di Mario Braconi

Chi pensa che il 25 giugno 2011 sia stato solo un sabato come gli altri dovrà forse ricredersi: la Sony, impegnata nel lancio del nuovo film in 3D sui Puffi, ha deciso di trasformare quella data nella “giornata globale dei Puffi”. Obiettivo dichiarato della multinazionale, “animare il più grande raduno di persone vestite da Puffo in un periodo di 24 ore”. A conferma del fatto che i meccanismi mentali alla base dell’agire umano sono spesso imperscrutabili, alcune città del globo si sono prestate volentieri alla discutibile celebrazione.

Ad esempio, le abitazioni bianche del villaggio andaluso di Juzcar, dove la pellicola verrà presentata in anteprima mondiale, sono state dipinte in azzurro-Puffo. Mentre la Casa Rossa di Taiwan, un mercato coperto completo di sala cinematografica, si è trasformata in un’improbabile “casa azzurra”, pronta ad accogliere un bel numero di cinesi vestiti da Puffi.

La data scelta dalla Sony per le “celebrazioni” corrisponde con l’anniversario della nascita del papà dei simpatici pupazzetti azzurri, il disegnatore anglo-belga Pierre Culliford, detto Peyo, morto nel 1992. I celebri gnometti nascono come personaggio secondario di un fumetto di argomento cavelleresco realizzato da Peyo alla fine degli anni Cinquanta, dal titolo “Johan & Pirlouit”. In un episodio uscito ad ottobre del 1958, infatti, i due protagonisti evocano dei folletti per aiutarli a trovare un flauto a sei fori.

Per quanto riguarda il buffo modo di parlare dei personaggi (sostituiscono tutti i verbi con il neologismo passepartout “puffare”), la leggenda vuole che esso sia la conseguenza di un piccolo lapsus del disegnatore: un giorno, mentre era a tavola, temporaneamente incapace di pronunciare la parola sale, chiese ad un vicino se gli potesse passare il “puffo” (ovvero la saliera). L’altro, divertito, iniziò uno scambio di battute, rimpiazzando i verbi necessari con declinazioni del polifunzionale “puffare”.

Benché conosciuti fuori dal Belgio (anche in Italia) fin dagli anni Sessanta, i Puffi divennero però un successo globale solo quando un produttore americano decise di ricavare dalle strisce una ciclopica serie di cartoni, articolata in 256 episodi, successivamente tradotti in 30 lingue e distribuiti in 120 paesi.

Secondo Veronique Culliford, figlia di Peyo, l’incredibile successo globale delle serie televisive si spiega con la natura fondamentalmente buona dei piccoli protagonisti e con la loro sostanziale neutralità culturale. Come dichiara alla BBC, i Puffi, di solito “non s’interessano di politica o di religione e sono dunque multi-culturali: ogni persona al mondo può identificarsi con uno dei Puffi, riconoscendosi nei loro valori di amicizia, gentilezza e aiuto al prossimo, indipendentemente dalle loro storie personali”.

Ci sono anche delle eccezioni: in un episodio Peyo narra il delirio di onnipotenza di un ambizioso Puffo, che, servendosi di promesse populistiche, dà la scalata al potere, divenendo infine un (piccolo) dittatore azzurro (ricorda qualcuno?), salvo poi tornare a più miti consigli dopo aver rimesso a posto tutti i danni provocati. Una storiella adatta ai piccini, da cui però traspare un chiaro messaggio antiautoritario. E in generale non si può ignorare il significato blandamente politico intrinseco in questa ingenua quanto gioiosa rappresentazione di una comunità priva di denaro e generamente dedita al bene comune più che al tornaconto personale.

Non mancano, però le zone d’ombra, su tutte un chiaro atteggiamento discriminatorio nei confronti delle donne: nel mondo dei Puffi se ne contano infatti soltanto tre, di cui solo una assurge al rango di personaggio di primo piano, Puffetta. Quando arriva al villaggio, la puffa non è altro che uno strumento (inadeguato) nelle mani del cattivo Gargamella; dato che è bruttina e sgraziata, ovvero inadatta al desiderio “puffo”, il Grande Puffo la trasforma con la chirurgia plastica in una bellezza convenzionale (capelli biondi, ciglia lunghe). Ma la femmina continuerà a creare problemi ai maschietti azzurri, fino a che deciderà di auto-esiliarsi.

In generale, la caratterizzazione di questo personaggio è basata su un concentrato di luoghi comuni che non è eccessivo definire reazionari. Secondo Willem de Graeve, direttore del Centro Belga del Fumetto di Bruxelles, “questa è la conseguenza dell’educazione cattolica. Ai tempi in cui sono stati ideati i Puffi, non era una cosa dabbene mostrare maschi e femmine che si divertivano assieme vivendo avventure, per quanto innocenti esse fossero”.

E’ comunque un fatto che attorno ai folletti azzurri e alla loro organizzazione sociale si sia sviluppata un’inattesa quantità di riflessioni politiche e culturali. Nella pacifica e maschilista collettività puffesca ognuno sembra vedere ciò che preferisce: dall’esemplificazione di una società anarchica alla condanna del collettivismo.

In un libro a firma di tale Antonello Soro, recensito da Massimo Introvigne del CESNUR, addirittura, il grande Puffo è il Gran Maestro di una loggia massonica (il cappuccio e i pantaloni rossi, colore del fuoco, parlano chiaro…), mentre il nerovestito Gargamella rappresenterebbe un prete o rabbino, combattuto tra la lotta contro l’esoterismo e la fascinazione che esso produce su di lui.

E ancora: le casette dei Puffi assomigliano all’amanita muscaria, un fungo allucinogeno, usato da sciamani per “mettersi in contatto” con l’altro lato; i loro copricapi bianchi alluderebbero alla purezza; i Puffi, infine, “nascono” per cercare un flauto, tema che richiama il Flauto Magico di Mozart, un singspiel di chiaro riferimento massonico. Sembra dunque che saranno moltitudini eterogenee per età, cultura e visioni politiche a festeggiare la creazione dei Puffi. Ma non sarebbe più saggio lasciare che a gioire siano solo i bambini?

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