di Mario Braconi

Ridere aiuta a vivere, e tutti vorremmo farlo di più. Istintivamente, sappiamo che, dopo una bella risata, e perfino dopo un ghigno sarcastico, ci si sente meglio; eppure per tutti, scienziati compresi, restano alquanto misteriosi i meccanismi neurologici, sociali e psicologici alla base di quella liberatoria reazione nervosa che ci fa scoprire i denti, scuotere la gola e muovere una serie di muscoli della faccia e della zona addominale. Proprio per dotare di fondamenta quanto più solide possibili una potenziale futura “teoria generale della risata”, un gruppo di specialisti si sono dati appuntamento lo scorso gennaio ad una conferenza a San Antonio (California), di cui dà conto il numero di maggio di Wired USA.

Star dell’evento, Peter Mc.Graw, 41 anni, Professore di Marketing e Psicologia alla University of Colorado, e papà del Humor Research Lab (HuRL, ovvero Laboratorio di ricerca sull’umorismo). Benché i suoi metodi, la sua formazione e i suoi assunti, discorsivi e poco formalizzati, abbiano fatto storcere il naso a qualche collega, il rigore scientifico del professore è fuori discussione. Prova ne sia la serietà con la quale si è messo alla ricerca della verità scientifica definitiva su un dato che il comune consumatore di marijuana considera un fatto: fumare aumenta il nostro senso dello humour?

Tramite un sito di crowdsourcing (organizzazione del lavoro in Rete), il Laboratorio ha incaricato 50 appassionati di “erba” di valutare la comicità di alcune foto buffe un quarto d’ora dopo aver assunto la sostanza. Mc. Graw anticipa che secondo lui la risposta sarà positiva, ma per averne certezza, avrà bisogno di altre cavie, per chi è interessato, la ricerca è ancora aperta. Si noti, incidentalmente, come lo HuRL, a dispetto della natura non sempre ortodossa delle ricerche che conduce, riceva fondi da grandi corporation, quali IBM, Pfizer e Bank Of America.

E’ la prova che perfino abbandonarsi ad una risata, nel nostro mondo post-moderno, è divenuto evento “economico”, e pertanto serissimo: si pensi ai soldi che uno studio di produzione cinematografica mette a rischio investendo su un film comico che proprio non fa ridere (succede di continuo); o alla pessima figura fatta dal sito GroupOn che, per farsi pubblicità, non ha esitato a coinvolgere Timothy Hutton in uno spot che qualche “creativo” evidentemente riteneva divertente, ma che si rivelato offensivo nei confronti del popolo tibetano.

Grazie al suo empirismo “da improvvisato”, Mc. Graw la mette così: ridere è un po’ come il solletico. A chi non piace un po’ di solletico? E quando il solletico cessa di essere un piacere? Quando a solleticarci siamo noi stessi (non funziona) o uno sconosciuto con un impermeabile addosso... Insomma, secondo Mc. Graw, il solletico, come l’umorismo, è una piccola violazione della nostra intimità, ma praticata da qualcuno che conosciamo bene, che ci piace o per lo meno che ci piace abbastanza da perdonargli la trasgressione.

In generale, secondo Mc. Graw ed il dottorando Caleb Warren, “la risata ed il divertimento derivano da violazioni, che però sono considerate non malevole”. La violazione può riguardare un po’ tutti i campi: quella della dignità (difetti fisici e a situazioni umilianti), delle regole linguistiche (paronimie, giochi di parole, accenti ridicoli), delle convenzioni sociali e della morale dominanti in un gruppo omogeneo.

Ovviamente, la violazione tende a diventare più benigna quando la persona che la pratica non è fortemente coinvolta nella regola violata; oppure man mano che aumenta la distanza psicologica rispetto ad essa (nel caso si parli di cose accadute a qualcun altro, oppure molto tempo fa, oppure ancora di una situazione irrealistica); ovvero quando si può immaginare una spiegazione alternativa alla violazione (ad esempio, la finta lotta che si ingaggia qualche volta con i bambini, che reagiscono con urla di entusiasmo ed ilarità è dovuta al fatto che si tratta in fin dei conti di un “attacco” alla loro persona, violazione dunque, che però ha anche la caratteristica distintiva di non costituire un vero pericolo, ovvero benigna).

Il ragionamento di Mc. Graw, nella sua disarmante semplicità, risulta convincente, almeno nella gran parte dei casi: perfino gli scherzi basati sugli stereotipi su donne ed omosessuali rientrano nella casistica, perché a chi si diletta di battute misogine ed omofobiche l’aspirazione alla “normalità” di queste persone costituisce, nel contesto, una “violazione”, anche se non pericolosa.

Per la cronaca, va comunque annotato che quando, a margine dell’evento, il professore si è confrontato con Louis CK, un noto stand-up comedian, per presentargli le sue tesi, l’attore gli ha risposto con grande freddezza che la comicità è fenomeno assai più complesso di quanto Mc. Graw vorrebbe dare a credere. Non è tutto: quando un complice di Mc. Graw confuso tra il pubblico ha detto a CK che una donna era interessata a conoscere le dimensioni del suo pene, questi si é rifiutato di rispondere e ha fulminato il tentativo successivo di Mc. Graw di fare dell’ironia sul diniego (“Per quanto ne so, rispondono così solo quelli che ce l’hanno piccolo”). A quanto sembra, non c’è nessuno meno bravo a scherzare degli scienziati che studiano l’umorismo; e nessuno meno spiritoso dei comici di professione.

 

 

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