di Mario Braconi

Ridere aiuta a vivere, e tutti vorremmo farlo di più. Istintivamente, sappiamo che, dopo una bella risata, e perfino dopo un ghigno sarcastico, ci si sente meglio; eppure per tutti, scienziati compresi, restano alquanto misteriosi i meccanismi neurologici, sociali e psicologici alla base di quella liberatoria reazione nervosa che ci fa scoprire i denti, scuotere la gola e muovere una serie di muscoli della faccia e della zona addominale. Proprio per dotare di fondamenta quanto più solide possibili una potenziale futura “teoria generale della risata”, un gruppo di specialisti si sono dati appuntamento lo scorso gennaio ad una conferenza a San Antonio (California), di cui dà conto il numero di maggio di Wired USA.

Star dell’evento, Peter Mc.Graw, 41 anni, Professore di Marketing e Psicologia alla University of Colorado, e papà del Humor Research Lab (HuRL, ovvero Laboratorio di ricerca sull’umorismo). Benché i suoi metodi, la sua formazione e i suoi assunti, discorsivi e poco formalizzati, abbiano fatto storcere il naso a qualche collega, il rigore scientifico del professore è fuori discussione. Prova ne sia la serietà con la quale si è messo alla ricerca della verità scientifica definitiva su un dato che il comune consumatore di marijuana considera un fatto: fumare aumenta il nostro senso dello humour?

Tramite un sito di crowdsourcing (organizzazione del lavoro in Rete), il Laboratorio ha incaricato 50 appassionati di “erba” di valutare la comicità di alcune foto buffe un quarto d’ora dopo aver assunto la sostanza. Mc. Graw anticipa che secondo lui la risposta sarà positiva, ma per averne certezza, avrà bisogno di altre cavie, per chi è interessato, la ricerca è ancora aperta. Si noti, incidentalmente, come lo HuRL, a dispetto della natura non sempre ortodossa delle ricerche che conduce, riceva fondi da grandi corporation, quali IBM, Pfizer e Bank Of America.

E’ la prova che perfino abbandonarsi ad una risata, nel nostro mondo post-moderno, è divenuto evento “economico”, e pertanto serissimo: si pensi ai soldi che uno studio di produzione cinematografica mette a rischio investendo su un film comico che proprio non fa ridere (succede di continuo); o alla pessima figura fatta dal sito GroupOn che, per farsi pubblicità, non ha esitato a coinvolgere Timothy Hutton in uno spot che qualche “creativo” evidentemente riteneva divertente, ma che si rivelato offensivo nei confronti del popolo tibetano.

Grazie al suo empirismo “da improvvisato”, Mc. Graw la mette così: ridere è un po’ come il solletico. A chi non piace un po’ di solletico? E quando il solletico cessa di essere un piacere? Quando a solleticarci siamo noi stessi (non funziona) o uno sconosciuto con un impermeabile addosso... Insomma, secondo Mc. Graw, il solletico, come l’umorismo, è una piccola violazione della nostra intimità, ma praticata da qualcuno che conosciamo bene, che ci piace o per lo meno che ci piace abbastanza da perdonargli la trasgressione.

In generale, secondo Mc. Graw ed il dottorando Caleb Warren, “la risata ed il divertimento derivano da violazioni, che però sono considerate non malevole”. La violazione può riguardare un po’ tutti i campi: quella della dignità (difetti fisici e a situazioni umilianti), delle regole linguistiche (paronimie, giochi di parole, accenti ridicoli), delle convenzioni sociali e della morale dominanti in un gruppo omogeneo.

Ovviamente, la violazione tende a diventare più benigna quando la persona che la pratica non è fortemente coinvolta nella regola violata; oppure man mano che aumenta la distanza psicologica rispetto ad essa (nel caso si parli di cose accadute a qualcun altro, oppure molto tempo fa, oppure ancora di una situazione irrealistica); ovvero quando si può immaginare una spiegazione alternativa alla violazione (ad esempio, la finta lotta che si ingaggia qualche volta con i bambini, che reagiscono con urla di entusiasmo ed ilarità è dovuta al fatto che si tratta in fin dei conti di un “attacco” alla loro persona, violazione dunque, che però ha anche la caratteristica distintiva di non costituire un vero pericolo, ovvero benigna).

Il ragionamento di Mc. Graw, nella sua disarmante semplicità, risulta convincente, almeno nella gran parte dei casi: perfino gli scherzi basati sugli stereotipi su donne ed omosessuali rientrano nella casistica, perché a chi si diletta di battute misogine ed omofobiche l’aspirazione alla “normalità” di queste persone costituisce, nel contesto, una “violazione”, anche se non pericolosa.

Per la cronaca, va comunque annotato che quando, a margine dell’evento, il professore si è confrontato con Louis CK, un noto stand-up comedian, per presentargli le sue tesi, l’attore gli ha risposto con grande freddezza che la comicità è fenomeno assai più complesso di quanto Mc. Graw vorrebbe dare a credere. Non è tutto: quando un complice di Mc. Graw confuso tra il pubblico ha detto a CK che una donna era interessata a conoscere le dimensioni del suo pene, questi si é rifiutato di rispondere e ha fulminato il tentativo successivo di Mc. Graw di fare dell’ironia sul diniego (“Per quanto ne so, rispondono così solo quelli che ce l’hanno piccolo”). A quanto sembra, non c’è nessuno meno bravo a scherzare degli scienziati che studiano l’umorismo; e nessuno meno spiritoso dei comici di professione.

 

 

di Rosa Ana De Santis

Il film é da qualche giorno nelle sale, dove misura un buon successo. Si dice da più parti che al successo abbiano concorso in modo determinante proprio le ire e le stroncature della stampa vaticana, Avvenire in testa, che ha duramente criticato il film attraverso la lettera del vaticanista dell’Agi, Salvatore Izzo. Da dove viene tanta acrimonia? Il film ritrae la figura di un Papa appena eletto che sente di essere inadeguato al ruolo di guida della Chiesa Cattolica di cui il Conclave l’ha appena investito. Un’invasione della psicoanalisi e dell’umanità nella santità dell’occasione che finora, tra le fonti cattoliche, ha suscitato più curiosità che biasimo.

A pochi giorni dalla beatificazione di Woityla non c’è dubbio che quest’affresco impietoso in cui i cardinali diventano spesso personaggi caricaturali e il Pontefice viene ritratto in un atteggiamento troppo umano, viene tolto fascino e mistero ai segreti custoditi nella Chiesa.

A pochi giorni dal Papa beato il film acquista un sapore decisamente provocatorio. Nella conferenza stampa di presentazione Moretti aveva tenuto ad evidenziare che non c’è alcuna sovrapposizione tra il protagonista e il papa polacco, ma la concomitanza di eventi calamita attenzione anche da parte del pubblico. Secondo Izzo è proprio questa la trappola del regista. Il film, così addentro alla Chiesa, annoierebbe il pubblico laico e cercherebbe il successo proprio dai cattolici di cui nello stesso tempo offenderebbe religione e autorità ecclesiale.

Avvenire precisa che la lettera non rappresenta automaticamente la linea del quotidiano, ma non c’è dubbio che le parole di Izzo hanno il sapore di un autentico boicottaggio. Quello contro cui si sono espressi altre fonti e autorevoli personaggi del panorama cattolico. Radio Vaticana che ha commentato il lavoro di Moretti come un’opera affatto anticlericale, Zeffirelli, Vittorio Messori e lo stesso vescovo Mogavero, che si riserva di andare a vederlo prima di esprimere giudizi.

Non c’è dubbio che la figura dello psicoanalista che cerca di guarire la vulnerabilità di un futuro Pontefice mette attenzione e insinua dubbi su uno dei dogmi principali e più controversi in seno alla storia della Chiesa Cattolica. Il primato di autorità del Vescovo di Roma come successore di Pietro, infatti, e il dogma dell’infallibilità ex cathedra, pone una frattura importante tra il Papa uomo e il Papa rappresentante di Dio sulla terra. E ripropone quindi l’intera questione della Riforma protestante e del disconoscimento delle chiese cristiane d’Europa all’autorità di Roma, che dal Papa in giù, pone i presbiteri in una posizione di dottrina molto diversa da quella dei pastori protestanti.

Se Moretti prova a scansare le polemiche e propone il suo lavoro come un raffinato e quasi ludico gioco di psicoanalisi, non può certamente negare che aver proposto tutto questo in un ambiente sacro costituisce un atto di “umana violazione” di una scelta e di un’elezione che la storia della Chiesa pone al vertice della sua santa potestà. Una gustosa sfida insomma, che mette un po’ di nervosismo alla CEI che, non a caso, decide di dare ampio spazio all’invito di Izzo a disertare il botteghino senza voler cadere nel boomerang della censura ufficiale.

Su un dato la polemica del vaticanista ha certamente ragione: saranno i cattolici forse i più desiderosi di vedere la scena di un Papa che non si affaccia alla finestra dopo la fumata bianca. Sono loro e non gli agnostici a vivere quel momento con vibrazione e misticismo, loro i più colpiti da questo ritratto della Chiesa, privo di fede. Questo affresco di una Chiesa fatta solo di uomini, dei loro vizi e tormenti, così come Moretti la immagina, può prestarsi anche ad una serie di riflessioni che non sono poi così estranee al mondo dei credenti.

Senza dio, il clero diventa solo una sfilata di tratti umani privi di qualità e di particolare valore spirituale. Senza dio il Papa è solo un uomo cui non sono risparmiate debolezze e bisogni. E forse la Chiesa, quella di oggi e quella di tanta storia passata, non ha sempre avuto dio dalla sua parte. Magari c’è anche questo nel film, in una finzione che non è priva di veridicità. Chi pensa che questo offenda la fede dei cattolici rimarrà deluso. Il paradosso di un papa spaventato e inadeguato serve a dirci quello che la storia ha comprovato ben prima di Moretti e non in una finzione scenica: l’umanità della Chiesa.

Del resto, a chi s’infastidisce per l’ombra che questo pone sulla celebrazione di Giovanni Paolo II, dovrà essere ricordato che fu lui il primo, se pur in ritardo, a ricordare l’umanità della Chiesa, chiedendo scusa per i crimini, i peccati e gli orrori commessi in nome di dio. Un dio che non c’era, come non c’è nella Chiesa di questo film.

 

di Vincenzo Maddaloni

Basta la morte violenta a Gaza di un giovane del nostro tempo come Vittorio Arrigoni perché ritornino in mente gli obiettivi della politica del “Grande Medio Oriente” lanciata dall’amministrazione Bush, e poi ribattezzata “Nuovo Medio Oriente” (New Middle East) dal presidente del CFR (Council on Foreign Relations) Richard Haass nella rivista Foreign Affairs. A noi italiani quegli obiettivi ridiventano d’attualità dopo questa uccisione orrenda, anche se nella realtà planetaria non sono mai venuti meno, se non all’attenzione dei Media. Essi si riassumono in un impegno che così suona: «Dobbiamo costruire un vero e proprio partenariato che leghi Europa e America ai paesi del Vicino e Medio Oriente per lavorare insieme con i paesi e i popoli di tali regioni in un’ottica che permetta di raggiungere obiettivi comuni».

Era stato sottoscritto dal Cancelliere Schroeder e dal Presidente Bush il 27 febbraio 2004, a Washington, in occasione della firma della “Alleanza tedesco-americana per il XXI secolo”. Naturalmente, il presidente Obama s’è impegnato a mantenerlo in vita, poiché tra le priorità assolute c’è quella di integrare Israele nell’architettura politica, economica e militare euro-atlantica. L’intento, infatti, è di far riconoscere allo Stato ebraico il titolo di pilastro del giudaismo in modo di poterlo associare agli altri due pilastri (il giudaismo europeo e americano) e ottenere così un unico punto di riferimento per il mondo intero. La seconda fase, peraltro già in atto, prevede il coinvolgimento nelle conquiste della globalizzazione delle popolazioni del Vicino e Medio Oriente senza l’accondiscendenza delle quali la nuova costruzione geopolitica non potrebbe essere realizzata.

Più si riflette su queste evidenze e più cresce il sospetto che quella sigla “salafita” appiccicata sull’assassinio di Vittorio Arrigoni sia stata usata perché si riversasse sul mondo islamico l’esecrazione che è in perfetta sintonia con quanto prevedono la politiche imperniate sulla destrutturazione dello stato e della civiltà dei paesi musulmani. Accade, perché il Mercato, incalzato dalla crisi finanziaria, ha la certezza di crescere - è opinione diffusa tra gli economisti - soltanto se riesce a stivare il mondo musulmano all’interno della nuova costruzione geopolitica.

Spiega lo storico francese Pierre Hillard (http://www.mecanopolis.org/?p=22597), un esperto come pochi altri, che gli sconvolgimenti in corso nei paesi musulmani, «sono stati incoraggiati perché si vuole sviluppare un nuovo ordine mondiale che é più che un’ideologia. E’ una fede, una mistica. Si tratta di favorire ovunque l’emergere dei blocchi continentali europeo, africano, nordamericano o sudamericano politicamente unificati e poggianti su leggi comuni.

L’insieme di tali blocchi deve costituire l’architettura generale di un governo mondiale che riunisca un’umanità indifferente e nomade. Questa politica prende già forma con la creazione di un’assemblea parlamentare mondiale in seno alle Nazioni Unite sotto la direzione del tedesco Andreas Kummel. Una valuta mondiale deve strutturare l’insieme. Il FMI ha già perorato la causa in favore di una moneta globale (il Bancor) governata da una banca centrale mondiale (Accumulo di Riserve e Stabilità Monetaria Internazionale). Questo implica l’abbandono del dollaro e una riforma completa del sistema finanziario mondiale».

Beninteso, è pure questa una delle tante deformazioni del capitalismo che è nato in Europa, vi si è sviluppato nei secoli e si è esteso al resto del mondo. Anzi, questa estensione è stata proprio una delle forme di sottomissione (leggi colonialismo) di gran parte del mondo all’Occidente che ha prodotto l’America imperiale. Ragion per cui, agli occhi di milioni di musulmani si dipana una realtà a loro in larga parte incomprensibile, poiché nelle loro nazioni le fortune eccessive sono il più delle volte confiscate, quando non vengono utilizzate nelle celebrazioni religiose.

Queste società non lottano contro un capitalismo, un “modello americano” che ignorano, ma per la loro conservazione, per tutelare un equilibrio tra le diverse forze sociali. Anche perché l’Islam non si basa sulla distinzione tra il potere temporale e quello spirituale come accade nella civiltà cristiana che appunto non fonde le due parti. L’Islam è allo stesso tempo una fede e una legge, anche se a volte, il credente l’accetta a denti stretti.

Un esempio tra i tanti è l’Iran dove il “Rinascimento persiano”, quello dei poeti che cantavano l’amore e il vino, dei palazzi fastosi, dei veli e dei cuscini, quello delle miniature con i volti languidi dei cavalieri che tanto eccitavano Byron e poi Chatwin, è agli antipodi del puritanesimo imposto dagli ayatollah. Che comunque viene tollerato, se non accettato, perché manca un'alternativa laica e popolare.

Dopotutto l'Islam è una forma di coscienza umana e sociale, è una civiltà, è una religione come tutte le altre che é stata riconosciuta ufficialmente anche dalla Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II (1962-1965) come una religione autentica che adora il vero Dio e persegue, con la sua morale e la sua legge, il bene.

Tuttavia, il fatto che l’Islam non contempli la distinzione tra il potere temporale e quello spirituale, mal si concilia con lo sviluppo di un nuovo ordine mondiale, che sarebbe amministrato con una valuta mondiale a sua volta controllata da una banca centrale mondiale. Il tutto è ritenuto necessario per poter raggiungere l’unità del consenso sul modo nuovo di pianificare un’esistenza che dovrà essere intrisa di desiderio consumista e di edonismo sfrenato senza i quali, sostengono i promotori, il nuovo ordine non si consoliderebbe. Dunque non soltanto Coca cola e MacDonalds , bensì una “filosofia” vera e propria come formula dell’esistenza dovrebbe etichettare il ventunesimo secolo.

Eppure, soltanto qualche anno fa Kofi Annan, l’ex segretario delle Nazioni unite avvertiva: «In quest’epoca di globalizzazione i valori universali sono divenuti più che mai necessari. Ogni società deve essere unita da valori condivisi affinché i suoi membri siano consapevoli di ciò che possono aspettarsi gli uni dagli altri e sappiano che esistono dei principi fondamentali, capaci di armonizzare in modo incruento le differenze sociali».

Ma certamente non si riferiva al nuovo ordine mondiale disegnato dalle esigenze del mercato e dell’economia. Dopotutto non occorrono studi profondi per capire che l’Islam così com’è strutturato non può rientrare nella configurazione auspicata ed è ben difficile che vi rientri in un prossimo futuro, in mancanza anche di una società civile come noi l’intendiamo che non è mai potuta nascere perché il Corano non la prevede.

Tuttavia gli sponsor del nuovo ordine mondiale non si scoraggiano e siccome la prima tappa che si sono prefissati è disegnare il “Nuovo Medio Oriente”, sono ripartiti alla grande. Lo si è visto in Tunisia e in Egitto e, a sentir loro, con risultati ottimi per il progetto che hanno in mente. Perché, come spiega “Freedom House”  (http://www.altrenotizie.org/esteri/3813-egitto-il-dissenso-nel-bollitore.html) «i borsisti di Freedom House hanno acquisito competenze nella mobilitazione civica, leadership e pianificazione strategica e beneficiano delle opportunità del networking, attraverso l’interazione con diversi sostenitori privati, le organizzazioni internazionali e i media con uffici a Washington. Dopo il ritorno in Egitto, essi hanno ricevuto altre sovvenzioni con l’impegno di destinarle a nuove iniziative di propaganda politica impiegando Facebook e gli Sms».

Sono affermazioni che, diffuse in modo sapiente, hanno in tutto il mondo risvegliato più di qualche speranza sui progressi di natura socio-economica che si vogliono ottenere, e su quali sono le realtà che vanno smosse per ottenerli. Tuttavia ha ragione Giovanni Sartori sul Corriere quando scrive che «chi proclama, in Occidente, che le “rivoluzioni arabe hanno seppellito l'islamismo” parla a vanvera con poca conoscenza di causa».

Si tenga a mente che l’islamismo si è diffuso in modo esponenziale dopo la crisi del socialismo reale e i conseguenti mutamenti degli assetti geopolitici. In un mondo diviso in due blocchi i Paesi musulmani avevano spazi sui quali potevano muoversi e agire purché avessero rispettato gli assetti globali. Non gli è stato più possibile dopo l’implosione dell’Urss. Anzi, la situazione è per loro per molti versi peggiorata perché dopo il crollo dell’ “Impero del male” i nuovi detentori del potere mondiale hanno inventato l’ “Asse del male” per giustificare e consolidare la propria  egemonia.

Infatti, i fondamenti teorici del progetto americano che hanno portato alla guerra all’Iraq sono il risultato del lavoro intellettuale e politico di un piccolo nucleo di neoconservatori. E’ una configurazione che mette insieme il fondamentalismo cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, per certi versi seducente nella sua perversione. Avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana si è proiettata verso l'esterno assumendo la forma di una politica aggressiva, unilaterale e arrogante.

È questo il “ blocco ” che ha guidato l'intervento in Iraq e altrove, giustificando la violenza e smentendo i propri discorsi altruistici. Il presidente Obama non ne ha preso le distanze, la sua politica - lo si è visto anche di recente - non è cambiata perché è difficile da modificare avendo essa una radice indissolubilmente nazionalista e costantemente rivolta all'esterno  che suggella la desecolarizzazione crescente dell'elemento politico e dello Stato in America.

Va pure aggiunto che il Socialismo reale è crollato perché ne era entrato in crisi il programma, e il Capitalismo ha vinto benché non avesse alcun programma da proporre in alternativa. Beninteso, la sua rimane una vittoria epocale, ma senza avere alcuna idea costituente da realizzare, senza nessun progetto per il dopo-muro. Il Capitalismo impera perché sul versante opposto l’ideale socialista, benché vivo, è incapace di raggrumare le forze necessarie per riproporsi come alternativa.

Tuttavia per entrambi gli schieramenti diventa problematico, sebbene sia a loro indispensabile, l’avvicinamento alle realtà musulmane perché entrambi vi inciampano a causa della fusione tra spirituale e temporale propria dell’Islam. Infatti, parlare d’integrazione del mondo musulmano verso i principi del nuovo ordine mondiale significa che ciò può essere realizzato solo modificando radicalmente i loro riferimenti religiosi e, per estensione, politici, economici, sociali e psicologici. Perché possa realizzarsi si devono promuovere le lotte tra i sunniti e gli sciiti, tra i musulmani e i cristiani, fino a portarli a un confronto brutale con il sionismo.

Quello che è accaduto negli ultimi tempi e accade ogni giorno conferma che l’ondata di ribellione ben supportata non si arresta. Anzi s’ingrossa come i potenti auspicano perché le masse sono sempre utili come strumento di supporto a una politica ben definita. Infatti, “Agitare il popolo prima di servirsene”, raccomandava il principe, vescovo, politico Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, detto anche semplicemente Talleyrand. Lui sì che se ne intendeva.

 

 

 

 

 

 

 

 

di Mario Braconi

Quando una persona si macchia di delitti di particolare crudeltà, il nostro riflesso automatico è dirci che si è comportata in quel modo “perché è cattiva”. Una spiegazione semplicistica che ovviamente non può soddisfare uno scienziato come Simon Baron-Cohen, professore di Psicopatologia dello Sviluppo presso l’Università di Cambridge e grande esperto di autismo. In un’intervista pubblicata sul sito di The New Scientist del 13 aprile, Baron-Cohen ripercorre assieme al giornalista i temi del suo ultimo libro (Zero Degrees of Empathy, ovvero Zero gradi di empatia), in uscita in questi giorni in Gran Bretagna.

Secondo il professore, da un punto di vista scientifico, per trovare una spiegazione (e una cura?) per il Male, il concetto di “mancanza di empatia” funziona molto meglio di quello di “cattiveria”. A differenza del Male (o del Bene, se è per questo) l’empatia di un individuo può essere misurata in modo scientifico, così com’è possibile studiare i fattori che la influenzano, in positivo o in negativo; secondo l’opinione scientifica correntemente accreditata, infatti, all’empatia sono deputate una decina di regioni del cervello interconnesse (un’area che Baron-Cohen definisce “circuito dell’empatia”).

In effetti, quella di empatia non è un’idea semplice: più che altro si può definire un termine sotto il quale va ricompreso un intero processo; come minimo, si può distinguere tra empatia cognitiva (ovvero la capacità di comprendere gli stati d’animo altrui) ed empatia affettiva (cioè la capacità di agire una risposta emotiva a quanto accade al proprio prossimo). Secondo Cohen, se distribuissimo su un diagramma le frequenze con cui si riscontrano nell’universo umano i livelli di empatia distribuiti lungo lo spettro (dalla persona a “empatia zero” al “super-empatico”), avremmo una distribuzione “normale”, o “a campana”: una grande massa delle frequenze rilevate a fronte di livelli di empatia medi, con i casi estremi caratterizzati da frequenze molto basse.

Inoltre, gli individui che negli appositi test mostrano livelli di empatia “zero” non possono essere considerati tutti alla stessa stregua. Baron-Cohen distingue infatti tra “zero negativi” e “zero positivi”. Alla prima categoria appartengono i casi difficili (disturbo borderline della personalità, psicopatici conclamati, schizofrenici), che possono eventualmente migliorare la loro condizione solo tramite trattamento; al secondo, gli autistici, che spesso accompagnano qualche talento specifico al loro inesistente livello di empatia.

Ma quali sono i fattori che influenzano i livelli di empatia di una persona, l’ambiente in cui nasce e ci si sviluppa o i geni che ci si ritrova? Baron-Cohen ritiene che a questa domanda non si possa dare una risposta netta. In effetti, il livello effettivo di empatia riscontrabile in ogni individuo in un determinato istante è funzione della complessa interazione tra geni e ambiente. Benché il professore rifiuti nettamente l’etichetta di sostenitore di un “determinismo biologico spinto”, egli conferma i geni possono avere un ruolo (anche rilevante) nella determinazione del livello di empatia di un soggetto.

Ciò premesso, i bambini che crescono non potendosi fidare degli adulti perché sono stati picchiati, o quelli che non hanno idea di quando vedranno i propri genitori la prossima volta hanno ottime probabilità di crescere come individui “zero negativi” e di sviluppare gravi disturbi quando non di diventare persone pericolose per sé e per gli altri. Niente di nuovo dunque: la ricerca scientifica ribadisce ciò che ogni persona con un po’ di buon senso capisce intuitivamente: l’amore e l’attenzione sono una medicina (o una vitamina) molto potente e costituiscono il seme di una società sana.

Eppure occorre prestare attenzione ai guai della propaganda politica, la cui funzione è spesso quella di degradare l’uomo, trasformando l’avversario in “nemico” e il nemico in “cosa”, non più persona (un fenomento che Baron-Cohen definisce “erosione dell’empatia”). Nè si può trascurare il fatto che, anche se la predisposizione genetica alla bassa empatia non è una sentenza inappellabile, i tentativi di rettificarla comporta sforzi intensi e risultati incerti.

Questo, in qualche modo sembra contraddire le premesse di Baron-Cohen: a questo punto bisogna infatti ammettere che esistono individui “cattivi”, o se si preferisce, dotati di bassa propensione all’empatia, non per colpa propria, ma per la storia scritta nel loro DNA. La buona notizia, invece, è che una persona con alta empatia tende a mantenere la sua naturale tendenza anche in presenza di meccanismi sociali e culturali dissuasivi.

Insomma, conclude Baron-Cohen, sviluppare l’empatia può davvero migliorare la società meglio di quanto riescano a fare la legge, il sistema carcerario e le armi: senza contare che l’empatia è gratis e che, a differenza delle religioni, non opprime nessuno. Se solo i nostri politici e i nostri intellettuali potessero far proprio e diffondere qualcuno di questi concetti, forse potremmo essere testimoni di un cambiamento autentico.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Debutta allo Yaam di Berlino, in Germania, il nuovo tour europeo degli Africa Unite, il gruppo più rappresentativo del panorama reggae italiano, tornato al successo nel 2010 con l’album Rootz e attualmente impegnato a festeggiare trent’anni di carriera. A creare gli Africa Unite sono Bunna e Madaski nel 1981, in occasione della prematura scomparsa di Bob Marley, come in una sorta di dedica costruttiva e perenne alla memoria: il nome del gruppo, “Africa Unite”, viene dall’omonima canzone di Marley.

Da allora il gruppo ha mantenuto una produzione musicale costante negli anni e in continua evoluzione, fino a diventare un’icona anche nel contesto reggae internazionale. Dopo Berlino, il tour europeo 2011 passerà per Den Haag, Bruxelles, Londra, Dublino, Parigi, Madrid, Barcellona, Valencia e Lugano.  Ed è a Berlino che li abbiamo incontrati e abbiamo avuto Bunna ai nostri microfoni.

Gli Africa Unite sono un’icona del reggae made in Italy e non solo; una band che, in trent’anni di carriera, ha sempre cercato uno stile proprio. Nel 2000 avete cominciato con Vibra un percorso elettronico, per arrivare all’elettro dub di Controlli nel 2006. E ora, dopo quattro anni, arriva il nuovo disco Rootz, che significa “radici”.

Rootz è uscito a marzo dell’anno scorso e l’abbiamo chiamato così per due motivi. Uno, perché raccoglie tutte le ispirazioni che hanno originato la passione degli Africa per il reggae negli anni, da Bob Marley agli Steel Pulse, che sono gruppi che ci piacevano allora e ci piacciono tuttora molto, così come un certo tipo di reggae legato alla dub poetry, vedi Linton Kwesi Johnson e via dicendo. E in Rootz ci sono proprio tutte le sfaccettature che ci hanno fatto amare il reggae e ci hanno fatto cominciare a suonare. Due, Rootz recupera tutti quelli che sono i canoni del genere, della musica jamaicana, quindi è un disco assolutamente di reggae classico, ortodosso e quindi fedele a quelle che sono le regole del genere stesso, soprattutto rispetto al disco precedente del 2006, Controlli, che ha un suono tra virgolette più europeo, più elettronico. Quindi Rootz, radici in questo senso.

Al di là dell’evoluzion musicale, il filo conduttore della musica degli Africa negli anni rimane comunque l’impegno sociale, la denuncia delle ngiustizie. Con i testi cercate sempre di dire qualcosa d’importante.

Si, in effetti abbiamo sempre cercato di dire delle cose con la nostra musica. La musica è sicuramente un mezzo per divertirsi, per socializzare e stare insieme, però i musicisti dovrebbero allo stesso tempo cercare di far passare dei messaggi. Così come Bob Marley all’inizio, il reggae è sempre stato una musica dall’attitudine un po’ rivoluzionaria e, comunque, portatrice di messaggi. Gli Africa vengono proprio da una scuola di questo tipo. Certo, noi abbiamo sempre cercato di farlo a modo nostro, raccontando di situazioni che ci circondano, magari proprio italiane, perché non ci piace andare a scimmiottare situazioni che non ci appartengono. Non siamo giamaicani, non siamo nati né vissuti a Kingston, quindi scegliamo di non raccontare quelle tematiche che i gruppi reggae solitamente trattano, ma che sono lontane dal nostro modo di vedere le cose. Sarebbe poco credibile che un gruppo italiano si lanciasse in questi temi. Nel nostro piccolo, abbiamo sempre cercato di denunciare quello che ci sembra il caso di denunciare e, allo stesso tempo, di allontanare un po’ dall’immaginario solito i luoghi comuni legati al reggae, come l’uso della marijuana e il rastafarianesimo, due cose che noi non pratichiamo.

Mi sembra molto interessante. Soprattutto ora, in assenza di grandi movimenti sociali o d'opinione, è interessante vedere come la musica impegnata possa comunque ritagliarsi una cornice di centralità culturale…

Sicuramente, chiaro che non è facile, soprattutto in Italia, dove c’è una situazione molto triste, preoccupante. L’ideologia comune è che sembra sempre che è tutto a posto, che non c’è niente di cui preoccuparsi, niente per cui sia il caso di lottare. Giorno per giorno ci tolgono sempre più libertà senza che quasi ce ne accorgiamo e ci sono tutti presupposti per sollevarsi, per fare una rivoluzione. Noi non abbiamo la presunzione di voler cambiare il mondo, però almeno suggerire degli spunti di riflessione, il fatto di pensare è già un’ottima cosa, il fatto di porsi delle domande e di andare un po’ a fondo nelle questioni e crearsi un’opinione personale. Se ti affidi agli strumenti di comunicazione di massa, l’indirizzo che ti danno è sempre teso a creare un’opinione di un certo tipo.

A questo proposito avete scritto “Cosa resta”, l’ultimo brano di Rootz, un pezzo che denuncia la farsa mediatica, “lo strumento di distrazione dell’attenzione”…

Certo, in un sistema sociale e politico come l’Italia siamo veramente in balia di quello che ci viene propinato. Bisognerebbe rendersi conto che c’è un modo per trovare l’informazione reale, c’è modo di informarsi, e la rete è una cosa importantissima e, per fortuna, è ancora una fonte libera ed è abbastanza anarchica. Si possono andare a cercare le cose e, con un minimo di approfondimento, si può capire veramente come stanno le cose. Chiaro che affidarsi alle televisioni, alle radio… purtroppo in Italia siamo ibernati in un sistema che punta molto sui media per creare il consenso e per accrescere il proprio potere. E proprio da questo bisogna prendere le distanze… sarebbe importante pensarci.

E soprattutto pensare…

Esatto, è proprio la cosa che non vogliono farci fare. Sembra sempre che, finché c’è “Il grande fratello” e “L’isola dei famosi”, finché hai 20 euro per fare la benzina o la ricarica al cellulare,  è tutto a posto. Purtroppo il retroscena è molto più grave e pesante. Gli operai perdono il lavoro, gli studenti non sanno cosa faranno, ci sono problemi che magari non ci toccano direttamente ma che fanno sì che la società italiana viva una situazione molto triste.

Abbiamo parlato della rete e della sua importanza per l’informazione. E per la vostra musica, la rete è stata un aiuto?

Chiaramente anche noi ne abbiamo avuto bisogno. Certo, la vendita dei dischi in questi ultimi anni è scesa molto, un problema forse legato ai pochi soldi che la gente ha, o alla facilità con cui si possono scaricare i pezzi. Eppure il fatto che la musica possa circolare in modo gratuito può fare bene alla musica e anche al gruppo stesso, ne siamo convinti. C’è molta gente che ti conosce, c’è più gente che può venire a vedere i concerti, e quindi ben venga il download, il file sharing e così via. La rete è veramente una risorsa assolutamente da sfruttare…

Che può forse limitare forse lo strapotere delle major…

Assolutamente sì. Un’unica cosa, bisognerebbe trovare un minimo di regolamentazione perché vengano tutelati anche gli autori. È importante che anche chi crea la musica abbia un minimo di ritorno economico. Però va bene così, la musica che circola crea popolarità. Nel nostro caso funziona: abbiamo sempre avuto un pubblico di gente che si copia le cose, che le passa, ma va bene così.

E ora sta partendo il tour europeo. Den Haag, Londra, Dublino, Barcellona…

Si, 8 date in 9 giorni, una cosa abbastanza impegnativa ma bella. È la prima volta che facciamo un tour così strutturato fuori dall’Italia. Abbiamo partecipato a degli eventi occasionali, tipo l’anno scorso siamo stati al Chiemsee Reggae Summer, sempre in Germania, in Spagna al Sunsplash, festival che purtroppo è stato esiliato. Abbiamo sempre fatto cose negli anni, siamo stati in Iraq, in Palestina (1993, n.d.r.), piuttosto che diverse volte in Olanda, però mai una cosa così strutturata: stavolta vogliamo provare in modo più articolato. E speriamo che la gente apprezzi, che ci sia del pubblico anche non italiano.

Progetti futuri?

Dopo questo tour europeo, a giugno partirà quello italiano estivo, un classico, che si concluderà a settembre. Nel mese di maggio uscirà un libro, la biografia degli Africa Unite, che racconta questi trent’anni di Africa, che sono veramente tanti. Noi abbiamo cominciato nel 1981 e, a celebrazione del trentennale, raccontiamo la nostra storia con foto, aneddoti e così via in un libro. Una cosa molto interessante.

Grazie. Allora aspettiamo il libro per saperne di più.

Grazie a voi. 
 


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