di Sara Michelucci

“Avevano sul volto l’espressione perenne del viaggio”. In questa semplice, ma significativa frase, si innesta tutto il significato dello spettacolo di Mario Perrotta, “Italiani, Cincali”. Una pièce che da ben otto anni Perrotta porta sui palcoscenici dei teatri italiani (l’ultimo in ordine di tempo è il teatro Secci di Terni), mettendo lo spettatore di fronte all’atrocità della vita dei minatori italiani in Belgio, ma anche davanti al concetto più ampio d’immigrazione e a quello di memoria.

Il punto di vista scelto da Perrotta è quello del postino di un paese del Sud Italia, l’unico uomo a non essere partito per “La Belgique” a lavorare, ma che conosce ogni sensazione, ogni umore, ogni paura di quei suoi compaesani lontani, grazie alle lettere che ha il compito di leggere alle mogli, dato che è l’unico nel paese ad avere un minimo di istruzione.

E pare di vederli quei minatori che scivolano nelle fauci della terra, che respirano male, che vorrebbero stare con le loro famiglie, ma che sono costretti a lavorare e a rischiare ogni giorno la pelle per pochi spiccioli e per un sogno promesso, ma che mai si avvererà. In realtà questi uomini sono stati burlati, non da uno ma da due Stati che hanno scambiato il carbone con delle vite umane.

Un monologo di un’ora e mezza che porta dritti nelle viscere della terra e dell’anima, che mette a nudo tutta l’atrocità dell’immigrazione, ma anche del razzismo, in un contesto che pare lontano e passato, ma che in realtà è più vicino di quanto si immagini. Oggi è l’Italia ad accogliere popoli che fuggono da guerre, carestie e povertà. Quel ruolo che un tempo è toccato agli italiani, è stato preso da altri, ma la sostanza non dovrebbe cambiare. Perché siamo figli d’immigrati e perché dovremmo capire cosa si prova ad essere in una terra che non è la propria. E invece non è così e Perrotta lo dice chiaramente alla fine dello spettacolo: “Mi sono sempre chiesto come mai i più razzisti sono quelli che un tempo sono stati emigranti”.

Dall’inverno del 2002 Perrotta si dedica a tempo pieno alla raccolta di testimonianze orali degli ex-emigranti salentini e più in generale italiani, registrando oltre 150 ore di racconti straordinari che costituiranno l’ossatura del Progetto Cìncali. Fondamentale in questo lavoro la collaborazione con il drammaturgo Nicola Bonazzi.

Cìncali, ovvero zingari! È il modo in cui venivano apostrofati gli italiani emigrati in Svizzera. Sembra però, che fosse una storpiatura di cinq, “cinque” nel linguaggio degli emigranti padani che giocavano a morra. Era comunque un modo per schernire questi italiani accusati di togliere il lavoro agli svizzeri.

Quasi un anno di testimonianze, un anno di memorie rispolverate a fatica. “Ho preso la macchina - dice Perrotta che indossa una semplice canottiera bianca e ha un bicchiere d’acqua ai piedi della sedia - e ho girato senza un luogo preciso dove andare, eppure il Sud è tutto uguale, non hai bisogno di sapere dove qualcuno ha preso le valigie ed è partito: basta entrare in un bar, un bar della provincia e chiedere. La risposta è sempre la stessa: “qui tutti siamo emigrat.. me lo racconta?”

Si fanno pregare, un attimo soltanto, poi partono con la loro storia, infinita, che reclama ascolto. Anche il Sud è infinito. Me lo insegna la mia macchina che mi porta di paese in paese, sempre per caso, e s’inerpica tra i paesi montani del nord-est produttivo ed è ancora Sud. Sì! Per i Belgi, gli Svizzeri, i Tedeschi che chiedevano braccia dopo la seconda guerra mondiale, Sud era la Puglia, la Sicilia, la Calabria e Sud era il Veneto, il Friuli: “siamo emigrati tutti qui.. Quattro parole, sempre le stesse”.

 

 

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