di Vincenzo Maddaloni 

MOSCA. Pjotr Leonidovich Kapitza negli anni bui della dittatura staliniana rifiutò di dedicarsi al progetto della bomba atomica, convinto che la scienza deve essere al servizio dell’umanità. Pagò il diniego con gli arresti domiciliari e con quaranta anni di attesa perché gli dessero il premio Nobel che il suo collega inglese, Paul Adrien Maurice Dirac, ricevette nel 1933. Non mostrò mai di pentirsi di quella sua scelta, che rimane esemplare sebbene desueta ai nuovi mentalismi.

M’è tornato in mente davanti al grande portone dell’Accademia Russa delle Scienze in russo, l'istituto scientifico più importante della Federazione Russa che fino al 1991 era conosciuta come Accademia delle Scienze dell'URSS. Pjotr Leonidovich Kapitza, lo scienziato, con indosso la casacca grigia che gli stava un po’ larga e ai piedi le scarpe di pezza con la suola di corda, nuove. Gli era al fianco la moglie che per tutta la durata del convegno era stata seduta sull’ultimo banco e prendeva appunti su piccoli fogli.

Si erano ritrovati fuori, davanti al portone. Si era unito a loro Paul Adrien Maurice Dirac http://it.wikipedia.org/wiki/Paul_Dirac  che per la sua teoria sull’antielettrone ricevette il premio Nobel appunto nel 1933. Probabilmente la stessa cosa sarebbe accaduta a Kapitza che scoprì la superfluidità dell’elio liquido, se non fosse stato “rapito” nel 1934 da Stalin e per quattro lustri non si seppe più nulla di lui e delle sue ricerche. Tant’è che il Nobel lo ricevette soltanto nel 1978, quaranta quattro anni dopo la sua invenzione.

Sicuramente me l’ha fatto ritornare in mente la recente scomparsa di Elena Bonner, la compagna di Andrej Sacharov, lo scienziato dissidente http://it.wikipedia.org/wiki/Andrej_Dmitrievi%C4%8D_Sacharov del quale ella è stata più della sua metà come disse Gorbaciov http://www.megachip.info/rubriche/34-giulietto-chiesa-cronache-marxziane/6354-e-gorbaciov-sussurro-qe-molto-piu-della-sua-metaq.html. Molto vi hanno influito pure i riccioli dorati e assurdi del tetto dell’Accademia che spaziano da ogni dove sul panorama di Mosca dopo essere sbucati di tra gli alberi delle colline (non so come le hanno ribattezzate oggi) che per me continuano a chiamarsi Lenin.

Kapitza appartiene alla generazione di scienziati precedente a quella di Sacharov. Quando l’incontrai, di questi giorni di trenta anni fa, era già molto avanti nell’età (8 giugno 1894 - 8 aprile 1984), ma era ancora una personalità di spicco non tanto per la sua fama indiscussa di ricercatore, ma piuttosto per la coerenza con le proprie ragioni morali tutte volte a sostegno di una scienza a servizio dell’umanità. E’ un ideale che aveva condizionato da sempre la sua esistenza e lo aveva spinto a gesti clamorosi: si rifiutò energicamente di dedicarsi al progetto della bomba all’idrogeno sfidando le ire di Beria http://it.wikipedia.org/wiki/Lavrentij_Pavlovi%C4%8D_Berija e di Stalin; più tardi confutò con coraggio e lucidità la partijnost, la partiticità del sapere, sicché persino il New York Times dovette riconoscere che « il contributo di Kapitza a favore di una libera scienza russa, contro la rigida sorveglianza degli ideologi marxisti, è stata enorme».

Robert Jungk nel suo libro Destino degli scienziati atomici, apparso in Italia da Einaudi (ora trovabile soltanto su ebay) con il titolo Gli apprendisti stregoni, ne traccia un ritratto singolare, quando parla dei giovani scienziati che lavoravano attorno a Lord Rutherford http://nobelprize.org/nobel_prizes/chemistry/laureates/1908/rutherford-bio.html nell’Istituto di fisica di Cavendish, il laboratorio di ricerca più attrezzato del mondo negli anni Venti e Trenta: lì fu scoperto il neutrone. Kapitza era tra i suoi discepoli prediletti perché, spiega Jungk, «egli possedeva la stessa vitalità entusiasmante del suo maestro, la stessa sfrenata vigoria e fantasia, a cui aggiungeva però anche una punta di eccentricità russa. Sia che si avventasse in auto a folle velocità sulle pacifiche strada di campagna inglesi; sia che in un week end, con scandalo dei suoi ospiti puritani, si tuffasse nudo in un fiume vicino e spaventasse i cigni imitando il loro gracchiare, sia che passasse più notti a fare esperimenti con le sue macchine ad alta frequenza senza chiudere gli occhi».

Era il 1921, Pjotr Kapitza  aveva lasciato san Pietroburgo per via di un’epidemia che gli aveva ucciso, l’anno prima, la moglie e i due figli. Voleva cambiar vita e scelse Cambridge perché a quell’epoca - come detto - la cittadina inglese era il centro della fisica mondiale. Paul Dirac che lo conosceva dal 1923 raccontava che a Cavendish, ogni giovedì sera, il “russo” aveva l’abitudine di radunare i colleghi per discutere e scambiare pareri ed esperienze. «Ci vediamo - si usava dire tra gli scienziati - al Kapitza club»; anche questo è scritto sui libri di storia. Durò fino al 1934.  In quell’anno l’Accademia delle Scienze, trasferendosi da San Pietroburgo (che nel frattempo era diventata Leningrado) a Mosca, volle iscrivere Kapitza tra i suoi soci e l’invitò per celebrare l’avvenimento.

Non era il suo primo viaggio in patria: ci andava ogni anno in compagnia della seconda moglie Anna Aleksejeva, pure lei emigrata nel Venti in Inghilterra per fuggire il contagio, più che per approfondire gli studi di archeologia. Rimanevano ogni volta due, tre mesi, ma in quel settembre del Trentaquattro, quando Kapitza decise di rientrare a Cambridge, gli fu fatto capire che l’Unione Sovietica “non poteva fare più a meno di lui”. Fu - in effetti - bloccato. Soltanto la moglie ritornò in Inghilterra, giusto il tempo per riprendere i figli e portarli a Mosca.

Da allora, ogni anno durante i mesi estivi era Paul Dirac ad andare in Russia per portargli le ultime novità e le scoperte di Cavendish. Erano quelli tempi di fede nell’internazionalità della scienza: Rutherford - è un esempio significativo -  visti vani i tentativi di riavere Kapitza, decise di inviargli il laboratorio con tutte le attrezzature. Fu lo stesso Dirac a curarne il trasferimento. Narra Jungk che il Governo sovietico, «per assicurarsi Kapitza non soltanto pagò trentamila sterline dell’epoca per il Laboratorio Mond, ma costruì a Mosca un nuovo istituto sullo stile di una dimora signorile inglese, appositamente per lui. E così Kapitza si arrese nella sua aurea prigionia».

Non si seppe più nulla di lui fino al 1946, all’epoca dell’esplosione di Bikini http://www.youtube.com/watch?v=YKwGtfCtrYM, quando inviò ai suoi colleghi occidentali un appello, invitandoli a non impegnarsi nello sviluppo dell’energia atomica a scopi militari: «Parlare di energia atomica e insieme di bomba atomica è insensato, come se parlando dell’elettricità ci si riferisse principalmente al suo impiego nella sedia elettrica», scrisse. Poi seguirono altri anni d’inspiegabile silenzio, mentre i giornali americani andavano scrivendo di lui che dirigeva l’équipe di costruttori delle bombe atomiche sovietiche. Invece Kapitza - lo si seppe molto tempo dopo - era agli arresti  domiciliari a Zvenigorod http://it.wikipedia.org/wiki/Zvenigorod  proprio per essersi rifiutato di dedicarsi al progetto della bomba H.

Lo avevano esonerato dalla carica di direttore dell’“Istituto per i problemi fisici”, costruito appositamente per lui, lo avevano privato di tutte le decorazioni, gli avevano dimezzato lo stipendio e lo avevano “rinchiuso” con moglie e figli nella sua piccola dacia di Zvenigorod. Unica concessione, il permesso di costruirsi un piccolo laboratorio, ma gli negarono gli assistenti. Erano gli anni bui del terrore staliniano durante i quali, altri scienziati per il medesimo rifiuto subirono sorti peggiori.

Kapitza era comunque uno studioso troppo prezioso, forse speravano in un suo ravvedimento; gli concessero il laboratorio perché continuasse a sperimentare: così fece, assistito dalla moglie. Tuttavia l’esperimento più audace fu quello di scrivere una lettera a Stalin avvertendolo di stare in guardia da Beria. Ebbe fortuna, Stalin tenne in buon conto il messaggio e intimò a Beria di non toccare Kapitza. Venne così a crearsi una ben strana situazione nella quale Stalin, che essenzialmente avversava Kapitza, divenne in suo maggior protettore contro i tanti nemici che volevano eliminarlo.

Poi, col passare del tempo, gli restituì alcuni privilegi, e gli permise - cosa di cui lo scienziato più soffriva la mancanza - d’incontrasi con altri fisici, e fu per lui quasi un ritorno alla vita normale. Che durò poco, poiché Kapitza si rifiutò di partecipare ai grandi festeggiamenti per il settantesimo compleanno di Stalin. Non glielo perdonarono. Fu di nuovo privato di tutte le concessioni, fu di nuovo isolato nella sua dacia di Zvenigorod dove vi rimase fino alla morte del dittatore. Ricordo che chiesi a Kapitza di parlarmi di quei sette anni - tanto durò il periodo di isolamento - di cosa significasse per un ricercatore vivere in quella situazione e perché scrisse a Stalin. Rispose, con un sorriso candido, che la vita a quell’epoca era sì angosciosa, ma c’era pur sempre il sollievo della ricerca quotidiana. Non scese in particolari, poiché era convito che la vicenda della sua vita non interessasse alcuno.

La moglie Anna Aleksejevna, che l’affiancava, rimase con le labbra strette. Per dire lo stile di quella coppia. Invece parlò Paul Andrien Maurice Dirac, dopo aver premesso che tutto quanto sarebbe andato dicendo gli era stato raccontato da Kapitza, la posizione del quale era diventata ancora più precaria dopo la morte di Stalin perché non aveva alcuno che lo proteggesse da Beria. «Una mattina si presentarono due uomini e gli chiesero di visitare il laboratorio; gli dissero che volevano conoscere nel dettaglio ogni macchinario.

Kapitza comprese presto che quei due individui non erano affatto dei fisici e cominciò a chiedersi cosa volessero da lui. Ma quelli non gli lasciarono tempo per le riflessioni, continuarono a tempestarlo di domande. Poi a mezzogiorno in punto i due dissero di aver già visto abbastanza e si accomiatarono, lasciando Kapitza nel più grande sconcerto.

Tutto divenne chiaro ventiquattro ore dopo, quando sentì alla radio che Beria era stato arrestato alle dodici del giorno avanti: quei due uomini erano venuti per difenderlo nel caso che Beria, nei suoi ultimi momenti di potere, avesse deciso di sopprimerlo», raccontò Dirac mentre la coppia assentiva col capo.

E così Kapitza ritornò a dirigere il suo Istituto e, forte dell’appartenenza all’Accademia delle Scienze, una corporazione così antica e potente da sfuggire persino al controllo del Pcus (era l’accademia che gli pagava lo stipendio durante il periodo di “confino”) divenne leader dell’ intelligencija liberale sovietica. Il timido disgelo krusceviano gli consentì di criticare il dogmatismo ideologico sulle pagine della Ekonomiceskaja Gazeta e su Junost, il giornale della gioventù.

A chi gli prospettava i pericoli di una discussione al di fuori degli schemi di partito rispondeva: «La scienza diviene falsa quando non riconosce l’errore, il quale in sé è dialetticamente necessario. Non bisogna sopra stimare mai il danno dell’errore. Organizzatevi in club, discutete, non stancatevi mai di discutere». Diventò così una sorta di padre spirituale, il punto di riferimento ideale degli scienziati contestatari che ne ripresero poi il messaggio teorico dandogli un contenuto concreto.

Quando nel 1965 il periodo “liberale” ispirato dalla destalinizzazione finì e i dibattiti tornarono ad essere proibiti, quello che prima era tra gli scienziati sovietici un dissenso verbale divenne, per ragioni contingenti, più concreto: cominciò il periodo delle petizioni, delle lettere aperte, delle dimostrazioni, di un diverso modo di criticare il regime ed emersero altri nomi: Sacharov, Medvedev, Turcin, Levic, Calidze. Kapitza si tenne in disparte, e fu anche quella una scelta coerente con il suo esistere: aveva valutato che non ci si poteva spingere oltre, che non si sarebbe mosso nulla. Infatti, Gorbaciov sarebbe arrivato soltanto nel 1985. Kapitza era convinto, e l’aveva già scritto a Rutherford il 18 giugno del 1921 http://kapitza.ras.ru/history/PLKapitza/letter.html, che «alla fin fine noi tutti non siamo che piccole particelle di una massa trascinata da una corrente che chiamiamo destino. Al massimo riusciamo di tanto in tanto a discostarsi dalla nostra via e a nuotare a galla. La corrente ci dirige».

Ma siccome non riusciva a rassegnarsi, continuava a ricordare a ogni occasione ai “falchi” dell’una e dell’altra parte che urgeva innalzare un inno alla pace. «Ricordiamoci di Hiroshima, pensiamo alla pace», continuava a dire a Dirac alto, filiforme, che un po’ piegato in avanti come un punto interrogativo sembrava come ascoltasse quell’esortazione per la prima volta. Era bello vederli muoversi tra una folla anonima di un pomeriggio di luglio del secolo scorso. Così distanti, così diafani. Emozionanti come un cespuglio di arnica su un passaggio di roccia.

    

 

 

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