di Mario Braconi

Se c’é un leitmotiv nei Golden Globe Award 2012 è la ricorrente celebrazione della Francia. Non solamente il bizzarro “The Artist" ha ricevuto ben sei nomination, tra cui quella per miglior musical; ma tra i film favoriti si trovano “Hugo” di Martin Scorsese, e “Midnight in Paris” di Woody Allen. La prima pellicola narra con toni poetici e fantasiosi la strana storia di un bambino che vive in una stazione parigina negli anni Trenta; nell’ultimo lavoro di Allen, invece, il protagonista, in visita nella capitale francese dei giorni nostri, subisce un piacevolissimo quanto narrativamente irrisolto trasferimento nella Parigi degli anni ruggenti, dove ha modo di incontrare intellettuali del calibro di Hemingway, Francis Scott-Fitzgerald, Matisse e Picasso.

Una riflessione, come sempre amara, sull’umana aspirazione alla grandezza e sulla tendenza, pure pienamente umana, a collocarla tassativamente in un hic et nunc remoto ed irraggiungibile, che stride in modo problematico con la corrente mediocrità. Perfino il film di Spielberg, “War Horse”, è ambientato per metà nelle trincee francesi nelle quali si stanno consumando gli orrori della Grande Guerra.

Non è casuale il fatto che, mentre “The Artist”, “Hugo” e soprattutto “Midnight in Paris” potrebbero fare razzia di premi, il nome del grande Spielberg non sia risultato nella rosa dei registi papabili per i Golden Globe Award. Sembra, in effetti, che una delle cifre dominanti della kermesse americana, sia quella di una più o meno consapevole fuga da una realtà storica dolorosa, dominata come è dalla crisi economica e politica, dall’incertezza e dal conflitto. Forse la giuria di giornalisti stranieri ha pensato che la crudezza della guerra, che certamente Spielberg deve aver rappresentato da par suo, si confacesse assai poco ad una audience vogliosa soprattutto di sognare.

Sognare, magari, una Parigi immaginaria: non capitale europea in bilico tra grandeur e bancarotta, ma la città del piacere, degli scrittori, dei filosofi e dei pittori appollaiati sulle sedie di fumosi bistrot a discettare delle umani sorti. Per il citato, sano e condivisibile fenomeno di rimozione collettiva, gli 85 giornalisti stranieri che costituiscono la giuria dei Golden Award, hanno forse deciso di non premiare Stephen Daldry, il regista inglese di “The Hours” e di “The Reader”, che questa volta si è esercitato nella riduzione cinematografica di “Molto forte, incredibilmente vicino” di Safran Foer, favola ambientata subito dopo l’undici settembre 2001.

Non esattamente un tema metabolizzato dal pubblico americano. Stessa sorte tocca al bizzarro e (troppo) filosofico e pasticciato “Tree of Life” del grandissimo Terrence Mallick, che pure aveva trionfato a Cannes.

Il fatto che in pieni anni Duemila un film come “The Artist”, ovvero una pellicola muta ed in bianco e nero, sia destinato a divenire un successo planetario è solo apparentemente sconcertante: infatti, a spingere su “The Artist” è niente meno che Harvey Weinstein della premiata ditta Miramax, che si è fatta un nome con le sue produzioni capaci di qualità quanto di ritorni finanziari. Si dice peraltro che quando Harvey ha telefonato al fratello e socio Bob per comunicargli di aver appena staccato un assegno “da diversi milioni di dollari” per comprare un film che sembra girato nel 1927, quest’ultimo gli abbia risposto semplicemente: “Tu sei matto!”.

Come scrive Catherine Shoard del Guardian, il film di Michel Hazanavicius sembra proprio studiato a tavolino per compiacere gli americani: il regista, esperto di parodie cinematografiche, “va in brodo di giuggiole per l’era della celluloide, ed eleva le pene di un attore disoccupato al rango di una tragedia greca”. Senza contare, che il tema della crisi del cinema muto causata dalle prime pellicole sonorizzate, era stato già esplorato nel 1952 nell’irresistibile “Cantando sotto la pioggia”.

Secondo la Shoard, alla fine è proprio “Midnight in Paris” il film che definisce meglio i Globe del 2012: “un prodotto mainstream che porterà molti incassi, nel quale comunque la creatività fa premio sul bieco senso degli affari”. In ogni caso, la scelta dei film sembra in qualche modo segnalare un ritorno del Premio all’attenzione per la qualità del tempo che fu, quando il esso era considerato un buon banco di prova delle produzioni che sarebbero state insignite degli Oscar.

Il fatto di aver preferito, nel corso degli ultimi anni, “Avatar” e “The Social Network” rispettivamente a “The Hurt Locker” della Bigelow e a “Il discorso del Re”, che poi hanno trionfato, quasi a sorpresa,  la notte degli Oscar, la dice lunga sulla lungimiranza dimostrata di recente dal circolo della stampa estera di Hollywood, California.

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