di Mario Braconi

Ad ottobre del 2009, la Federal Communication Commission (FCC) ha stilato la Magna Charta dei diritti dei cittadini americani connessi in Rete: essa si riflette in una serie di obblighi e diritti dei provider di connettività a banda larga: "Compatibilmente con una gestione ragionevole della Rete", ogni provider non può impedire ai suoi clienti l'invio e la ricezione di contenuti legali, l'utilizzo di applicativi e di servizi di sua scelta, e l'accesso mediante qualsiasi dispositivo che non provochi danni. I provider, inoltre, non dovranno impedire o difficoltizzare la libera concorrenza tra fornitori di connettività, di applicazioni, di servizi e di contenuti e sono tenuti a trattare i clienti in maniera non discriminatoria, garantendo tra l'altro la piena trasparenza sulle modalità di gestione della rete ed sulle altre procedure funzionali al mantenimento dei livelli di servizio.

Una "gestione ragionevole della rete" implica la gestione delle problematiche di congestione sul proprio network, il blocco del traffico dannoso e/o indesiderato, del trasferimento illegale di contenuti e del trasferimento di contenuti illegali, nonché una serie imprecisata di altre "ragionevoli pratiche di buona gestione della rete". Come agenzia federale, la FCC è chiamata a stabilire un equilibrio armonioso tra diritti civili dei cittadini e diritto degli operatori ad operare in modo efficiente: un compito quanto mai difficoltoso in un contesto in cui la connettività è ormai quasi un diritto umano, la cui effettiva fruizione è però è mediata da entità che hanno il profitto come unico obiettivo.

Se è legittimo che i provider pretendano la libertà di organizzare i mezzi di produzione nel modo da essi ritenuto più consono al perseguimento dei fini aziendali, la loro possibilità di bloccare contenuti o di regolare la velocità di accesso potrebbe essere sempre usata in modo distorto e/o discriminatorio. Pensiamo ad fondo sovrano saudita con una partecipazione di maggioranza in una società fornitrice di connettività a banda larga, i cui amministratori potrebbero decidere di oscurare o rallentare i siti femministi in lingua araba... Lo potrebbero fare serenamente, invocando motivazioni tecniche.

Finora, in tema di net-neutrality (accesso universale alle medesime condizioni, tema molto caro anche al Presidente Obama) la FCC ha dimostrato di difendere più gli interessi dei cittadini che quelli delle corporation: si pensi al caso che ha coinvolto nel 2008 Comcast, il più grande operatore via cavo americano nonché primo fornitore di connettività internet negli USA, che porta TV via cavo, internet ad alta velocità e telefonia a milioni di clienti in 40 Stati. Poiché Comcast ha ammesso di aver deliberatamente rallentato la velocità di connessione di alcuni clienti che scambiavano file molto pesanti via peer-to-peer, la FCC, a seguito di un'indagine, ha condannato la società a non continuare la pratica di rallentamento del traffico e a comunicare in modo trasparente ai suoi clienti le sue policy di gestione della rete.

Purtroppo, però, Comcast è una corazzata con ottimi agganci nelle stanze del potere e forse nemmeno la FCC ha le spalle abbastanza larghe per poterla attaccare impunemente: infatti, lo scorso 6 aprile i tre giudici della corte d'appello del District of Columbia hanno stabilito che la FCC, quando ha sanzionato la Comcast, ha agito in modo ultroneo rispetto ai suoi effettivi poteri. Il fatto di aver ricevuto una sonora porta in faccia potrebbe spingere la FCC ad utilizzare la sua ultima cartuccia, quella che Craig Moffett, analista presso al Sanford C. Bernstein, definisce sul Washington Post l'"opzione nucleare": ovverosia l'assimilazione giuridica degli operatori via cavo a quelli telefonici, cosa che implicherebbe controlli molto più stringenti.

Un'idea per niente gradita agli operatori, ovviamente, ma che presenta l'obiettivo difetto di sottoporre gli operatori internet ad una regolamentazione concepita in piena era analogica e di monopolio telefonico. La questione sarebbe risolta in un secondo se si facesse della infrastruttura su cui viaggia internet una public utility: idea teoricamente ineccepibile, se non fosse per quei trenta miliardi l'anno di costi, attualmente nei stati patrimoniali delle società di broadband e telefoniche, e di cui il Governo degli Stati Uniti non sembra proprio così ansioso di farsi carico.

E in Europa? L'atteggiamento della FCC, almeno inizialmente, ha rappresentato un modello per i burocrati di Bruxelles: nel memo 09/491 del 5 novembre 2009 si legge, tra l'altro, che "tutte le misure intraprese dagli Stati Membri in merito all'accesso o all'uso di servizi o applicativi attraverso i network telefonici deve rispettare i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini, così come garantiti dalla Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e le Libertà Fondamentali ed in generale i principi della legge europea." Tuttavia, a soli quattro mesi di distanza, sembra che l'atteggiamento dell'Unione Europea sia mutato.

Lo si comprende leggendo il discorso che Neelie Kroes, Vicepresidente della Commissione Europea e Commissario per l'Agenda Digitale ha tenuto lo scorso 13 aprile alla conferenza della ARCEP (Autorité de Régulation des Communications Electroniques et des Postes) di Parigi: "[...] ognuno degli operatori telefonici che ho incontrato mi ha sottoposto la medesima questione: ognuno di loro vorrebbe far pagare una sorta di 'affitto' ai produttori di contenuti quando questi usino la loro rete in modo intensivo. E vorrebbero poter fornire ai loro clienti livelli di servizio differenziati - cosa che vediamo già in diversi altri contesti come il trasporto aereo e ferroviario."

Dopo l'enunciazione di alcuni concetti abbastanza scontati (libertà di espressione, trasparenza degli operatori, importanza degli investimenti in tecnologia, libera concorrenza e sostegno all'innovazione) Kroes spiega: mentre da un lato e dall'altro dell'Oceano non vi sono dubbi sul fatto che i consumatori abbiano diritto alle tre "A" (Accesso ai contenuti desiderati, Applicazioni, Apparecchiature) nonché ad un adeguato livello di trasparenza sul modus operandi del provider, in Europa si registra un certo scetticismo sul concetto di non-discriminazione, sostenuto invece dalla FCC. Infatti, “secondo alcune interpretazioni, esso impedirebbe ai provider di pretendere un incremento delle tariffe da quei fornitori di contenuti che realizzano servizi ad alto assorbimento di banda e che richiedono un livello di servizio minimo per consentire una trasmissione efficace."

Tradotto in parole semplici, internet potrebbe diventerebbe sempre più un'autostrada in cui chi paga soldi sonanti può andare a 300 chilometri all'ora, mentre gli altri dovranno accontentarsi di marciare (o marcire?) a 40 chilometri orari. Il nuovo quadro normativo europeo prevede che benché "le Autorità Nazionali, previa consultazione con la Commissione, abbiano la possibilità di stabilire livelli minimi di servizio", non sono obbligate a farlo, se non quando si verifichino problemi, ovvero, quando "le tecniche di gestione del traffico e la possibile segmentazione dei livelli di priorità producano un degrado del contenuto e dei servizi offerti da attori non commerciali o da nuovi entranti sul mercato".

Insomma, le Autorità interverranno solo quando il danno si sarà già prodotto e sempre che gli ordinamenti nazionali consentano ai cittadini di far sentire la propria voce (difficile dove non esista una class action degna di questo nome). Sembra proprio che, ad esser generosi, l'Unione Europea abbia ormai abbandonato la fiera posizione pro-consumatori che la contraddistingueva fino a poco fa, ritenendo i problemi degli provider almeno altrettanto meritevoli di attenzione.

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