di Carlo Benedetti

MOSCA. Mi arrivano, qui, nella Russia fredda e lontana dal Bel Danubio blu, le notizie sulle condizioni di salute di quella grande, bella ed affascinante Zsazsa, l’ungherese che ha fatto e fa sognare intere generazioni di spettatori e che è stata, appunto, il simbolo di una Ungheria tutta cabaret e passeggiate sul Lungodanubio. Capitale di una mitteleuropa fatta di belle donne, di cabaret alla Kalman, di violini tzigani e di feste al Gellert o al Moulin Rouge. Una Ungheria, questa, passata praticamente indenne dalle sale dell’Astoria dei tempi di Horthy alla Vaci utca dell’era di Kadar.

Ed ecco che di lei - Sari Gabor nata nel 1917 a Budapest e poi nota come attrice cabarettista col nome d’arte Zsazsa - si torna a parlare soprattutto qui all’Est, perchè le cronache rivelano che ora è gravemente malata e menomata. Rischia, infatti, l’amputazione di una gamba che è a rischio di cancrena. Zsazsa è caduta, procurandosi una frattura all’anca e le conseguenze sono, come si vede, tragiche.

Tutti ora la ricordano come una icona sexy degli anni Cinquanta. Io - sempre colpito dalla sua bellezza - la ricordo alla fine degli anni ’60 quando ero a Budapest come corrispondente dell’Unità. A quei tempi il governo magiaro prestava grande attenzione nei confronti di tutti coloro che, una volta abbandonata l’Ungheria del potere socialista instauratosi dopo la guerra, rientravano in patria, almeno per una visita. E per la dirigenza kadariana tutto serviva per dimostrare la bontà democratica del Paese. Così avvenne per Zsazsa che gli spettatori avevano ammirata in film con Orson Welles e John Houston.

Si sparse la voce che anche lei era arrivata per un pellegrinaggio nella sua città natale. Un ritorno alla grande e il cronista - sempre memore del fascino procace della bionda bellissima vista però solo nelle finzioni cinematografiche - si precipitò ad incontrarla. Il suo manager fissò l’appuntamento nella hall dell’albergo Gellert, oltre il ponte delle Catene e alle falde della collina di Buda. Ma l’incontro - previsto tra statue in marmo e colonne ornate da allegorie floreali - fallì. E anche in modo clamoroso.

Perché poco prima di entrare nella hall la bella Zsazsa si era scatenata in una delle sue crisi isteriche. Colpita da qualcosa che non si aspettava aveva dato fuoco ai tendaggi dell’albergo. E così ad incontrarla erano stati poliziotti e vigili del fuoco. E il povero cronista, già ampiamente gasato avendo annunciato al giornale una “esclusiva” non legata alla politica, si trovò solo ad assistere alle operazioni di spegnimento mentre l’affascinante attrice rientrava - accennando a un timido gesto di saluto - nella sua suite.

Quel giorno mi torna in mente ora, a Mosca, mentre la stampa del gossip (che nella Russia postsovietica domina) ricorda che Zsazsa convolò a nozze ben nove volte e che il suo primo successo - tra i suoi 60 film - fu “Moulin Rouge” del 1952. Solo ora la bionda ungherese trova posto nella televisione russa. Ma la sua bellezza di un tempo resta impressa nella pellicola. E nei ricordi domina la sua frase simbolo: “Com’è atroce il mio destino! Le altre donne trovano felicità e amore, io nient’altro che delusioni…”.

 

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