di Mario Braconi

Alla US-China Economic and Security Review Commission è stato necessario produrre un documento di ben trecento pagine per spiegare al Congresso USA che cosa è successo sulla Rete delle Reti lo scorso 8 aprile. Un incidente (errore? sabotaggio?) di dimensioni sesquipedali ed apparentemente senza conseguenze, che può essere così riassunto: per 18 minuti, China Telecom ha “suggerito” ai router percorsi fasulli sulla Rete veicolando circa il 15% del traffico internet globale su server cinesi. Durante quei fatidici minuti, insomma, per scaricare la sua posta da Yahoo!, un qualsiasi ragazzino di Vancouver ha compiuto un demenziale viaggio virtuale verso la Repubblica Popolare per poi rimbalzare verso il nodo più vicino al suo provider, magari a pochi isolati da casa.

Difficile che gli utenti se ne siano accorti perché, per lo stupore dei tecnici, China Telecom è stata in grado di gestire l’abnorme afflusso sui suoi server, che sono stati in grado di trattarlo e poi rispedirlo alla sua effettiva destinazione con ritardi stimati di qualche millisecondo, cioè impercettibili.

Questo accade poiché i router di tutto il mondo possono essere considerati delle agenzie di viaggio specializzate nell’organizzare trasferimenti (di dati) il più veloci ed efficienti possibile: come ogni tour operator che si rispetti, dispongono di una “mappa”, il BGP (Border Gateway Protocol), che indica il percorso più rapido per raggiungere il punto B dal punto A. Riferiscono gli esperti informatici che questo sistema di smistamento e spedizione di dati è basato in gran parte sulla “fiducia”: in altre parole, ci si fida per definizione delle informazioni fornite dal BGP. Il problema è che, quando uno degli attori comincia a sparare rotte fantasiose, non solo il traffico comincia a circolare in modo assurdo, ma esso fa da calamita ad altro traffico: questo spiega per quale ragione l’errore diffuso dai router cinesi ha “infettato” milioni di altre macchine.

Ricorda il sito specializzato "Ars Technica" che un simile incidente si è già verificato nel 2008 quando le autorità pachistane hanno deciso di oscurare l’accesso a YouTube da chi si collegasse dal Paese: anziché raggiungere i server del sito di video, il protocollo instradava il traffico in un “cul de sac” informatico.

I problemi per gli altri Paesi (leggermente) più liberali sono cominciati quando le mappe fallate sono in qualche modo “volate” fino ad Hong Kong, da dove hanno cominciato a propagare le loro informazioni errate nel resto del mondo. Risultato: per un po’ di tempo, chiunque (non solo in Pakistan) desiderasse guardare in streaming un video della propria band preferita, finiva nel buco nero preparato dagli ingeneri al soldo del governo pakistano: pagina bianca e messaggio di errore.

Resta aperta la questione del come un evento di questo tipo si sia potuto verificare. Benché in effetti per spiare il traffico internet non sia affatto necessario prendersi la briga di farlo transitare su server propri, è pur vero che ricondurlo su macchine proprietarie faciliti la vita ai cyber-ficcanaso. A far pensare che di hackeraggio e non di incidente si sia trattato, la lista dei domini da e per i quali il traffico è stato indebitamente dirottato sulle macchine di China Telecom: quelli di Governo, Senato, Esercito, Marina, corpo dei Marines, Aviazione, Ministero della Difesa, Dipartimento del Commercio, oltre a molti altri siti di proprietà dello Stato americani, ma anche quelli di alcuni importanti siti commercaili (Dell, Yahoo!, Microsoft, IBM).

Secondo Dmitri Alperovitch, dirigente della società di sicurezza informatica McAfee, anche egli audito dal Senato americano, grazie al “dirottamento internet” del secolo, gli esperti cinesi sarebbero stati messi in grado anche di decrittare i contenuti del traffico diretto a siti commerciali; più al sicuro, sembrerebbero, i contenuti dei siti militari e in generale quelli di istituzioni pubbliche, generalmente protetti da complessi meccanismi di critpografia.

Secondo il rapporto della Commissione, però, l’incidente è preoccupante. Infatti, la tecnica impiegata dai “dirottatori” potrebbe avere una serie di conseguenze sgradevoli quali: consentire la sorveglianza su un sito o su specifici utenti, inibire l’accesso ad un determinato sito, interrompere transazioni online, facilitare la connessione a siti fasulli che replicano quelli “veri” (“spoof”). Infine, conclude il rapporto, un volume di traffico di quella magnitudine è in grado di creare talmente tanta confusione da coprire eventuali altri tipi di attacco mirato a qualche “nemico”, presunto o reale, del partito comunista cinese.

In effetti, se si considerano le cattive abitudini del Governo cinese in tema di (cyber)libertà e soprattutto l’entità della congiura digitale da esso ordita nel 2008 ai danni dei sostenitori del Dalai Lama (l’hackeraggio di poco meno di 1.300 computer in ben 103 Paesi), l’ipotesi che dietro all’incidente di Aprile vi sia lo zampino del sempre paranoico e dittatoriale partito comunista cinese, non sembra così improbabile.

Sia come sia, questa è l’ennesima prova del fatto che la Rete delle Reti, per definizione strumento di emancipazione e di libertà globali, in effetti sia un gigante dai piedi di argilla. Effettivamente é abbastanza sorprendente scoprire che la differenza tra essere collegati e non dipende dal settaggio di alcuni router sparsi nel mondo o dalla buona disposizione di un pugno di abili tecnici-censori con gli occhi a mandorla.

di Mario Braconi

Il Professor Robert Edwards, pioniere della fecondazione in vitro, è stato finalmente insignito del Premio Nobel per la medicina. Il riconoscimento all’ottantacinquenne professore arriva a 32 anni suonati dal suo grande successo: la nascita della prima bambina concepita artificialmente, Louise Brown, avvenuta poco prima della mezzanotte del 23 luglio del 1978. Non che ne facesse una malattia - come dichiarò in un’intervista del 2003 - anche perché, aggiunse in quell’occasione, “sono un socialista molto di sinistra”.
 
Da quel glorioso giorno di 32 anni fa, grazie a Roberts, si stima che siano circa 4 milioni i bambini nati mediante fecondazione artificiale da coppie che altrimenti il destino avrebbe privato per sempre della gioia di riprodursi (si stima siano circa il 10% del totale). Per ogni persona di buon senso, dunque, il lavoro di Robert Edwards (ma anche quello del collega Steptoe, deceduto nel 1988) è un dono che l’umanità ha tributato a sé stessa, uno di quei risultati che rendono fieri di essere uomini: dopo tutto come specie, sembra, non siamo solamente capaci di violenza e guerre; occasionalmente produciamo individui che, mediante il loro sapere scientifico, finiscono per essere potenti generatori di gioia individuale.
 
Eppure il mondo non sembra aver capito (non subito perlomeno) la portata delle scoperte dello scienziato di Manchester. Fa bene Beth Kohl a porsi, sulle colonne dell’Huffington Post, la seguente domanda: come mai al Karolinska Instituten è occorso più di un trentennio per dare un riconoscimento formale a Roberts? Forse che il loro contributo alla scienza medica (e conseguentemente alle possibilità di umana felicità) è stato considerato per lungo tempo “troppo modesto o troppo controverso”? Se così fosse, ricorda la Kohl, è utile ricordare che Nobel non inventò la penicillina, ma la dinamite...

O magari si è voluto aspettare che Louise Brown crescesse, diventasse adulta e si riproducesse a sua volta (senza aiuti dalla scienza in questo caso), giusto per assicurarsi che non le spuntasse magari una proboscide o un paio di corna, cosa che una minoranza di bigotti “timorati di Dio” e “ultrà della vita” (a modo loro) allo stesso tempo teme e desidera?
 
In ogni caso, la festa per il riconoscimento, sia pure tardivo, è stata guastata dalla consueta cacofonia prodotta da rappresentanti del Vaticano e relativi apparatchik: una specie di sinfonia surreale nella quale ognuno fa a gara con gli altri a chi la spara più grossa:  padre Gonzalo Miranda, docente di Bioetica, dipinge il povero Edwards come una sorta di dottor Mengele, responsabile di un immenso “spreco di vite umane”; si riferisce agli embrioni sovrannumerari o scartati perché non utili al processo di riproduzione. Non meno duro Lucio Romano, presidente di Scienza e Vita, l’associazione che ha sabotato il referendum abrogativo della mai abbastanza vituperata legge 40/2004 sulla fecondazione assistita, scritta sotto dettatura del Vaticano, che é una collezione di prescrizioni sadiche quanto demenziali.

Per inciso, anche se il referendum non è riuscito a liberare il Paese dalla sua terribile legge sulla procreazione medicalmente assistita, il combinato disposto del regolamento attuativo predisposto in extremis dal Ministro Turco e di una serie di sentenze che ne sanciscono l’incostituzionalità, l’hanno talmente mutilata da renderla simile ad un palazzo bombardato di cui rimane in piedi la sola facciata.
 
Ma la parte del leone la fa Ignacio Carrasco de Paula, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, il quale, sia pure “a titolo personale”, rovescia su Edwards un fiume di veleno: “Se non vi fosse stato Edwards, i frigoriferi dei centri di riproduzione artificiale non traboccherebbero di embrioni che con ogni probabilità finiranno per “essere abbandonati e morire”. Nel fantasioso racconto che l’arroganza vaticana spaccia come unica interpretazione possibile del mistero della Vita, infatti, un aggregato di cellule potenzialmente in grado di trasformarsi in una persona è persona a tutti gli effetti.

Niente di nuovo: si tratta dello stucchevole gioco delle parti cui i rappresentanti più oscurantisti della Chiesa cattolica si abbandonano con apparente voluttà, confidando nell’ignoranza e nella sostanziale semplicità dell’animo umano; tuttavia, è lecito porsi la seguente domanda: davvero Carrasco de Paula preferirebbe un mondo “a congelatori vuoti”, ma con 4 milioni di bambini di meno? Dilemma interessante, per un’organizzazione politica che non fa che ripetere di essere dalla parte della vita ad ogni costo ed è obiettivamente molto, anche troppo, vicina ai bambini...

Avremmo bisogno anche in Italia di giornalisti come Tom Chivers, che dalle colonne di un giornale conservatore a larga diffusione (Daily Telegraph), smonti i dogmi papali a suon di argomenti scientifici. Chissà se i vari Carrasco de Paula sanno che, perfino nel mondo ideale senza fecondazione assistita che vorrebbe Ratzinger per tutti noi, alcuni studi confermano che il 22% delle gravidanze finiscono prima ancora di essere riconosciute come tali e che il 31% delle stesse si interrompe dopo l’impianto nell’utero; che il solo il 42% degli embrioni supera i 12 giorni e che un terzo cessa di esistere dopo l’annidamento nell’utero.

E’ un processo naturale di selezione, che dovrebbe consentire solo gli embrioni più adatti alla sopravvivenza di arrivare agli stadi successivi di sviluppo. Il fatto che in natura questo processo non sempre funzioni, non autorizza la passività fatalista cui la Chiesa vorrebbe condannare l’intera umanità, non solo i suoi fedeli più oltranzisti.

Però qui parliamo di un complotto politico-clericale che ha tentato di vietare con la legge a tutti gli Italiani (credenti bigotti, credenti con il cervello e non credenti) le diagnosi preimpianto anche in caso di alta probabilità di gravi malattie genetiche. Non ci si può, quindi, aspettare che l’Uomo venga messo prima del dogma, per quanto assurdo e ridicolo sia quest’ultimo e per quanto devastanti risultino le conseguenze della cieca osservanza di una regola inventata dagli uomini in nome di Dio nella viva carne delle persone. Ma questi sono i giorni del trionfo di Edwards e, per un attimo, sarà bene dimenticare i papisti, che nel gelo delle loro cripte vuote continuano a biascicare le loro enormità.

di Mario Braconi

Uno dei più celebri astrofisici al mondo, il professor Stephen Hawking, in occasione del lancio del suo ultimo libro “The Grand Design” (scritto a quattro mani con il fisico e giornalista americano Mlodinow), ha fatto sapere che, a suo modo di vedere, non è necessario ricorrere al concetto di intervento divino per spiegare le origini dell’Universo. Messa così, la questione non meriterebbe grande attenzione da parte dei media, qual è la notizia? Che un uomo di scienza tra i più famosi al mondo si dichiari materialista non dovrebbe stupire; diverso, e davvero degno di menzione e di analisi, sarebbe stato invece il caso opposto: se, cioè, un Hawking avesse organizzato una conferenza stampa per annunciare la sua conversione al cristianesimo (o altra religione a piacere).

A fare di questa non-notizia un caso (il blasonato Times di Londra del 2 settembre ha addirittura titolato in prima pagina: “Hawking: Dio non ha creato il mondo”) è con ogni probabilità l’imminente (ed assai impopolare) visita ufficiale di Ratzinger in Gran Bretagna. Come noto, nel Regno Unito il Papa non è esattamente atteso a braccia aperte: un’organizzazione, “Protest the Pope” (8.500 associati virtuali su Facebook) è addirittura intenzionata a rendere davvero indimenticabile il viaggio del papa in terra d’Albione a forza di contestazioni più o meno creative e divertenti.

Le ragioni degli oppositori britannici del Papa sono assai più condivisibili dei loro modi, non sempre raffinati: come moltissime altre persone al mondo (in primis tra i cattolici di buon senso) ad irritarli sono gli aspetti più scandalosi della politica della Chiesa di Roma, come la connivenza con i pedofili, la guerra ai condom, l’accanimento contro gli omosessuali, la riabilitazione del vescovo negazionista Williamson. Tutte faccende per le quali i Britannici (beati loro!) dimostrano di avere lo stomaco assai più delicato di quello dei nostri connazionali.

Eppure in Gran Bretagna c’è chi è interessato a difendere l’Indifendibile, in questo caso facendo passare il carnefice per vittima. In questo contesto, le esternazioni per nulla sconvolgenti né sconvenienti di Hawking sono interpretate in modo più o meno aperto come uno “sgarbo” al Papa: meglio, l’epifenomeno di una temperie culturale poco “tollerante” nei confronti dei “valori” cattolici di cui il papa è testimonial. Un pizzico di scandalo, comunque, non farà male nemmeno al professor Hawking, il quale, oltre ad essere un geniale scienziato, è generalmente abbastanza bravo ad autopromuoversi: le polemiche e la passerella gratuita sui giornali di tutto il mondo, ça va sans dire, finiranno infatti per giovare alle vendite del suo nuovo libro, destinato, come il precedente “Dal Big Bang ai buchi neri: breve storia del tempo”, a divenire un classico della divulgazione scientifica.

Secondo alcuni commentatori, non del tutto in buona fede o ingenui assai, quella dello scienziato di Oxford sarebbe un’inversione "ad U". Questo perché nella sua “Breve storia del tempo” Hawking ha incluso la seguente frase sibillina, che ha tanto fatto eccitare gli ultrà religiosi, convinti di rinvenirvi un barlume di fede: “Se fossimo in grado di trovare una teoria in grado di spiegare ogni cosa, si tratterebbe del trionfo assoluto della ragione, perché in questo modo conosceremmo la mente di Dio”.

Questa non è, in tutta evidenza, né una professione di fede, né una generica apertura di credito nei confronti della religione: il riferimento a Dio è senz’altro metaforico, vi ha ricorso a suo tempo un altro genio, Allbert Einstein, cui dobbiamo la meravigliosa immagine di Dio che (non) “gioca a dadi con l’universo”. Non si parla, nell’un caso come nell’altro, di un Dio-persona protagonista delle tre religioni monoteiste, ma di una Entità, come spiega lo stesso Hawking, “alla maniera di Spinoza, che cioè si manifesta nell’armonia ordinata di ciò che esiste, non certo un tale preoccupato del destino e delle azioni del genere umano”.

Roger Highfield, editorialista di The New Scientist, non ha dubbi sull’ateismo di Hawking: cita infatti una intervista del 2001 al Daily Telegraph nella quale il professore così si è espresse: “vi sono determinate leggi che devono essere sempre essere rispettate; se proprio volete, potete chiamarle un’emanazione di Dio. Ma, dal mio punto di vista, questa è più una definizione che una prova dell’esistenza di Dio.” Nel suo “The Grand Design”, Hawking abbraccia la cosiddetta M-Teoria, quella che un profano definirebbe la “portaerei di tutte le dimostrazioni scientifiche”, visto che, combinando matematicamente altre sei teorie, ha la l’ambizione di spiegare ogni cosa (è infatti conosciuta con l’ironico acronimo di TOE - Theory of Everything, ovvero Teoria del Tutto, ma toe in inglese vuol dire anche pollice del piede).

Come scrive Highfield, il fatto che noi tutti siamo in vita è l’effetto di una fortunata combinazione di circostanze, che ha prodotto anche la realtà che ci circonda: riconoscere la fortuna non significa postulare l’esistenza divina. E ciò è coerente con le professioni di ateismo di Hawking, reiterate negli anni: incredibilmente, però, in questi giorni che precedono la visita papale in Gran Bretagna qualcuno si balocca con la storiella dello scienziato credente che cambia idea... solo per far dispetto a Ratzinger!

di mazzetta

Il nome di Jon Postel (Jonathan Bruce Postel) non dirà molto ai miliardi di persone che navigano su internet oggi e probabilmente nemmeno a quelli del futuro, ma nessuno come Postel ha interpretato la figura dell'immaginario folletto che molti immaginano far funzionare i meccanismi misteriosi che faticano a comprendere. Oggi usiamo una miriade di macchine e programmi dei quali conosciamo a malapena l'interfaccia-utente. Ben pochi sanno cosa succede nel motore di un'automobile, come funzionano i freni e gli ammortizzatori, come i cambi moltiplichino e demoltiplichino i giri dell'albero motore e, spesso, la maggior parte dei guidatori è all'oscuro persino dell'esistenza del motorino d'avviamento.

Se si parla di macchine elettroniche la cosa diventa ancora più oscura e, quando si arriva ai programmi che le fanno funzionare o ai protocolli che permettono loro di comunicare con altre macchine, spesso cala un muro impenetrabile che separa le operazioni più elementari riservate all'utente dalla realtà del funzionamento sottostante. Molti sono diventati famosi grazie alla diffusione dei computer e di internet, tutti conoscono il fondatore di Microsoft o di Apple, tutti hanno sentito parlare degli "inventori" di Google o di Facebook, quasi nessuno conosce i nomi di chi ha fondato e costruito Internet come la conosciamo e di chi, come il folletto ricordato sopra, ha lavorato per anni per crescerla amorevolmente ottenendo poca fama e ancor meno ricchezza.

Jon Postel è stato per anni il folletto invisibile che ha retto i destini della rete, che l'ha plasmata e gestita fino a pochi mesi prima della sua morte. Se Vint (Vinton) Cerf è considerato "il padre di Internet", Postel ne è stato sicuramente la levatrice e la madre premurosa dalla nascita della rete fino a quando la morte l’ha colto nel 1998. Diversamente da Cerf e da Steve Crocker; due compagni alla high school e poi alla UCLA, che dalla partecipazione alla nascita della rete hanno raccolto ricchezza ed onori, Postel è stato  un esempio di selfless serving, curando la rete e i meccanismi che la sovraintendono e ponendo con il suo esempio le basi di quella che diventerà poi l'etica hacker, senza mai pensare di monetizzare le sue competenze e senza trarre alcun vantaggio dall'essere pioniere tra i pionieri di quella che diventerà negli anni una vera e propria miniera d'oro.

Il valore dell'eredità e del lavoro di Postel sono stati conosciuti e riconosciuti da molti, ma al grande pubblico rimane sconosciuto e solo una frazione infinitesimale di quanti usano la rete ne conosce l'opera e ne ha compreso i meriti. Jon Postel è stato allo stesso tempo motore, garante, facilitatore e artigiano dell'incredibile processo che ha portato alla trasformazione di una rete di computer locale in quella che poi è diventata l'Internet che conosciamo.

Ha incarnato per anni l'autorità per l'assegnazione degli indirizzi di rete (quella che poi diventerà la IANA), è stato l'editor delle RFC (Request For Comments: la lista di discussione che ha sviluppato tecnicamente e formato la rete), è stato il primo socio della Internet Society, fondatore dell'Internet Architecture Board, membro dell'Internet Engineering Task Force (IETF) e per anni l'amministratore del  dominio di primo livello ".US". Ma è stato anche il formulatore del "principio di robustezza" che ancora oggi  è alla base dei protocolli di comunicazione internet (conosciuto anche come "legge di Postel") e molto altro.

Postel è stato tutto questo, ma soprattutto è stato la persona che ha moderato i rapporti nell'estrosa comunità d'ingegneri e scienziati che nel corso degli anni hanno costruito la rete, l'instancabile facilitatore che ha tirato le fila e dato impulso alle discussioni tecniche e di principio e anche l'artigiano che ha messo le mani nella macchina, da quando era una sbuffante utilitaria fino a quando ha assunto l'aspetto e le prestazioni di una fuoriserie. Per trent'anni Postel ha tenuto il filo e la memoria di tutti i protocolli, gli indirizzi, i nomi, le reti e le discussioni tecniche che nel tempo si sono accumulate nella formazione Internet, oltre a dirigere e fondare molte delle istituzioni e delle società non-profit che si sono occupate dello sviluppo della rete.

Nel suo modesto ufficio alla USC School of Engineering Information Sciences Institute a Marina del Rey Postel ha incarnato a lungo la massima autorità della rete, senza essere stato eletto da nessuno, ma essendo semplicemente il depositario della fiducia di tutti quelli che per tre decenni hanno contribuito alla sua concezione e costruzione. "Se internet ha un Dio, quello è probabilmente Jon Postel", ha scritto a suo tempo l'Economist cercando di descrivere l'enorme lavoro e il potere di Postel sulla rete, potere che gli sarà tolto nel 1998 pochi mesi prima della sua morte, dall'amministrazione Clinton, con un provvedimento che segnerà la fine dell'epoca pionieristica della rete e l'inizio dell'era moderna, caratterizzata dal trasferimento del potere sulla rete governi (in primis quello americano) e dall'influenza delle corporation.

Jon Postel non era più il garante e arbitro della rete e la rete non sarebbe più stata la stessa, il potere che la comunità degli operatori e scienziati aveva affidato a Postel venne trasferito d'imperio al governo americano e all'influenza delle lobby attirate dal progetto delle "autostrade informatiche" fortemente voluto da Al Gore e dai ciclopici investimenti che prevedeva.

La vita di Postel è sempre stata lontana dai riflettori dei media, se si può dire con certezza che il denaro non era in cima ai suoi interessi, si può affermare con altrettanta certezza che il suo carattere schivo e la sua naturale modestia funzionarono da perfetti antidoti alla sua trasformazione in personaggio iconico. Di lui si ricordano la passione per le lunghe camminate nella natura con uno zaino in spalla, l'amore per i gialli di autori inglesi e il look poco convenzionale tendente all'hippy.

In un ricordo di Ira Magaziner, consigliere dell'amministrazione Clinton per lo sviluppo delle reti, si racconta che l'unico incontro al quale Postel fu invitato alla Casa Bianca cominciò con un ritardo di venti minuti perché gli uomini dei servizi segreti non potevano credere che quell'uomo barbuto che si era presentato in sandali e look da sovversivo fosse tra gli invitati. Magaziner dirà poi che osservando la stanza piena di burocrati incravattati: "Mi ricordo che pensai: Questi uomini sono molto preoccupati del posto che avranno nella storia, ma non c'è nessuno in questa stanza che la storia ricorderà, tranne Jon Postel".

Nella sua breve vita (morirà a cinquantacinque anni per complicazioni cardiache) Jon Postel ha contribuito con la sua opera ad accelerare lo sviluppo della rete di diversi anni, a formarne il carattere unico e a stabilire molti dei principi che la reggono e ne rendono possibile il funzionamento, riuscendo allo stesso tempo a essere l'autorità silente che a reso possibile la collaborazione di menti, interessi e aspirazioni tanto diverse senza mai farsi distrarre dall'interesse personale o dalla brama di ricchezza.

Ma, soprattutto, Postel ha incarnato un esempio ineguagliabile dedizione a un progetto, disponibilità all'ascolto e intelligenza al servizio dell'umanità. Un'eredità che sicuramente merita di essere ricordata e trasmessa ai posteri più delle storie di tanti protagonisti dell'epopea digitale, santificati quasi quotidianamente per la loro capacità d'arricchirsi durante la corsa all'oro delle dot com.

 

di Carlo Musilli

Nessuno ti conosce meglio di Google. Se pensavi di usare quella home page colorata come un diario segreto, ti sbagliavi. Le idee politiche, i gusti letterari, cinematografici, sessuali, la religione, le passioni, la banca dove incassi lo stipendio e le e-mail che mandi a tua moglie e alla tua amante. Google sa tutto, perfino dove sei. Lo sa perché ti spia attraverso un buco della serratura gigantesco, fatto di siti internet, software e cookies (piccoli file testuali usati, fra l’altro, per “tracciare” l’attività di chi naviga).

Dopo di che ti scheda: il tuo profilo rimane conservato per un anno e mezzo in un database infinito, ramificato in 450mila server sparsi nel pianeta. Lo rivelano due inchieste di Repubblica e del Wall Street Journal. Il motivo di tutto questo? Il modo migliore per fare soldi è vendere pubblicità, la pubblicità migliore è quella che ti conosce. Il problema del target non esiste più, in qualsiasi sito tu vada troverai inserzioni di prodotti e servizi che ti calzano a pennello.  Lo chiamano "behavioral advertisement": violento, invadente, dannatamente efficace.

Il percorso è stato lungo. Per anni Google resiste alla tentazione di usare metodi aggressivi nella raccolta di dati a fini pubblicitari, ritenendo che possa rivelarsi un boomerang a livello d'immagine. Ma il rapido emergere di concorrenti abituati a tracciare l'attività online degli utenti, per poi rivenderne gli identikit, costringe Google a cambiare politica. A poco a poco i due fondatori, Sergey Brin e Larry Page, si convincono della possibilità di sfruttare l'enorme quantità di dati a loro disposizione senza per questo fare un torto agli utenti. "I fondatori ritengono in questo modo di poter migliorare l'esperienza degli utenti sul web - sostiene Alma Whitten, capo del Privacy Council dell'azienda - ciò che va bene per il consumatore, va bene per l'inserzionista".

In verità, il signor Page ci mette parecchio ad abbandonare le sue posizioni: fino all'ultimo continua a professare il "contextual targeting", che consiste nel pubblicizzare su una pagina web un prodotto coerente con l'argomento trattato nella pagina stessa. Risultato: fino al 2006 Yahoo massacra Google sul mercato della pubblicità online. I top-manager di Mountain View non si danno pace e nel 2007 riescono a far acquistare all'azienda la DoubleClick, impresa regina della pubblicità visuale su Internet. Più di tre miliardi di dollari per far amare i cookies a Mr. Page.

Finalmente Google inizia a istallare i ‘file spioni’ sui pc dei suoi utenti, ma ancora per qualche mese evita di usarli. Nuove resistenze dai vertici. Stavolta non da Page, ormai convertito, ma da Brin. Nel corso di un meeting leggendario fra i dipendenti di Mountain View, i due tycoon arrivano a urlarsi in faccia. Alla fine prevalgono le ragioni della ‘pubblicità personalizzata’. Il servizio parte a marzo del 2009, riservato a un ristretto gruppo di facoltosi inserzionisti.

Se per anni il sito più potente è stato quello con il maggior numero di visitatori, oggi non è più così: il vero leader è quello con il database più ricco. E Google è invincibile. Non solo ha il maggior numero di account schedati, ma anche il maggior numero di informazioni per singolo utente. Nel 2009 l'azienda ha vinto la medaglia d'oro per il fatturato, con 23,7 miliardi di dollari. Più del triplo dei guadagni di Yahoo, medaglia d'argento. Ma la minaccia più seria per Google non viene dagli altri motori di ricerca; il vero nemico è Facebook. Il social network più importante della rete è in grado di vendere pubblicità con target dettagliatissimi dei suoi utenti (più di 500 milioni di persone).

Bisogna correre ai ripari: Google sta già progettando il suo nuovo servizio di social network. Non solo, l'azienda di Mountain View intende copiare da "Facebook" anche qualcosa di più specifico, il bottoncino "Mi piace". Chiunque abbia un profilo in rete lo conosce, anche se di solito lo considera un particolare insignificante, un quadratino su cui cliccare distrattamente per comunicare a qualche centinaio di amici cose come "mi piace il crème caramel", "mi piace lady Gaga". Non è una sciocchezza, ma una vera e propria miniera d'oro. Riuscite ad immaginare quali formidabili profili da "behavioural advertisement" si possano creare con informazioni del genere?

In ogni caso, l'attentato alla nostra privacy non è mortale. Esiste perfino un margine di discrezione. Ad esempio, Google non utilizza i dati raccolti da uno dei suoi servizi per inseguirvi con pubblicità personalizzate in qualsiasi angolo sperduto del Web. E' vero, se avete un account Gmail, Google non si fa problemi a ficcare il naso in quello che scrivete e che ricevete, ma solo per spiattellarvi la pubblicità più azzeccata la prossima volta che aprirete la stessa pagina di Gmail.

Non è questa una gran consolazione e Google lo sa, per questo si affretta ad assicurare che "la maggior parte" delle informazioni raccolte non sono associate all'utente tramite il nome, ma attraverso un codice numerico. Si fa fatica a capire quale dovrebbe essere la parte rassicurante: anche se compariamo sotto forma di numeri, in realtà il nostro anonimato è lasciato al buon cuore di chi ci controlla. Per risalire al nostro nome non ci vuole davvero un hacker; basta un nostro accesso in Facebook o nella posta elettronica e il gioco è fatto.

Com’era prevedibile, la rete è piena di post in difesa di Re Google. Si dice che nel mondo di internet i dati che ti riguardano non sono di tua proprietà finché non ti preoccupi di proteggerli. In effetti, un modo per impedire ai siti di “tracciarti” esiste, ma scoprire quale si è lasciato alla tua abilità. L’obiezione più ragionevole è però quella che pone l’accento sui rapporti economici: se siti come Google, Facebook o Yahoo non avessero fatto pubblicità personalizzata, non avrebbero mai avuto i milioni di dollari necessari a sviluppare i servizi di cui tutti noi oggi godiamo.

Una contropartita c’è, quindi. Ma il punto è che la maggior parte degli utenti non aveva compreso di dover dare qualcosa in cambio.  E’ facile prendersela con l’insipienza di molti frequentatori del Web: navigare senza sapere cos’è un cookie - si dice - è come iniziare a fumare senza sapere che fa male. Peccato che sui pacchetti di sigarette sia almeno scritto a caratteri cubitali che “il fumo uccide”, mentre sotto il logo colorato di Google nessuno ha mai specificato “ti sta guardando”.

 


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