di Mario Braconi

Il talento iconoclasta, il dinamismo e il rigore della sua arte fanno di Lars Von Trier uno dei più grandi cineasti contemporanei. La sua storia, anche professionale, parla chiaro: Von Trier ricerca ed innova, mette in discussione ogni cosa, in primo luogo sé stesso, soprattutto non ha paura di osare. Nel corso degli anni, a Cannes gli è capitato di tutto: nel 2000 ha trionfato con il suo inusuale melodramma “Le Onde del Destino”; nel 2009, con il capolavoro “Antichrist ne è uscito subissato dai fischi e dall’ironia...

Sfortunatamente, però questa volta le sue usuali provocazioni hanno passato il segno, e il Consiglio di Amministrazione del Festival di Cannes edizione del 2011 è stato costretto a dichiararlo “persona non gradita” nei luoghi in cui si svolge la manifestazione cinematografica a causa delle sue “opinioni inaccettabili, intollerabili, contrarie agli ideali di umanità e di generosità che presiedono all'esistenza stessa del Festival”.

Ripercorriamo i fatti: nel corso della conferenza stampa di presentazione del suo ultimo lavoro, “Melancholia”, Von Trier ha dichiarato di apprezzare molto il Tristano ed Isotta di Wagner, in quanto esempio di opera inscritta nella “tradizione romantica germanica”. A quel punto, Kate Muir del Times di Londra ha preso la palla al balzo, chiedendogli di parlare brevemente delle sue origini tedesche e di chiarire la dichiarazione da lui resa a un periodico danese, cui Von Trier aveva detto di essere affascinato dall’estetica nazista.

Von Trier, pur essendo danese, in età adulta ha scoperto di non essere il figlio naturale del marito di sua madre, ma di Fritz Michael Hartmann, un dipendente del padre, tedesco. Ad attirare la madre, desiderosa di garantire al figliolo un corredo genetico “artistico”, pare fosse il fatto che Hartmann proveniva da una famiglia di celebri musicisti.

Dunque Von Trier non mente quando racconta, nel prosieguo della conferenza stampa, di essere stato convinto per anni di essere di origine ebraica. E anche contento di esserlo, se fosse che ebrea è anche Susanne Bier (la regista danese del pessimo “In un mondo migliore”, odiatissima da Von Trier). “Ero felice di essere ebreo, fino a che non ho scoperto che ero un nazista, cosa che - ride - mi ha fatto anche piacere”. Una battuta di pessimo gusto, che allarma le due donne che siedono ai suoi lati, Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst.

E qui comincia il delirio: “Io comprendo Hitler. Credo che abbia fatto delle cose sbagliate. Io comunque me lo immagino nel suo bunker...” A dispetto della visibile agitazione della Dunst, che cerca di interromperlo parlandogli nell’orecchio e sorridendo come neanche fosse ad un cocktail party, Von Trier non demorde, spiegandole che alla fine del discorso comprenderà ciò che intendeva dire. “Certo [Hitler] non era un uomo buono, ma in un certo senso lo comprendo... D’accordo, coraggio, non sto dicendo che sono favorevole alla seconda guerra mondiale, né contro gli ebrei - nemmeno contro Susanne Bier, vabbè, anche qui sto scherzando - mi piacciono molto gli ebrei. No, non troppo, alla fine, perché Israele è una gran rottura di palle... E adesso come faccio a finire questa frase? Visto che si parlava di arte, a me piace molto Albert Speer.” Finalmente resosi conto di aver esagerato, Von Trier tenta in più occasioni di scherzare sulle sue stesse enormità, fino a pronunciare la sua (falsa) ammissione finale: “D’accordo, sono un nazista”.

Con ogni probabilità la condotta di Von Trier può essere attribuita più alla micidiale combinazione di cattivo gusto e provocazione che ad una autentica fede nazista. Sembra quasi che il regista danese, a 55 anni suonati, proprio non riesca a superare il suo complesso dell’énfant terrible, sempre pronto a qualche alzata di ingegno per attirare l’attenzione di genitori emotivamente distanti. Peccato che la sua provocazione resti un esercizio fine a se stesso.

Un esempio: i militanti del gruppo russo di artisti-militanti noto come Voina (la guerra) mettono in scena provocazioni anche pesanti: lanciare un gatto affamato in un fast food, organizzare un’orgia in un tribunale, rovesciare una macchina della polizia con dentro due agenti addormentati, disegnare un pene di sessanta metri su un ponte davanti alla sede del FSB.

Le loro azioni-proteste, però, hanno un’utilità sociale, in quanto danno corpo (e sorriso) alle storture della civiltà contemporanea: fame, censura, controllo poliziesco. E’ in effetti avvilente invece lo spettacolo di un intellettuale che fa lo sciocco con sparate filonaziste ad un festival internazionale. Non solo non aiuta nessuno, ma può costituire un sia pur involontario “fenomeno di rinforzo” culturale in un mondo nel quale tuttora si riscontrano focolai infettivi nazisti ed estremisti in genere.

Finora l’unico caso noto di censura al Festival francese ha riguardato il documentario di Alain Resnais “Notte e nebbia”, sullo sterminio nazista degli ebrei. Presentato nel 1956 a Cannes, venne ritirato all’ultimo momento a seguito delle pressioni politiche esercitate sulla direzione della kermesse tanto da parte tedesca che francese. Scoperchiare il verminaio dello sterminio come quello del collaborazionismo non era considerato utile all’obiettivo politico di distensione tra i due Paesi. Ricordare Vichy non era utile, ad esempio..

Si pensi che al povero Alain Resnais venne addirittura imposto di “truccare” un kepi, il tipico copricapo dei poliziotti francesi, in modo tale da non far capire agli spettatori che era un poliziotto d’Oltralpe a far la guardia al campo di concentramento nazista di Pithiviers.

La decisione presa il 19 maggio dal Consiglio di Amministrazione del Festival in qualche modo è la nemesi degli errori commessi nel 1956 (ironia della sorte, anno in cui è nato Von Trier). Segno che alla fine, il Festival ha deciso di mettere da parte atteggiamenti compromissori e abbracciare le Vittime. Esattamente l’atteggiamento che ci si attende da un guardiano della cultura. La scelta di allontanare Von Trier, in via di principio discutibile, in quanto censoria, era però inevitabile dal punto di vista politico.

Il Festival è un’istituzione ed è suo dovere tenere nella giusta considerazione i diritti dei suoi fruitori nonché tenersi a distanza di sicurezza dalla possibilità che quella vetrina così “esposta” possa essere usata in modo improprio e velenoso. Cosa che in questo caso sfortunatamente é avvenuta, per la superficialità, l’arroganza e l’irresponsabilità di Lars Von Trier.

 

di Roberto Giardina 

BERLINO. A Tripoli stanno bombardando la casa dove nacque mia madre. A Bengasi, stanno bombardando la casa dove abitò, e il Teatro Comunale dove da ragazzina andava al cinema con i fratelli. Le “pizze” arrivavano ogni settimana con il postale da Palermo. I profughi sbarcano a Lampedusa, dove andavo in vacanza da ragazzo quando in Italia neanche sapevano che esistesse. Il mio bisnonno fu il primo maestro elementare dell´isola. Vinse il concorso a 17 anni, e lo mandarono nel luogo più disagiato della nazione unificata da poco.

Pensava di restarci una sola stagione, vi rimase tutta la vita perché scoprì che era uno dei re dell'isola, insieme con il prete, il maresciallo e il dottore. Ma che destino attende il figlio del maestro elementare di un posto dimenticato? Così suo figlio, mio nonno, finì in Libia, e lì nacquero i suoi figli. E´ una cronaca familiare, ma comune a migliaia di famiglie,soprattutto meridionali. E, a suo modo, una cronaca che fa parte della storia d´Italia, che dovremmo ricordare, mentre siamo tornati a bombardare la nostra ex colonia.

Le storie di Tripoli e di Bengasi, della vita quotidiana degli italiani su quella che era definita la quarta sponda, e la guerriglia con i ribelli libici, me le raccontava mia madre (che oggi ha 93 anni) quando ero bambino. Lei e i fratelli stavano dalla parte dei ribelli, il che potrebbe sembrare strano. Forse perché mio nonno che era siciliano, anzi lampedusano, era un tipo particolare. Divenne il capo delle dogane della Cirenaica e pretendeva di far pagare le tasse ai gerarchi fascisti, anche al governatore Graziani. Così, per toglierselo dai piedi, lo promossero e lo mandarono a Venezia. Lui, offeso, preferì tornare nella sua isola.

Mia madre mi raccontava di Omar el Muktar, il capo della guerriglia, che impiccammo dopo un processo farsa, e di altre cose ancora. Di Graziani che, quando tornava a casa dal palazzo del governo, si lasciava precedere da quattro zaptiè a cavallo, i nostri soldati di colore, che a colpi di staffile cacciavano tutti dalla strada. Il governatore non doveva essere infastidito dalla vista di coloro che lui governava. E di come lei, al ritorno da scuola, continuava a camminare sul marciapiede nonostante sentisse la macchina scoperta di Graziani avvicinarsi lentamente. Per una bambina, una grande sfida.

Tutti gli orrori del XX secolo li abbiamo compiuti noi per primi in Libia. Sia pure a livello - come dire? - amatoriale. Il primo aereo, un Blériot, usato in guerra, lo abbiamo fatto volare noi sulle oasi. Il pilota gettava le bombe incendiare con la mano, sporgendosi dalla carlinga. Poi verrà il napalm in Vietnam. Per anni si discusse se prenderci la Libia occupata dai Turchi. Quando infine fu deciso lo sbarco, l´esercito era ancora a Napoli, disorganizzato. Conquistammo Tripoli bel suol d´amore, come inneggia la canzone, che non è male. Ma poi continua “sarai italiana al rombo del cannone”. Si canta uno stupro.

Tutti conoscono Adua, chi ha sentito parlare di Sciara Sciat? Dopo lo sbarco, una sottile linea di nostri militari protegge Tripoli su un arco di quattro km. All'estremità orientale, sul mare, l'oasi di Siara Sciat è presidiata da 400 uomini dell´81simo bersaglieri. Il 23 ottobre, i cavalieri turchi fingono un attacco frontale, e si ritirano. Improvvisamente, alle spalle insorgono gli abitanti dell'oasi. I 400 bersaglieri vengono massacrati, senza che il nostro comando osi intervenire. La rappresaglia è feroce: nei giorni seguenti uccidiamo quattromila libici, anche donne e anziani.

Basta avere il burnus macchiato di sangue, o un fucile in casa (ma tutti sono cacciatori), per venire fucilati o impiccati. Secondo noi gli arabi erano dei traditori. Non eravamo venuti a liberarli dai turchi? Non troverete nulla sui nostri giornali dell´epoca. Ne riferisce solo l'inviato dell'Avanti, che viene malmenato dai colleghi e espulso insieme con gli inviati stranieri.

Abbiamo eretto il primo “muro”, 300 km. di filo spinato alto tre metri tra la Libia e l´Egitto. E abbiamo creato il primo Lager: vi abbiamo trasferito in massa gli abitanti degli altopiani della Cirenaica per togliere ogni aiuto a Omar el Muktar. In 40mila morirono nella marcia verso la costa: chi rimaneva indietro veniva abbattuto. Ma siamo sempre “italiani brava gente”. Potete trovare queste storie nei libri di Angelo Del Boca, che è stato il mio unico maestro di giornalismo. Ma quanti li hanno letti? Dovrebbero essere libri di testo obbligatori nelle nostre scuole.

Ho impiegato anni per trovare la chiave adatta a scrivere un romanzo su queste vicende (“Il mare dei soldati e delle spose”, uscito a settembre da Bompiani ndr). Una doppia trappola: una storia familiare e un romanzo coloniale. Se ci metti una palma e un cammello è kitsch, ma se non le metti non c´è atmosfera. E dai ricordi dei parenti devi prendere le distanze.

Per vedere i luoghi di mia madre, andai in Libia, da turista. Altrimenti avrei dovuto attendere il visto per mesi. Ma era il settembre del 2001, esattamente due settimane dopo l´attentato alle Twin Towers a New York. Gli altri cominciarono a disdire, temetti che il viaggio venisse annullato. Alla fine ci ritrovammo in tre. E fu egoisticamente un viaggio splendido, in una Libia deserta e le sue antiche città romane, Leptis Magna, Sabratha, Cirene. Riemerse dalla sabbia, intatte. Il fascismo favori il lavoro degli archeologi per provare con le rovine che “quella terra era cosa nostra”.

Al museo di Tripoli ho visto la Venere di Leptis Magna, esposta accanto al maggiolino VW celeste con cui, nel ´69, il colonnello Gheddafi andava a trovare i colleghi per preparare il golpe. Mussolini la regalò a Goering, che amava le opere d´arte. Goering se la portò nella sua villa di Karinhall, a 80 km. a nord di Berlino, a un´ora da dove abito. Nel febbraio del ´45, l´Armata Rossa bombardò la residenza, la statua finì nel fango del lago. I tedeschi, persino in quei frangenti, la salvarono, la portarono al Bode Museum. Dopo la separazione, la Venere si trovò a Berlino Est.

Nel ´90, con la riunificazione, i tedeschi fecero un inventario: la statua non apparteneva alla Germania perché era un dono personale di Benito a Hermann. La restituirono all´Italia. Anche noi dovemmo ammettere che non ci apparteneva, e nel pieno dell´embargo americano contro la Libia, che allora era uno “stato criminale”, la riportammo a Tripoli. I libici lo considerarono un atto di grande amicizia. E´ una storia emblematica del Mediterraneo e della nostra Europa, dalle sabbie libiche alle paludi prussiane, da Berlino a Roma. Chissà se la Venere scamperà alle nuove bombe nostre.

Naturalmente la mia guida, un ragazzo che parlava inglese, francese, tedesco e italiano, comprese che io ero giornalista. Fu discreto. Gli chiesi se era possibile trovare il film “Il Leone del Deserto”, che racconta di Omar el Muktar e dei suoi ribelli. Gheddafi lo finanziò nel 1981. Da noi, la censura ufficiosa lo vietò, senza eccessive proteste, mentre ancora ci sdegnavamo perché i francesi non avevano gradito “La battaglia di Algeri”, di Pontecorvo. “Sì, mi disse l´amico libico, ma poi la vediamo insieme”.

Così avvenne, nell´unico hotel di Gadames, alle porte del Sahara. Lui, io e 18 inservienti dell'albergo, che era vuoto. Per la prima volta mi ritrovai come i tedeschi quando vedono un film sul nazismo. Il cattivo ero io. Ma il film di Moustapha Akkad è obiettivo. Ci sono italiani buoni e italiani cattivi. Un´opera spettacolare dallo stile hollywoodiano, con Anthomy Quinn nel ruolo di Omar, Rod Steiger come Mussolini, Sky Dumont nei panni di Amedeo d´Aosta. E Oliver Reed nella parte di quel Rodolfo Graziani, che mia madre detestava.

Anche il processo a Omar è descritto con precisione. Il capitano Roberto Lontano fu incaricato di difendere d´ufficio il capo dei ribelli. E lui sostenne che andava applicato il diritto di guerra, era un prigioniero, e non un traditore. Lo difese troppo bene, e perse: Omar finì sulla forca, e Graziani inflisse dieci giorni di cella di rigore al capitano Lontano, che si rovinò la carriera. Probabilmente a lui non importava.

Quando è venuto l´ultima volta a Roma, il Rais ha voluto invitare anche i parenti di Roberto Lontano. E´ stata giudicata l´ennesima stramberia di Gheddafi, come quella di pretendere le isole Tremiti, dove vennero deportati e lasciati morire i libici contrari alla nostra occupazione, o la richiesta di ricostruire la strada costiera da Tripoli a Bengasi, la Balbia, voluta da Italo Balbo, il governatore che sognava di trasformare Tripoli nella Cannes della quarta sponda.

Grazie a Lontano non mi vergognai in quella notte a Gadames. Meriterebbe che gli venisse dedicata almeno una strada. Mi chiedo che fine abbia fatto la mia guida, che amava la musica americana e detestava gli Stati Uniti. Il suo italiano era perfetto, e mi chiedeva: quanti di voi europei parlano arabo? Eppure siamo vicini di casa. Mia madre non ha più potuto rivedere il posto dove nacque. Mi raccontava che al Liceo Scientifico di Bengasi studiava l´arabo, ma un arabo che nessuna delle sue amichette libiche riusciva a comprendere. Un arabo antico, come il latino. Forse anche per questo non riusciamo a comprendere quanto avviene a pochi km, al di là del mare di Lampedusa.

di Mario Braconi

Ridere aiuta a vivere, e tutti vorremmo farlo di più. Istintivamente, sappiamo che, dopo una bella risata, e perfino dopo un ghigno sarcastico, ci si sente meglio; eppure per tutti, scienziati compresi, restano alquanto misteriosi i meccanismi neurologici, sociali e psicologici alla base di quella liberatoria reazione nervosa che ci fa scoprire i denti, scuotere la gola e muovere una serie di muscoli della faccia e della zona addominale. Proprio per dotare di fondamenta quanto più solide possibili una potenziale futura “teoria generale della risata”, un gruppo di specialisti si sono dati appuntamento lo scorso gennaio ad una conferenza a San Antonio (California), di cui dà conto il numero di maggio di Wired USA.

Star dell’evento, Peter Mc.Graw, 41 anni, Professore di Marketing e Psicologia alla University of Colorado, e papà del Humor Research Lab (HuRL, ovvero Laboratorio di ricerca sull’umorismo). Benché i suoi metodi, la sua formazione e i suoi assunti, discorsivi e poco formalizzati, abbiano fatto storcere il naso a qualche collega, il rigore scientifico del professore è fuori discussione. Prova ne sia la serietà con la quale si è messo alla ricerca della verità scientifica definitiva su un dato che il comune consumatore di marijuana considera un fatto: fumare aumenta il nostro senso dello humour?

Tramite un sito di crowdsourcing (organizzazione del lavoro in Rete), il Laboratorio ha incaricato 50 appassionati di “erba” di valutare la comicità di alcune foto buffe un quarto d’ora dopo aver assunto la sostanza. Mc. Graw anticipa che secondo lui la risposta sarà positiva, ma per averne certezza, avrà bisogno di altre cavie, per chi è interessato, la ricerca è ancora aperta. Si noti, incidentalmente, come lo HuRL, a dispetto della natura non sempre ortodossa delle ricerche che conduce, riceva fondi da grandi corporation, quali IBM, Pfizer e Bank Of America.

E’ la prova che perfino abbandonarsi ad una risata, nel nostro mondo post-moderno, è divenuto evento “economico”, e pertanto serissimo: si pensi ai soldi che uno studio di produzione cinematografica mette a rischio investendo su un film comico che proprio non fa ridere (succede di continuo); o alla pessima figura fatta dal sito GroupOn che, per farsi pubblicità, non ha esitato a coinvolgere Timothy Hutton in uno spot che qualche “creativo” evidentemente riteneva divertente, ma che si rivelato offensivo nei confronti del popolo tibetano.

Grazie al suo empirismo “da improvvisato”, Mc. Graw la mette così: ridere è un po’ come il solletico. A chi non piace un po’ di solletico? E quando il solletico cessa di essere un piacere? Quando a solleticarci siamo noi stessi (non funziona) o uno sconosciuto con un impermeabile addosso... Insomma, secondo Mc. Graw, il solletico, come l’umorismo, è una piccola violazione della nostra intimità, ma praticata da qualcuno che conosciamo bene, che ci piace o per lo meno che ci piace abbastanza da perdonargli la trasgressione.

In generale, secondo Mc. Graw ed il dottorando Caleb Warren, “la risata ed il divertimento derivano da violazioni, che però sono considerate non malevole”. La violazione può riguardare un po’ tutti i campi: quella della dignità (difetti fisici e a situazioni umilianti), delle regole linguistiche (paronimie, giochi di parole, accenti ridicoli), delle convenzioni sociali e della morale dominanti in un gruppo omogeneo.

Ovviamente, la violazione tende a diventare più benigna quando la persona che la pratica non è fortemente coinvolta nella regola violata; oppure man mano che aumenta la distanza psicologica rispetto ad essa (nel caso si parli di cose accadute a qualcun altro, oppure molto tempo fa, oppure ancora di una situazione irrealistica); ovvero quando si può immaginare una spiegazione alternativa alla violazione (ad esempio, la finta lotta che si ingaggia qualche volta con i bambini, che reagiscono con urla di entusiasmo ed ilarità è dovuta al fatto che si tratta in fin dei conti di un “attacco” alla loro persona, violazione dunque, che però ha anche la caratteristica distintiva di non costituire un vero pericolo, ovvero benigna).

Il ragionamento di Mc. Graw, nella sua disarmante semplicità, risulta convincente, almeno nella gran parte dei casi: perfino gli scherzi basati sugli stereotipi su donne ed omosessuali rientrano nella casistica, perché a chi si diletta di battute misogine ed omofobiche l’aspirazione alla “normalità” di queste persone costituisce, nel contesto, una “violazione”, anche se non pericolosa.

Per la cronaca, va comunque annotato che quando, a margine dell’evento, il professore si è confrontato con Louis CK, un noto stand-up comedian, per presentargli le sue tesi, l’attore gli ha risposto con grande freddezza che la comicità è fenomeno assai più complesso di quanto Mc. Graw vorrebbe dare a credere. Non è tutto: quando un complice di Mc. Graw confuso tra il pubblico ha detto a CK che una donna era interessata a conoscere le dimensioni del suo pene, questi si é rifiutato di rispondere e ha fulminato il tentativo successivo di Mc. Graw di fare dell’ironia sul diniego (“Per quanto ne so, rispondono così solo quelli che ce l’hanno piccolo”). A quanto sembra, non c’è nessuno meno bravo a scherzare degli scienziati che studiano l’umorismo; e nessuno meno spiritoso dei comici di professione.

 

 

di Rosa Ana De Santis

Il film é da qualche giorno nelle sale, dove misura un buon successo. Si dice da più parti che al successo abbiano concorso in modo determinante proprio le ire e le stroncature della stampa vaticana, Avvenire in testa, che ha duramente criticato il film attraverso la lettera del vaticanista dell’Agi, Salvatore Izzo. Da dove viene tanta acrimonia? Il film ritrae la figura di un Papa appena eletto che sente di essere inadeguato al ruolo di guida della Chiesa Cattolica di cui il Conclave l’ha appena investito. Un’invasione della psicoanalisi e dell’umanità nella santità dell’occasione che finora, tra le fonti cattoliche, ha suscitato più curiosità che biasimo.

A pochi giorni dalla beatificazione di Woityla non c’è dubbio che quest’affresco impietoso in cui i cardinali diventano spesso personaggi caricaturali e il Pontefice viene ritratto in un atteggiamento troppo umano, viene tolto fascino e mistero ai segreti custoditi nella Chiesa.

A pochi giorni dal Papa beato il film acquista un sapore decisamente provocatorio. Nella conferenza stampa di presentazione Moretti aveva tenuto ad evidenziare che non c’è alcuna sovrapposizione tra il protagonista e il papa polacco, ma la concomitanza di eventi calamita attenzione anche da parte del pubblico. Secondo Izzo è proprio questa la trappola del regista. Il film, così addentro alla Chiesa, annoierebbe il pubblico laico e cercherebbe il successo proprio dai cattolici di cui nello stesso tempo offenderebbe religione e autorità ecclesiale.

Avvenire precisa che la lettera non rappresenta automaticamente la linea del quotidiano, ma non c’è dubbio che le parole di Izzo hanno il sapore di un autentico boicottaggio. Quello contro cui si sono espressi altre fonti e autorevoli personaggi del panorama cattolico. Radio Vaticana che ha commentato il lavoro di Moretti come un’opera affatto anticlericale, Zeffirelli, Vittorio Messori e lo stesso vescovo Mogavero, che si riserva di andare a vederlo prima di esprimere giudizi.

Non c’è dubbio che la figura dello psicoanalista che cerca di guarire la vulnerabilità di un futuro Pontefice mette attenzione e insinua dubbi su uno dei dogmi principali e più controversi in seno alla storia della Chiesa Cattolica. Il primato di autorità del Vescovo di Roma come successore di Pietro, infatti, e il dogma dell’infallibilità ex cathedra, pone una frattura importante tra il Papa uomo e il Papa rappresentante di Dio sulla terra. E ripropone quindi l’intera questione della Riforma protestante e del disconoscimento delle chiese cristiane d’Europa all’autorità di Roma, che dal Papa in giù, pone i presbiteri in una posizione di dottrina molto diversa da quella dei pastori protestanti.

Se Moretti prova a scansare le polemiche e propone il suo lavoro come un raffinato e quasi ludico gioco di psicoanalisi, non può certamente negare che aver proposto tutto questo in un ambiente sacro costituisce un atto di “umana violazione” di una scelta e di un’elezione che la storia della Chiesa pone al vertice della sua santa potestà. Una gustosa sfida insomma, che mette un po’ di nervosismo alla CEI che, non a caso, decide di dare ampio spazio all’invito di Izzo a disertare il botteghino senza voler cadere nel boomerang della censura ufficiale.

Su un dato la polemica del vaticanista ha certamente ragione: saranno i cattolici forse i più desiderosi di vedere la scena di un Papa che non si affaccia alla finestra dopo la fumata bianca. Sono loro e non gli agnostici a vivere quel momento con vibrazione e misticismo, loro i più colpiti da questo ritratto della Chiesa, privo di fede. Questo affresco di una Chiesa fatta solo di uomini, dei loro vizi e tormenti, così come Moretti la immagina, può prestarsi anche ad una serie di riflessioni che non sono poi così estranee al mondo dei credenti.

Senza dio, il clero diventa solo una sfilata di tratti umani privi di qualità e di particolare valore spirituale. Senza dio il Papa è solo un uomo cui non sono risparmiate debolezze e bisogni. E forse la Chiesa, quella di oggi e quella di tanta storia passata, non ha sempre avuto dio dalla sua parte. Magari c’è anche questo nel film, in una finzione che non è priva di veridicità. Chi pensa che questo offenda la fede dei cattolici rimarrà deluso. Il paradosso di un papa spaventato e inadeguato serve a dirci quello che la storia ha comprovato ben prima di Moretti e non in una finzione scenica: l’umanità della Chiesa.

Del resto, a chi s’infastidisce per l’ombra che questo pone sulla celebrazione di Giovanni Paolo II, dovrà essere ricordato che fu lui il primo, se pur in ritardo, a ricordare l’umanità della Chiesa, chiedendo scusa per i crimini, i peccati e gli orrori commessi in nome di dio. Un dio che non c’era, come non c’è nella Chiesa di questo film.

 

di Vincenzo Maddaloni

Basta la morte violenta a Gaza di un giovane del nostro tempo come Vittorio Arrigoni perché ritornino in mente gli obiettivi della politica del “Grande Medio Oriente” lanciata dall’amministrazione Bush, e poi ribattezzata “Nuovo Medio Oriente” (New Middle East) dal presidente del CFR (Council on Foreign Relations) Richard Haass nella rivista Foreign Affairs. A noi italiani quegli obiettivi ridiventano d’attualità dopo questa uccisione orrenda, anche se nella realtà planetaria non sono mai venuti meno, se non all’attenzione dei Media. Essi si riassumono in un impegno che così suona: «Dobbiamo costruire un vero e proprio partenariato che leghi Europa e America ai paesi del Vicino e Medio Oriente per lavorare insieme con i paesi e i popoli di tali regioni in un’ottica che permetta di raggiungere obiettivi comuni».

Era stato sottoscritto dal Cancelliere Schroeder e dal Presidente Bush il 27 febbraio 2004, a Washington, in occasione della firma della “Alleanza tedesco-americana per il XXI secolo”. Naturalmente, il presidente Obama s’è impegnato a mantenerlo in vita, poiché tra le priorità assolute c’è quella di integrare Israele nell’architettura politica, economica e militare euro-atlantica. L’intento, infatti, è di far riconoscere allo Stato ebraico il titolo di pilastro del giudaismo in modo di poterlo associare agli altri due pilastri (il giudaismo europeo e americano) e ottenere così un unico punto di riferimento per il mondo intero. La seconda fase, peraltro già in atto, prevede il coinvolgimento nelle conquiste della globalizzazione delle popolazioni del Vicino e Medio Oriente senza l’accondiscendenza delle quali la nuova costruzione geopolitica non potrebbe essere realizzata.

Più si riflette su queste evidenze e più cresce il sospetto che quella sigla “salafita” appiccicata sull’assassinio di Vittorio Arrigoni sia stata usata perché si riversasse sul mondo islamico l’esecrazione che è in perfetta sintonia con quanto prevedono la politiche imperniate sulla destrutturazione dello stato e della civiltà dei paesi musulmani. Accade, perché il Mercato, incalzato dalla crisi finanziaria, ha la certezza di crescere - è opinione diffusa tra gli economisti - soltanto se riesce a stivare il mondo musulmano all’interno della nuova costruzione geopolitica.

Spiega lo storico francese Pierre Hillard (http://www.mecanopolis.org/?p=22597), un esperto come pochi altri, che gli sconvolgimenti in corso nei paesi musulmani, «sono stati incoraggiati perché si vuole sviluppare un nuovo ordine mondiale che é più che un’ideologia. E’ una fede, una mistica. Si tratta di favorire ovunque l’emergere dei blocchi continentali europeo, africano, nordamericano o sudamericano politicamente unificati e poggianti su leggi comuni.

L’insieme di tali blocchi deve costituire l’architettura generale di un governo mondiale che riunisca un’umanità indifferente e nomade. Questa politica prende già forma con la creazione di un’assemblea parlamentare mondiale in seno alle Nazioni Unite sotto la direzione del tedesco Andreas Kummel. Una valuta mondiale deve strutturare l’insieme. Il FMI ha già perorato la causa in favore di una moneta globale (il Bancor) governata da una banca centrale mondiale (Accumulo di Riserve e Stabilità Monetaria Internazionale). Questo implica l’abbandono del dollaro e una riforma completa del sistema finanziario mondiale».

Beninteso, è pure questa una delle tante deformazioni del capitalismo che è nato in Europa, vi si è sviluppato nei secoli e si è esteso al resto del mondo. Anzi, questa estensione è stata proprio una delle forme di sottomissione (leggi colonialismo) di gran parte del mondo all’Occidente che ha prodotto l’America imperiale. Ragion per cui, agli occhi di milioni di musulmani si dipana una realtà a loro in larga parte incomprensibile, poiché nelle loro nazioni le fortune eccessive sono il più delle volte confiscate, quando non vengono utilizzate nelle celebrazioni religiose.

Queste società non lottano contro un capitalismo, un “modello americano” che ignorano, ma per la loro conservazione, per tutelare un equilibrio tra le diverse forze sociali. Anche perché l’Islam non si basa sulla distinzione tra il potere temporale e quello spirituale come accade nella civiltà cristiana che appunto non fonde le due parti. L’Islam è allo stesso tempo una fede e una legge, anche se a volte, il credente l’accetta a denti stretti.

Un esempio tra i tanti è l’Iran dove il “Rinascimento persiano”, quello dei poeti che cantavano l’amore e il vino, dei palazzi fastosi, dei veli e dei cuscini, quello delle miniature con i volti languidi dei cavalieri che tanto eccitavano Byron e poi Chatwin, è agli antipodi del puritanesimo imposto dagli ayatollah. Che comunque viene tollerato, se non accettato, perché manca un'alternativa laica e popolare.

Dopotutto l'Islam è una forma di coscienza umana e sociale, è una civiltà, è una religione come tutte le altre che é stata riconosciuta ufficialmente anche dalla Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II (1962-1965) come una religione autentica che adora il vero Dio e persegue, con la sua morale e la sua legge, il bene.

Tuttavia, il fatto che l’Islam non contempli la distinzione tra il potere temporale e quello spirituale, mal si concilia con lo sviluppo di un nuovo ordine mondiale, che sarebbe amministrato con una valuta mondiale a sua volta controllata da una banca centrale mondiale. Il tutto è ritenuto necessario per poter raggiungere l’unità del consenso sul modo nuovo di pianificare un’esistenza che dovrà essere intrisa di desiderio consumista e di edonismo sfrenato senza i quali, sostengono i promotori, il nuovo ordine non si consoliderebbe. Dunque non soltanto Coca cola e MacDonalds , bensì una “filosofia” vera e propria come formula dell’esistenza dovrebbe etichettare il ventunesimo secolo.

Eppure, soltanto qualche anno fa Kofi Annan, l’ex segretario delle Nazioni unite avvertiva: «In quest’epoca di globalizzazione i valori universali sono divenuti più che mai necessari. Ogni società deve essere unita da valori condivisi affinché i suoi membri siano consapevoli di ciò che possono aspettarsi gli uni dagli altri e sappiano che esistono dei principi fondamentali, capaci di armonizzare in modo incruento le differenze sociali».

Ma certamente non si riferiva al nuovo ordine mondiale disegnato dalle esigenze del mercato e dell’economia. Dopotutto non occorrono studi profondi per capire che l’Islam così com’è strutturato non può rientrare nella configurazione auspicata ed è ben difficile che vi rientri in un prossimo futuro, in mancanza anche di una società civile come noi l’intendiamo che non è mai potuta nascere perché il Corano non la prevede.

Tuttavia gli sponsor del nuovo ordine mondiale non si scoraggiano e siccome la prima tappa che si sono prefissati è disegnare il “Nuovo Medio Oriente”, sono ripartiti alla grande. Lo si è visto in Tunisia e in Egitto e, a sentir loro, con risultati ottimi per il progetto che hanno in mente. Perché, come spiega “Freedom House”  (http://www.altrenotizie.org/esteri/3813-egitto-il-dissenso-nel-bollitore.html) «i borsisti di Freedom House hanno acquisito competenze nella mobilitazione civica, leadership e pianificazione strategica e beneficiano delle opportunità del networking, attraverso l’interazione con diversi sostenitori privati, le organizzazioni internazionali e i media con uffici a Washington. Dopo il ritorno in Egitto, essi hanno ricevuto altre sovvenzioni con l’impegno di destinarle a nuove iniziative di propaganda politica impiegando Facebook e gli Sms».

Sono affermazioni che, diffuse in modo sapiente, hanno in tutto il mondo risvegliato più di qualche speranza sui progressi di natura socio-economica che si vogliono ottenere, e su quali sono le realtà che vanno smosse per ottenerli. Tuttavia ha ragione Giovanni Sartori sul Corriere quando scrive che «chi proclama, in Occidente, che le “rivoluzioni arabe hanno seppellito l'islamismo” parla a vanvera con poca conoscenza di causa».

Si tenga a mente che l’islamismo si è diffuso in modo esponenziale dopo la crisi del socialismo reale e i conseguenti mutamenti degli assetti geopolitici. In un mondo diviso in due blocchi i Paesi musulmani avevano spazi sui quali potevano muoversi e agire purché avessero rispettato gli assetti globali. Non gli è stato più possibile dopo l’implosione dell’Urss. Anzi, la situazione è per loro per molti versi peggiorata perché dopo il crollo dell’ “Impero del male” i nuovi detentori del potere mondiale hanno inventato l’ “Asse del male” per giustificare e consolidare la propria  egemonia.

Infatti, i fondamenti teorici del progetto americano che hanno portato alla guerra all’Iraq sono il risultato del lavoro intellettuale e politico di un piccolo nucleo di neoconservatori. E’ una configurazione che mette insieme il fondamentalismo cristiano di destra, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, per certi versi seducente nella sua perversione. Avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana si è proiettata verso l'esterno assumendo la forma di una politica aggressiva, unilaterale e arrogante.

È questo il “ blocco ” che ha guidato l'intervento in Iraq e altrove, giustificando la violenza e smentendo i propri discorsi altruistici. Il presidente Obama non ne ha preso le distanze, la sua politica - lo si è visto anche di recente - non è cambiata perché è difficile da modificare avendo essa una radice indissolubilmente nazionalista e costantemente rivolta all'esterno  che suggella la desecolarizzazione crescente dell'elemento politico e dello Stato in America.

Va pure aggiunto che il Socialismo reale è crollato perché ne era entrato in crisi il programma, e il Capitalismo ha vinto benché non avesse alcun programma da proporre in alternativa. Beninteso, la sua rimane una vittoria epocale, ma senza avere alcuna idea costituente da realizzare, senza nessun progetto per il dopo-muro. Il Capitalismo impera perché sul versante opposto l’ideale socialista, benché vivo, è incapace di raggrumare le forze necessarie per riproporsi come alternativa.

Tuttavia per entrambi gli schieramenti diventa problematico, sebbene sia a loro indispensabile, l’avvicinamento alle realtà musulmane perché entrambi vi inciampano a causa della fusione tra spirituale e temporale propria dell’Islam. Infatti, parlare d’integrazione del mondo musulmano verso i principi del nuovo ordine mondiale significa che ciò può essere realizzato solo modificando radicalmente i loro riferimenti religiosi e, per estensione, politici, economici, sociali e psicologici. Perché possa realizzarsi si devono promuovere le lotte tra i sunniti e gli sciiti, tra i musulmani e i cristiani, fino a portarli a un confronto brutale con il sionismo.

Quello che è accaduto negli ultimi tempi e accade ogni giorno conferma che l’ondata di ribellione ben supportata non si arresta. Anzi s’ingrossa come i potenti auspicano perché le masse sono sempre utili come strumento di supporto a una politica ben definita. Infatti, “Agitare il popolo prima di servirsene”, raccomandava il principe, vescovo, politico Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, detto anche semplicemente Talleyrand. Lui sì che se ne intendeva.

 

 

 

 

 

 

 

 


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