di Emanuela Pessina

BERLINO. La Grecia rischia il tracollo, e con lei tutto il resto dell’Europa assieme alla moneta unica. I Governi del Vecchio continente non trovano l’accordo per sostenere Atene, e le proposte dei politici sembrano destinate ad arrecare più danno che guadagno, mettendo a rischio le esigenze concrete dei cittadini. Le agenzie di rating scommettono sulla morte finanziaria dei Paesi dell’Unione più deboli, mettendo in evidenza uno strapotere che quasi imbarazza. E, come se non bastasse, alcuni Stati, tra cui la Danimarca, vagheggiano la reintroduzione delle vecchie dogane.

La situazione è difficile, l’Unione europea sembra veramente arrivata al capolinea, ma non tutti si danno per vinti: a proporre soluzioni alternative è Juergen Habermas, uno dei più grandi filosofi tedeschi viventi di tutti tempi, che ha affrontato il tema settimana scorsa in una conferenza all’università Humboldt di Berlino.

Al centro dell’argomentazione di Habermas c’è la crisi dell’Unione europea: da sempre convinto sostenitore del progetto Europa, il filosofo non ha esitato questa volta a tracciarne i limiti e le mancanze.

Tanto per cominciare, all’eurozona manca una politica sociale comune di assistenza che sia orientata a uniformare le condizioni di vita dei cittadini. È un processo indispensabile per creare la “consapevolezza europea”, sostiene Habermas, quel sentimento che si trasforma, con il tempo, in “solidarietà”.

Anche l’Europa ne ha bisogno, così come ogni altra nazione nel senso più tradizionale del termine: la solidarietà tra cittadini è la colla delle nazioni. Senza un forte senso di appartenenza tra i diversi Paesi europei, avverte Habermas, sarà molto difficile affrontare qualsiasi tipo di problema in maniera lineare e concreta.

Perché l’attuale crisi dell’Unione europea non è economica, ma “normativa”. L’Europa sta fallendo di fronte al proprio compito fondamentale, e cioè quello di creare una democrazia sovrana.

I maggiori responsabili di questo insuccesso sono le élite politiche, così come le corti costituzionali e i media, che hanno spinto verso l’unificazione senza creare lo spirito giusto nei propri cittadini e senza chiedere loro il permesso. Per Habermas il dibattito europeo si riduce a una questione di strategie assolutamente disinteressata alle prospettive sovrannazionali.

Habermas è filosofo della società, uno dei più grandi viventi, e distingue due forme di Europa. La prima è l’Europa dell’idea, che corrisponde alla volontà di superare la limitatezza di vedute delle singole nazioni. La seconda è l’essenza empirica dell’Europa, e ha a che fare con la politica.

È una politica che si svolge “a porte chiuse”, lamenta il filosofo, lontana dai cittadini. Perché, in sostanza, le decisioni europee sono prese da organi separati dalla realtà tangibile dei singoli e mancano di credibilità. Ed è proprio qui che Habermas vede la mancanza di base del progetto europeo: nell’esecutivo di Bruxelles.

Come il “Patto per l’Europa”, stipulato a fine marzo, che ha proposto un controllo a livello europeo delle politiche fiscali dei singoli Paesi: l’entrata in vigore dell’accordo verrà approvata dai singoli Parlamenti, e non da un incontro europeo dei vari Governi. Per Habermas questo è un fallimento della democrazia. L’Unione europea assomiglia sempre più a un organo di amministrazione economica, più che a un promotore della democrazia.

Perché per Habermas è proprio l’Europa a due velocità che ha più bisogno di trovare la convergenza tra situazione sociale e sviluppo economico. L’identità nazionale deve svilupparsi nel sentimento sovrannazionale europeo, incoraggiato dalle politiche sociali. I partiti di estrema destra cercano di presentare il progetto europeo come la deriva delle particolarità nazionali e delle esigenze economiche nazionali: ai cittadini serve la base per difendersi da tale propaganda.

I singoli Stati sono garanti delle diverse culture, ma i cittadini dell’Europa hanno bisogno di un’identità più ampia per sentirsi parte dell’Unione: e senza questo sentimento, purtroppo, è difficile trovare il coraggio per affrontare i rischi concreti di un tale processo. E la politica si riduce a unopportunismo che cerca di difendere un astratto interesse economico.

Potrebbe suonare tutto un po’ fuori dal mondo, ma è la prassi. Già nel 1962 Habermas accusava il discorso pubblico di “neo-feudalesimo”, di rinnovato asservimento ai sistemi capitalisti proprio in riferimento alla crescita della pressione della concorrenza economica e del potere dello Stato.

Sono serviti decenni per renderci conto della grave concretezza di quelle accuse. I filosofi appaiono sempre un po’ visionari, e di solito rimangono tali fino al giorno in cui le loro teorie appartengono al passato, perché solo allora diventano comprensibili al resto del mondo.  

 

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