di Carlo Benedetti

MOSCA. Riempiva gli stadi dell'Unione Sovietica. Alle sue performance di poesia accorrevano a migliaia e migliaia. Era l'idolo delle nuove generazioni nate nel clima del disgelo kruscioviano. Era nato nel 1933 e si era laureato in architettura nel 1957. Andrej Voznesenskij è scomparso all'età di 77 anni nella sua dacia di Peredelkino, quella del villaggio degli scrittori a pochi chilometri dalla capitale russa.

La poesia era il suo campo d'azione tanto e le prime "prove" vennero apprezzate da Boris Pasternak che, poi, lo consacrò - insieme a Evtuscenko e alla Achmadulina - nell'Olimpo degli autori della nuova generazione. Toccò quindi all'imprevedibile Nikita Krusciov ridimensionare il giovane ribelle che rifiutava l'allineamento ai canoni del realismo socialista. Gli mandò a dire, infatti, di prendere il passaporto e di andarsene dal paese per raggiungere i suoi padroni, gli occidentali...

Voznesenskij, invece, resto nel suo paese e continuò a scrivere, sempre mostrando una vivacità intellettuale ed un carattere innovativo con monologhi lirici, drammatizzati, debitori delle metafore iperboliche di un Majakovskij e di un Pasternak. Fu un poeta che espresse nei minimi dettagli quel grande dibattito che caratterizzò l'Urss kruscioviana, segnata dal dibattito culturale ed ideologico tra "fisici" e "lirici". E cioè tra fautori di una società basata sulla scienza e sui valori della tecnica futura e appassionati delle ideologie letterarie e liriche.

Voznesenskij ha così accompagnato il suo paese attraversando le varie epoche culturali e politiche; appunto, da Krusciov a Breznev, da Andropov a Gorbaciov, fino a Putin. Ma è sempre restato fedele al suo credo, quello dell'intreccio tra la parola poetica e la scena dell'esperienza. Venne anche in Italia, arrivando a Roma proprio nel giorno della morte di Pasolini. E in quell’occasione scrisse di getto una breve poesia.

All'Italia era già legato. Ammiratore e studioso di Brunelleschi ("ero innamorato e pervaso dalla sua opera e progettai, perfino, una fabbrica di automobili che si ispirava al Palazzo Vecchio") e di Michelangelo, mi aveva narrato - nel corso di un lungo incontro nel bosco innevato di betulle di Peredelkino  - che del grande italiano si era appassionato quando ancora era studente all'istituto di architettura. "In quegli anni di studio - mi diceva - ero costretto a raffigurare il calco di gesso del David e le linee mi sfuggivano come se fossero state insaponate. Odiavo il calco. Poi mi tuffai in biblioteca, copiai i disegni del Vasari, studiai la Cappella Sistina, m’impegnai per riprodurre le statue della tomba di Giuliano dei Medici e la figura della Notte la collocai sul frontone di un padiglione che disegnai per un mio progetto". "Ricordo sempre - continuò allora il poeta - che eravamo infatuati dal Rinascimento fiorentino che consideravamo come la mostra Mecca...".

Da quei tempi Voznesenskij è stato il personaggio numero uno della vicenda culturale sovietica. Con Evstuscenko è stato l'animatore delle maggiori conferenze e manifestazioni culturali. Impegnato ovunque nelle ricerche relative alla coscienza del destino, della conoscenza e dell'anima. E appunto, come poeta, si richiamava sempre all'anima, alle sue fughe. Il tutto con una poesia limpida e infinitamente ansiosa.

Strettamente legato all'esperienza figurativa nella raccolta Antimondi (Antimiry, 1964) Vosnesenskij affrontò in modo non conformistico i problemi della società sovietica e del mondo moderno parlando di forme architettoniche, di acciaio e di cemento come specifiche componenti di un concreto atto creativo. Grande eco ebbero poi le 40 digressioni liriche dal poema La pera triangolare (40 liriòeskich otstuplenij iz poemy Treugol'naja grusa, 1962), il poema Oza ('64) e L'ombra del suono (Ten' svuka, '72), proprio per il loro stampo sperimentale decisamente "cubista".

Oltre a utilizzare diverse forme poetiche, Voznesenskij fece spesso ricorso a un linguaggio ricco di arcaismi, a termini professionali e tecnici e forme idiomatiche derivate dal linguaggio parlato, fino a introdurre in poesia anche alcuni volgarismi assolutamente inusuali. Nel 1982 scrisse un articolo dal titolo Archistichi, termine intraducibile, che si poneva come manifesto della poesia visiva.

Spesso criticato per essere stato amico del potere, contro chi lo voleva solo poeta sperimentale di maniera compose dei versi dal titolo Il laboratorio di criminologia di Jalta (Jaltinskaja kriminalisticeskaja laboratorija, 1986) in cui con ironia, oltre a fare professione di fede, rivisitò criticamente il "bel tempo passato". Negli anni Novanta scrisse numerosi "video-manifesti" sulla poesia e collage in cui utilizzò anche la sua esperienza di artista grafico. Lascia al mondo letterario della Russia di oggi nuove e grandi inesplorate strade di ricerca.

 

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