di Mario Braconi

Il talento iconoclasta, il dinamismo e il rigore della sua arte fanno di Lars Von Trier uno dei più grandi cineasti contemporanei. La sua storia, anche professionale, parla chiaro: Von Trier ricerca ed innova, mette in discussione ogni cosa, in primo luogo sé stesso, soprattutto non ha paura di osare. Nel corso degli anni, a Cannes gli è capitato di tutto: nel 2000 ha trionfato con il suo inusuale melodramma “Le Onde del Destino”; nel 2009, con il capolavoro “Antichrist ne è uscito subissato dai fischi e dall’ironia...

Sfortunatamente, però questa volta le sue usuali provocazioni hanno passato il segno, e il Consiglio di Amministrazione del Festival di Cannes edizione del 2011 è stato costretto a dichiararlo “persona non gradita” nei luoghi in cui si svolge la manifestazione cinematografica a causa delle sue “opinioni inaccettabili, intollerabili, contrarie agli ideali di umanità e di generosità che presiedono all'esistenza stessa del Festival”.

Ripercorriamo i fatti: nel corso della conferenza stampa di presentazione del suo ultimo lavoro, “Melancholia”, Von Trier ha dichiarato di apprezzare molto il Tristano ed Isotta di Wagner, in quanto esempio di opera inscritta nella “tradizione romantica germanica”. A quel punto, Kate Muir del Times di Londra ha preso la palla al balzo, chiedendogli di parlare brevemente delle sue origini tedesche e di chiarire la dichiarazione da lui resa a un periodico danese, cui Von Trier aveva detto di essere affascinato dall’estetica nazista.

Von Trier, pur essendo danese, in età adulta ha scoperto di non essere il figlio naturale del marito di sua madre, ma di Fritz Michael Hartmann, un dipendente del padre, tedesco. Ad attirare la madre, desiderosa di garantire al figliolo un corredo genetico “artistico”, pare fosse il fatto che Hartmann proveniva da una famiglia di celebri musicisti.

Dunque Von Trier non mente quando racconta, nel prosieguo della conferenza stampa, di essere stato convinto per anni di essere di origine ebraica. E anche contento di esserlo, se fosse che ebrea è anche Susanne Bier (la regista danese del pessimo “In un mondo migliore”, odiatissima da Von Trier). “Ero felice di essere ebreo, fino a che non ho scoperto che ero un nazista, cosa che - ride - mi ha fatto anche piacere”. Una battuta di pessimo gusto, che allarma le due donne che siedono ai suoi lati, Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst.

E qui comincia il delirio: “Io comprendo Hitler. Credo che abbia fatto delle cose sbagliate. Io comunque me lo immagino nel suo bunker...” A dispetto della visibile agitazione della Dunst, che cerca di interromperlo parlandogli nell’orecchio e sorridendo come neanche fosse ad un cocktail party, Von Trier non demorde, spiegandole che alla fine del discorso comprenderà ciò che intendeva dire. “Certo [Hitler] non era un uomo buono, ma in un certo senso lo comprendo... D’accordo, coraggio, non sto dicendo che sono favorevole alla seconda guerra mondiale, né contro gli ebrei - nemmeno contro Susanne Bier, vabbè, anche qui sto scherzando - mi piacciono molto gli ebrei. No, non troppo, alla fine, perché Israele è una gran rottura di palle... E adesso come faccio a finire questa frase? Visto che si parlava di arte, a me piace molto Albert Speer.” Finalmente resosi conto di aver esagerato, Von Trier tenta in più occasioni di scherzare sulle sue stesse enormità, fino a pronunciare la sua (falsa) ammissione finale: “D’accordo, sono un nazista”.

Con ogni probabilità la condotta di Von Trier può essere attribuita più alla micidiale combinazione di cattivo gusto e provocazione che ad una autentica fede nazista. Sembra quasi che il regista danese, a 55 anni suonati, proprio non riesca a superare il suo complesso dell’énfant terrible, sempre pronto a qualche alzata di ingegno per attirare l’attenzione di genitori emotivamente distanti. Peccato che la sua provocazione resti un esercizio fine a se stesso.

Un esempio: i militanti del gruppo russo di artisti-militanti noto come Voina (la guerra) mettono in scena provocazioni anche pesanti: lanciare un gatto affamato in un fast food, organizzare un’orgia in un tribunale, rovesciare una macchina della polizia con dentro due agenti addormentati, disegnare un pene di sessanta metri su un ponte davanti alla sede del FSB.

Le loro azioni-proteste, però, hanno un’utilità sociale, in quanto danno corpo (e sorriso) alle storture della civiltà contemporanea: fame, censura, controllo poliziesco. E’ in effetti avvilente invece lo spettacolo di un intellettuale che fa lo sciocco con sparate filonaziste ad un festival internazionale. Non solo non aiuta nessuno, ma può costituire un sia pur involontario “fenomeno di rinforzo” culturale in un mondo nel quale tuttora si riscontrano focolai infettivi nazisti ed estremisti in genere.

Finora l’unico caso noto di censura al Festival francese ha riguardato il documentario di Alain Resnais “Notte e nebbia”, sullo sterminio nazista degli ebrei. Presentato nel 1956 a Cannes, venne ritirato all’ultimo momento a seguito delle pressioni politiche esercitate sulla direzione della kermesse tanto da parte tedesca che francese. Scoperchiare il verminaio dello sterminio come quello del collaborazionismo non era considerato utile all’obiettivo politico di distensione tra i due Paesi. Ricordare Vichy non era utile, ad esempio..

Si pensi che al povero Alain Resnais venne addirittura imposto di “truccare” un kepi, il tipico copricapo dei poliziotti francesi, in modo tale da non far capire agli spettatori che era un poliziotto d’Oltralpe a far la guardia al campo di concentramento nazista di Pithiviers.

La decisione presa il 19 maggio dal Consiglio di Amministrazione del Festival in qualche modo è la nemesi degli errori commessi nel 1956 (ironia della sorte, anno in cui è nato Von Trier). Segno che alla fine, il Festival ha deciso di mettere da parte atteggiamenti compromissori e abbracciare le Vittime. Esattamente l’atteggiamento che ci si attende da un guardiano della cultura. La scelta di allontanare Von Trier, in via di principio discutibile, in quanto censoria, era però inevitabile dal punto di vista politico.

Il Festival è un’istituzione ed è suo dovere tenere nella giusta considerazione i diritti dei suoi fruitori nonché tenersi a distanza di sicurezza dalla possibilità che quella vetrina così “esposta” possa essere usata in modo improprio e velenoso. Cosa che in questo caso sfortunatamente é avvenuta, per la superficialità, l’arroganza e l’irresponsabilità di Lars Von Trier.

 

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