integrazione di facebook su altri siti, ma anche l'indicizzazione massiccia dei contenuti da parte dei motori di ricerca. Sul sito di youropenbook è possibile inserire chiavi di ricerca per verificare, dal di fuori di Facebook, senza essere registrati o loggati sul social network, quali informazioni Facebook rende pubbliche sul web e non trattiene per sé, limitandone la visibilità ai suoi iscritti.

Gli aspetti sulla privacy costituiscono anche un dibattito interno alla stessa azienda impegnata nella gestione della piattaforma. E la tutela della riservatezza degli utenti non é al primo posto nella scala di valori di Peter Thiel, che è uno dei soli tre componenti del consiglio di amministrazione di Facebook ed è anche uno degli inventori di PayPal. Thiel sostiene da anni fondazioni e lobby mediatiche di estrema destra che non fanno mistero dell'appartenenza a un'ideologia specifica. E’ anche uno dei più potenti venture capitalist del mondo, ma non solo: è membro del "527 Group", una lobby che influenza la politica e i candidati alle elezioni e, come non bastasse, è anche nella "Methuselah Foundation".

E' un agguerrito conservatore, preme attraverso il 527 Group per l'abolizione delle tasse (e dunque dello Stato democratico), finanzia i progetti di rivitalizzazione umana e di allungamento della vita ed è convinto, come ha dichiarato a viva voce in più di una conferenza, che l'umanità tutto sommato "sia composta di pecore". Ma allora, se pensa questo dell'umanità, ed é un consigliere d'amministrazione di Facebook, per lui Facebook che cos’è? L'amministrazione del gregge? Invece, nei giorni scorsi Mark Zuckerberg, il controverso fondatore di Facebook, ha fatto una sorta di "mea culpa" sulla "privacy policy" di Facebook. In contrasto con Thiel, ha scritto in un articolo comparso sul Washington Post che "sono stati commessi troppi errori in tema di privacy, e verranno presto aggiornate le norme sulla privacy per renderle più semplici".

Intanto, Facebook è riuscito senza dubbio, negli ultimi anni, ad uccidere molte potenzialità di espressione in rete, a cominciare dai blog, che stanno diminuendo di numero, con tante persone che dai blog continuano a passare sui social network, Facebook primo tra tutti. C'era da aspettarselo: i blog hanno costruito negli anni scorsi, fino più o meno al 2007, dell'ottimo "social networking" tra le persone. Ma per fare social network con i blog c'è bisogno di scrivere, e soprattutto di leggere gli altri blog, e al passare del tempo gli utenti medi trovano faticoso il leggere e lo scrivere.

Certamente è molto meno faticoso gironzolare fu facebook, taggare qua e là, richiedere amicizie: i social network danno l'illusione di comunicare più rapidamente - se di comunicazione si tratta - di rimorchiare più facilmente. A pagarne un duro prezzo è proprio la rete intesa come strumento libero: a discapito della libertà, è emerso uno strumento, Facebook, che impone un meccanismo forzato d’interazione tra gli utenti, un instradamento obbligato, attraverso i tag, le liste di amici, i gruppi.

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