di Mario Braconi

Nel suo pezzo comparso sul numero online della rivista Seed del 9 marzo, David Weisman spiega come si è convinto che alcuni degli insegnamenti del buddismo possano sovrapporsi ai risultati più recenti delle neuroscienze. Inizialmente, il medico materialista Weisman si era dimostrato diffidente nei confronti dei contributi scientifici che negli ultimi anni. In modo sempre più regolare, essi sottolineavano il valore delle intuizioni del pensiero buddista nel campo della conoscenza della mente e del comportamento umano (si pensi al lavoro svolto dalla Mind & Life Institute, che può contare tra l’altro sulla proficua e sistematica collaborazione del Dalai Lama): “Quando una scoperta scientifica sembra dare conforto ad una credenza religiosa, potete star certi che i suoi fedeli si trasformeranno al volo in empiristi di stretta osservanza”.

Dopo un po’ di ricerca, però, Weisman - suo malgrado - deve ammettere che, almeno sul concetto di “Io”, buddismo e neuroscienze la pensano in modo molto simile. Quello che nella nostra vita quotidiana siamo abituati a considerare un “Io” unico ed indivisibile (chiamiamolo come preferiamo, anima, mente...) è, secondo la moderna scienza, un’illusione. Quella mente, quell’io, quella “cosa” che ci sembra autonoma ed invariabile, è in realtà un aggregato di componenti talmente variabili ed incerte da “mettere in crisi un’elaborazione del concetto resa con termini pre-scientifici”.

I buddisti questo stato di cose l’hanno ben chiaro, al punto che in pali il concetto di “sè” viene reso con la parola anatta, ovvero “non sè”. Un esempio di tale non-univocità è, per Weisman, il caso di un suo paziente trentasettenne sopravvissuto ad un ictus, il quale, dopo la riabilitazione, parlava in modo diverso da come facesse prima della malattia, manifestando all’inizio di ogni frase una esitazione quasi impercettibile, come quella di una persona che stia cercando la parole. Dunque, perfino la luminosa e incorruttibile unità della parola (il logos dei Greci, il Verbo dei Cristiani) è in realtà frutto del lavoro di varie componenti del cervello umano, alcune delle quali recepiscono mentre altre esprimono; come non bastasse, questi elementi, ad esempio dopo un trauma, cambiano “mestiere”.

Sin dall’inizio, il buddismo sembra aver preso molto sul serio la questione dell’impermanenza (anicca); forse ciò è accaduto, ragiona Weisman, per la particolare attenzione di chi l’ha teorizzato verso il fluire delle cose naturali: il sole sorge e tramonta, l’animale più grande mangia il più piccolo, tutto cambia e tutto si trasforma, niente resta uguale a se stesso. Qui, evidentemente, non siamo troppo distanti da Eraclito, il quale, dalle parti nostre, 500 anni prima di Cristo si sollazzava con il suo celebre slogan filosofico “tutto scorre” (panta rei).

Peccato, però, che la sua saggezza non fosse considerata abbastanza sexy dai suoi successori, ormai impazziti per la droga platonica, che, al pari di ogni altra sostanza tossica, prometteva piaceri proibiti: idee primigenie, feconde, invariabili, divine. Questa tradizione basata sull’assunto della straordinaria unicità dell’uomo, involucro di un’anima immortale, ha fatto molti danni.

Ancora oggi, nota Weisman, “quando la fede giudaico-cristiana entra in conflitto con la scienza, il tema vero è, quasi sempre, la rimozione dell’Uomo dal suo piedestallo putativo, il punto nodale della Creazione.  In questo, il buddismo, con il modesto diniego che oppone a cotanta vanità, ha dimostrato di essere meno incline all’errore e meno dipendente dal peccato originale della vanità [rispetto ad altre religioni]”.

Non che buddismo e scienza riescano sempre ad andare mano nella mano: ad esempio il concetto di reincarnazione non regge ad alcuna disamina scientifica. Weisman, in estrema sintesi, la vede così: niente attività cerebrale, niente attività mentale, niente attività mentale, niente reincarnazione. Quindi, con la morte fisica del cervello, possiamo dire addio alla possibilità, anche puramente teorica, della reincarnazione. Eppure tale credenza è uno dei dogmi fondamentali della dottrina buddista - al punto che il capo del buddismo tibetano, il Dalai Lama, è considerato dai suoi seguaci la reincarnazione di un saggio maestro vissuto nel passato.

Nonostante tutto, il suo approccio pragmatico, perfino un po’ cinico alla realtà rende il buddismo robusto e capace di affrontare a testa alta il cimento del metodo scientifico, almeno rispetto ad altre fedi. Non dimentichiamo, infatti, che a rigore la dottrina dell’immortalità dell’anima - un classico delle tre religioni della major league - potrebbe essere messa in crisi dalla semplice osservazione empirica del modo di parlare della vittima di un piccolo danno cerebrale; peccato che non tutti abbiano il coraggio di trarre conseguenze coerenti dall’evidenza scientifica. 

In breve, la fede nell’impermanenza delle cose e dell’uomo ha traghettato il buddismo nel mondo moderno: e c’è da scommettere che, grazie anche ad essa, questa filosofia accompagnerà l’uomo per altri millenni a venire, a meno che prima o poi non finisca per subire il fascino perverso delle idee iperuranie.

 

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