di Michele Paris

Uno dei principali obiettivi di Barack Obama nella difficile operazione di rilancio della sua amministrazione in politica estera è la ratifica definitiva del trattato New START, siglato ufficialmente a Praga con il presidente russo Medvedev lo scorso mese di aprile. La versione più recente del trattato tra USA e Russia per la riduzione delle testate nucleari dei due paesi si trova tuttavia di fronte ad un percorso accidentato a Washington, dove un rinvigorito Partito Repubblicano non perde occasione per ostacolare i progetti della Casa Bianca.

Per incassare l’approvazione conclusiva, il successore dei trattati START 1 (1991) e START 2 (1993) necessita dell’appoggio di almeno i due terzi del Senato americano, cioè 67 voti. Nella camera alta del Congresso i democratici controllano però solo 59 seggi, che si ridurranno oltretutto a 53 dal prossimo gennaio, quando i nuovi senatori usciti vincitori dalle recenti elezioni di medio termine prenderanno possesso dei loro scranni. Fino a pochi giorni fa, il partito di maggioranza sembrava poter contare su circa 14 repubblicani per il passaggio a breve del New START, ma gli ultimi sviluppi hanno lasciato Obama e i suoi praticamente con un solo esponente dell’opposizione disposto a dare il via libera immediato all’accordo bilaterale, il senatore dell’Indiana Richard Lugar.

L’opposizione più dura ai piani di Obama è giunta dal veterano senatore dell’Arizona, John Kyl, il quale ha escluso la possibilità di prendere in considerazione il trattato nel corso della cosiddetta “lame-duck session” del Congresso uscente. Secondo il numero due dei repubblicani al Senato l’agenda già fin troppo folta del ramo del Congresso di cui fa parte non consentirebbe l’analisi del nuovo START nelle prossime settimane. Dunque, il voto ritenuto cruciale da Obama andrebbe rinviato al 2011, con lo spettro di ulteriori ritardi in seguito al prossimo allargamento dei ranghi del Partito Repubblicano.

La ferma resistenza di John Kyl ha finito così per convincere anche quei compagni di partito che avevano inizialmente assicurato il loro sostegno al trattato con Mosca. Dietro alla riluttanza del senatore dell’Arizona c’è il desiderio di ottenere dal presidente Obama svariate decine di miliardi di dollari per rimodernare le testate nucleari risparmiate dalla riduzione prevista dal New START. A tal scopo, la Casa Bianca aveva già stanziato circa 70 miliardi di dollari da spendere entro il prossimo decennio, ai quali ne sono stati aggiunti altri 14 nell’ambito di un vero e proprio corteggiamento nei confronti del senatore Kyl che ha visto impegnati tutti i pezzi grossi dell’amministrazione Obama.

Anche se il New START dovesse essere approvato a breve, il presidente americano si troverebbe così in una situazione quanto meno singolare, essendo costretto ad investire ingenti somme nel rinnovamento e nella produzione di nuovi ordigni letali proprio mentre cerca di presentarsi come il paladino di un mondo senza armi nucleari. Le concessioni a John Kyl significherebbero in definitiva una resa sostanziale alla posizione dei falchi del Partito Repubblicano. Nostalgici della Guerra Fredda, questi ultimi continuano a vedere con sospetto qualsiasi limitazione degli strumenti di promozione dell’imperialismo statunitense su scala planetaria, come lo è appunto l’arsenale nucleare di cui tuttora dispone Washington.

In ogni caso, Obama sembra deciso a forzare un voto al Senato entro la fine dell’anno e, per convincere l’opposizione ad appoggiarlo, la scorsa settimana è stato protagonista di un evento pubblico a sostegno del New START in cui è apparso al fianco di esponenti di spicco delle passate amministrazioni, come Henry Kissinger e gli ex segretari di Stato Madeleine Albright e James Baker. Nell’operazione propagandistica non si è mancato poi di ricordare che precedenti trattati con la Russia - come il Trattato di Mosca del 2003 tra Bush e Putin e lo stesso START 1 - erano stati approvati dal Senato dopo pochi giorni di dibattito e con un appoggio bipartisan.

L’accordo sul nuovo START tra Stati Uniti e Russia era giunto dopo lunghe negoziazioni tra le delegazioni delle due superpotenze e nel suo aspetto finale prevede il taglio di circa il trenta per cento delle armi nucleari possedute da entrambi i paesi. Ciò significherebbe la diminuzione dei rispettivi arsenali fino a quota 1.550 per le testate nucleari e 700 per i vettori nucleari, una quantità di armi comunque in grado abbondantemente di cancellare ogni forma di vita sulla faccia della terra. Inoltre, vengono fissate nuove norme per la riattivazione delle ispezioni reciproche che erano state interrotte l’anno scorso per la prima volta dal crollo dell’Unione Sovietica.

Definito un punto cruciale per la sicurezza nazionale USA, il New START rientra nella strategia di Obama per “resettare” le relazioni con la Russia dopo le frizioni che hanno segnato il rapporto tra George W. Bush e Vladimir Putin. Il tentativo di riavvicinamento a Mosca, ribadito anche durante il recente summit della NATO a Lisbona, ha come obiettivo in realtà il coinvolgimento del governo russo su varie questioni importanti per gli interessi americani. In primo luogo, per aumentare le pressioni sull’Iran intorno all’annoso problema del nucleare. Poi, per evitare un pericoloso avvicinamento della Russia alla Cina in una situazione di crescente attrito tra Washington e Pechino e, da ultimo, per assicurarsi le linee di rifornimento privilegiate verso l’Afghanistan che passano per la stessa Russia in Asia centrale.

Mentre in Russia sono in molti a nutrire dubbi sulle effettive possibilità di approvazione del nuovo START in tempi ragionevoli dopo il successo elettorale repubblicano dei primi di novembre, il presidente Medvedev ha ottenuto nelle ultime settimane la promessa di Obama per un suo impegno a tutto campo a Washington, così da convincere i senatori recalcitranti. Con un’atmosfera politica sempre più avvelenata nella capitale americana, le prospettive per la Casa Bianca non sembrano però delle migliori e ulteriori ritardi rischiano di trasformare un successo annunciato nell’ennesimo flop dell’amministrazione Obama in politica estera.

A rompere gli indugi dei repubblicani potrebbe essere allora proprio la carta iraniana, già agitata dagli Stati Uniti a Lisbona per promuovere il nuovo sistema di difesa missilistico della NATO in Europa. Il giro di vite su Teheran, caldamente sostenuto dai repubblicani e messo in atto insistentemente per giungere al cambiamento di regime, risulterebbe infatti ben poco efficace senza la collaborazione dell’alleato russo.

Mosca da parte sua ha già dimostrato la propria disponibilità ad assecondare i desideri di Washington, dapprima votando a favore delle sanzioni licenziate qualche mese fa dal Consiglio di Sicurezza ONU e più recentemente cancellando un contratto di vendita all’Iran per il sistema di difesa missilistico S-300. Quest’ultimo avrebbe permesso alla Repubblica Islamica di scoraggiare un eventuale aggressione israeliana contro le proprie installazioni nucleari.

Un favore fatto alla Casa Bianca, credono in molti, proprio in cambio di una rapida approvazione del New START, ma che potrebbe rientrare in fretta se a Washington non saranno in grado di mettere assieme i voti necessari al passaggio del trattato.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Non può più tornare in Svezia, dove verrebbe arrestato con l'accusa di molestie sessuali; non può andare in Francia, perché il governo ha messo al bando Wikileaks.org; non può girare per l'Europa, dopo che la Svezia ha esteso il mandato d'arresto all'Interpol; persino la nativa Australia minaccia di arrestarlo su richiesta dell'Interpol, unico caso di collaborazione poliziesca interplanetaria. Non può nemmeno scappare in America, perché il governo americano lo accusa di spionaggio e verrebbe arrestato come terrorista. Appare in Inghilterra, dove rilascia interviste ai principali quotidiani americani. L'ultimo rifugio per Assange rimane l'Islanda, l'unica terra libera dell'intero pianeta.

Nonostante la bancarotta finanziaria, gli Islandesi si stanno adoperando per trasformare il loro Paese nel paradiso della stampa e offrono un porto sicuro all'attivista australiano. I server di Wikilieaks si trovano al sicuro in Islanda e in Svezia, dove un sito appartenente al Partito Pirata (con un mirror in Svizzera) li ospita e protegge dagli attacchi dei governi di mezzo mondo. Assange dichiara che nel caso questa caccia contro di lui dovesse proseguire, metterebbe online una montagna di segreti di stato e di corporations.

Forse è stata proprio la sua ultima minaccia a far scattare la caccia all'uomo. Assange, che crede nel libero mercato, è diventato il paladino della trasparenza. Nel suo mondo ideale, dove mille Wikileaks locali mettono alla berlina i misfatti dei politici e delle aziende, la minaccia della trasparenza sarebbe un incentivo in favore di un comportamento onesto.

Nella recente intervista alla rivista americana Forbes, Assange annuncia che dopo il Cablegate la prossima mossa è mettere online la corrispondenza interna e i documenti riservati di una grande banca americana. Il suo scopo è esporre al pubblico massicce frodi finanziarie. Finché si tratta di divulgare note del Dipartimento di Stato americano, va bene, ma ora che il supereroe cibernetico minaccia Goldman Sachs e compari, la pacchia è finita. Dopo questa minaccia, è scattata la caccia all'uomo planetaria.

Proprio come Assange, il sito di Wikileaks.org sta subendo una caccia senza quartiere, costretto a cambiare casa digitale a ripetizione. Wikileaks.org e i suoi mirror sono al momento inaccessibili. Gli hackers al servizio di governi e corporations sono riusciti a bloccarli temporaneamente. Allo stesso tempo è impossibile fare donazioni al sito tramite PayPal, da quando il servizio di pagamento online ha congelato l'account, citando violazioni di norme contrattuali.

La settimana scorsa il sito era ospitato in Inghilterra (come il suo fondatore), ma EveryDNS di Manchester lo caccia dopo aver subito attacchi online. In questa vera e propria guerra digitale, Wilikeaks.org emigra in Svizzera, dove cambia il proprio cognome in .ch, ma il server svizzero li dirotta in Francia, dove subito il governo francese lo mette fuori legge. Wikileaks.org decide di saltare sulla groppa del nemico e chiede asilo ad Amazon.com. Ma l'azienda intasca i soldi e poi, sotto pressione dell'amministrazione americana, li espelle.

In questo momento i file segreti si trovano sullo svizzero Wikileaks.ch, che appartiene al Partito Pirata svedese. Tuttavia nelle ultime ore anche questo sito è inaccessibile. Al momento in cui scriviamo l'indirizzo possibile per connettersi a Wikileaks.org è http://213.251.145.96/

Nonostante le minacce di arresto e di oscuramento, Assange si è premunito di un'assicurazione sulla vita. Ha fatto scaricare a migliaia di sostenitori un enorme file criptato, contenente a suo dire delle rivelazioni di portata epocale. Nel caso venga arrestato o rapito o ucciso, la password verrà pubblicata sul sito e tutto il mondo verrà a sapere di cosa si tratta.

Il New York Times, in un editoriale, ha sostenuto che nessuna delle rivelazioni di Assange mette in imbarazzo il governo americano e si tratta di notizie già note. Negli Stati Uniti hanno fatto un certo scalpore le rivelazioni sull'Italia e sui rapporti tra Putin e Berlusconi, ma la maggior parte dei documenti riguardanti la politica americana parlano di cose già note. Nonostante questa apparente irrilevanza politica, pare si sia formato un vero e proprio complotto globale per fermare Assange.

Nemmeno per arrestare Bin Laden le polizie mondiali sono riuscite a sincronizzarsi in una caccia all'uomo di queste dimensioni. Nei tv show americani, Assange è il nuovo passatempo nazionale: sul manichino di Bin Laden si apre una cerniera e spunta Assange, il nuovo nemico “terrorista” della destra repubblicana. In un presente dominato da una nuova entità poliziesca globale, che chiude siti e arresta persone in qualsiasi parte del pianeta, a chi crede nella libertà di espressione rimane almeno un'opzione. Emigrare nella meravigliosa terra d'Islanda, paradiso della stampa libera.

di Carlo Musilli

La Corea del Nord continua a sbandierare i suoi progressi nucleari. Pochi giorni fa il quotidiano Rodong Sinmun ha fatto sapere al mondo che "migliaia di centrifughe" sono entrate in funzione per l'arricchimento dell'uranio, da utilizzare come combustibile per un reattore "ad acqua leggera", cioè finalizzato alla produzione di energia elettrica. Nelle stesse ore, l'agenzia ufficiale Kcna ha specificato che "il progetto di sviluppo di energia nucleare a scopo civile sarà accelerato".

Una comunicazione insistita da parte di Pyongyang, il cui obiettivo è quello di continuare a tenere sotto pressione Stati Uniti e Corea del Sud. Non ci sono infatti garanzie che la Corea del Nord non aumenti l'arricchimento dell'uranio dal 3% al 95%, cosa che consentirebbe di passare dalla produzione di elettricità a quella di bombe atomiche.

I timori sono stati alimentati dalla relazione fatta alla Casa Bianca da Siegried Hecker, il professore americano che a inizio novembre ha visitato il nuovo sito nucleare di Yongbyon. Appositamente invitato dalle autorità nordcoreane, Hecker è tornato in patria pieno di sospetti sulla reale funzione di quel reattore. Pyongyang gioca a spaventare il mondo. Probabilmente lo scopo è di usare la denuclearizzazione come moneta di scambio per ottenere maggiori aiuti dalla comunità internazionale, attualmente limitati dalle sanzioni Onu.

Ma nel Mar Giallo la tensione è alta, soprattutto sul fronte militare. Nel corso di un'audizione parlamentare, Won Sei-hoon, capo dei servizi segreti di Seul, ha messo tutti in allarme affermando di ritenere "altamente probabile" un nuovo attacco della Corea del Nord, dopo il bombardamento di martedì scorso contro l'isola sudcoreana di Yeonpyeong, costato la vita a quattro persone. Secondo Won Sei-hoon, inoltre, le recenti azioni militari di Pyongyang sarebbero legate "alla successione al vertice" del regime.

In effetti, il "caro leader" Kim Jong-il non gode ormai da tempo di buona salute e sta per essere sostituito dal suo terzogenito Kim Jong-un, che a fine settembre è stato nominato generale. In molti credono che il bombardamento della settimana scorsa abbia avuto offrire anche questo messaggio: nonostante l'imminente cambio di leadership, nulla cambia nella politica della Corea del Nord.

Di fronte a tale situazione di crisi, l'unica azione diplomatica possibile sembra essere quella della Cina, storico alleato di Pyongyang. Attraverso il suo ministro degli Esteri Yang Jiechi, Pechino continua a ribadire la necessità di riprendere le trattative a sei fra le due Coree, la Russia, gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina stessa. Si tratterebbe di riunire per una consultazione d'emergenza il tavolo già indetto per cercare di convincere Pyongyang ad abbandonare la strada del nucleare.

Un'iniziativa che, fino ad ora, non ha trovato seguito. Tutti gli altri paesi preferiscono la linea dura: il Giappone ha definito "poco opportuna" la ripresa delle trattative in questo momento, mentre il Segretario di Stato americano Hilary Clinton e il Ministro degli Esteri sudcoreano Kim Sung-hwan hanno specificato dal Kazakistan, dov'è in corso il vertice Osce, che prima del dialogo è necessario che Pyongyang abbandoni ogni atteggiamento aggressivo e dimostri un reale impegno per la denuclearizzazione. Affermazioni giunte proprio mentre nel Mar Giallo si stavano chiudendo i quattro giorni di esercitazioni militari congiunte degli eserciti di Washington e di Seul. Manovre che riprenderanno entro breve: fine dicembre o inizio 2011.

Nella risposta secca della Clinton alla proposta di Yang Jiechi si può leggere il disappunto degli Stati Uniti per il ruolo che la Cina ha scelto di svolgere in tutta la vicenda. Gli Usa avrebbero voluto un segnale forte contro l'aggressività nordcoreana, ma da Pechino non si sono mai sbilanciati, evitando perfino di attribuire a Pyongyang la responsabilità degli scontri a fuoco di martedì scorso.

Il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha detto chiaramente che la Cina "ha il dovere di intervenire su Pyongyang". Un'affermazione che ha reso chiaro a tutti come il pallino del gioco sia interamente in mano a Pechino. La Cina potrebbe. Gli Stati Uniti, semplicemente, non possono.

Oltre a mostrare i muscoli sfoggiando nelle acque coreane la mostruosa portaerei George Washington, gli Usa sanno di non avere alternative. Senza un'attiva collaborazione di Pechino, non c'è nulla che possano fare per fermare l'escalation nordcoreana.

Forse per prendere atto di questa situazione e stabilire mosse comuni, i ministri degli esteri di Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone s’incontreranno lunedì prossimo a Washington. Un estremo tentativo, in realtà, si è già consumato. L'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Susan Rice ha chiesto di intensificare l'applicazione delle sanzioni contro la Corea del Nord. Purtroppo per lei, aveva in mano una pistola scarica. Sulle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, la Cina ha potere di veto.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Nonostante le polemiche di alcuni liberali in merito alle opinioni poco adulatorie (a volte imbarazzanti) espresse da Philip Murphy sui politici tedeschi, trapelate di recente tramite l’irriverente WikiLeaks, Angela Merkel non ha intenzione di procedere in alcun modo nei confronti dell’ambasciatore statunitense a Berlino. La Cancelliera ha fatto sapere di non ritenere necessaria nessuna spiegazione in merito e ha escluso con decisione l’idea sventolata da alcuni liberali di chiedere la revoca dell’incarico di Murphy.

In realtà è proprio Guido Westerwelle (FDP) a risultare tra i più criticati dai dispacci “segreti” nell’ambito tedesco. Secondo quanto riporta il settimanale Der Spiegel, gli appunti lo descrivono come incompetente, frivolo e antiamericano: peggio di così non gli poteva andare. L’ambasciata americana lo considera un vero e proprio elemento di disturbo per i rapporti bilaterali Berlino-Washington, forse più dell’opposizione rossa.

Nove giorni prima delle legislative del 2009, l’ambasciatore americano a Berlino Philip Murphy invia la sua opinione in proposito a Washington: “Come un esperto di politica estera di nostra conoscenza ha commentato, Westerwelle manca di personalità ed è considerato troppo opportunista per essere credibile come ministro degli Esteri” continua Murphy, esprimendo a chiare parole i suoi dubbi in proposito. “Con Westerwelle a capo del ministero degli Esteri ci dobbiamo aspettare difficoltà: si vanta di essere un nostro grande amico, ma in realtà è molto scettico nei nostri confronti”.

Le opinioni di Murphy, in realtà, lasciano poco al caso, in quanto si fondano su una conoscenza molto approfondita delle forze di Governo teutoniche. I dispacci pubblicati da Wikileaks raccontano nei minimi dettagli alcuni dibattiti interni del Governo federale: tra questi, ad esempio, la discussione sulle testate atomiche statunitensi presenti su suolo tedesco. Siamo a inizio ottobre 2009, legislative si sono appena concluse e a Berlino si tratta per un governo di coalizione tra FDP e CDU/ CSU. Durante questa riunione, riferiscono i dispacci di Murphy, Westerwelle si è espresso a favore di un ritiro delle armi nucleari americane. Wolfgang Schaeuble (CDU), attuale ministro delle Finanze, ha spiegato che le armi nucleari servono a intimidire l’Iran e a relaivizzarne, quindi, la minaccia.

La risposta di Westerwelle è tanto secca quanto - per gli Stati Uniti - inopportuna: secondo il ministro liberale, le testate nucleari non possono in alcun modo raggiungere la potenza mediorientale per ovvie questioni di distanza. È Angela Merkel (CDU) a interrompere diplomaticamente la discussione: la Cancelliera puntualizza che un’azione individuale della Germania a favore del disarmo nucleare non porterebbe a nulla.

Ma la questione delle testate nucleari è solo una dei tanti temi affrontati dai dispacci e tutti gli argomenti vengono affrontati con la stessa ricchezza di dettagli. Si parla della presenza delle truppe tedesche in Afghanistan, dell’approvazione del sistema di sicurezza antiterrorismo Swift al Consiglio europeo, dell’atteggiamento negativo di “Sua Eminenza grigia” Schaeuble nelle questioni economiche. Ce n’è per tutti. La Cancelliera diventa “Angela Teflon Merkel”, in riferimento forse al materiale antiaderente delle moderne pentole e alla sua capacità di farsi scivolare addosso le critiche.

Secondo Murphy, Horst Seehofer, leader della CSU, avrebbe mostrato di non sapere neppure quanti soldati statunitensi siano stazionati per il momento in Baviera. Dopo alcune sue esternazioni contro la partecipazione dello Stato tedesco alla missione in Afghanistan, risalenti a dicembre 2009, l’ambasciatore statunitense avrebbe ricevuto una chiamata di giustificazione da un contatto nelle fila dei cristiano-sociali. Il misterioso personaggio esprimeva la sua “frustrazione per gli interventi di Seehofer, che ha parlato ancora una volta senza consultarsi con nessuno”.

Ma non sono solo i contenuti trapelati, che hanno a tratti il sapore dei pettegolezzi di paese, a imbarazzare la politica tedesca. I dispacci americani parlano di un membro del partito dei liberali che racconta “ingenuamente e volentieri” le discussioni interne del Governo tedesco e delle singole forze di coalizione all'ambasciata americana. Si tratta di un verbalizzatore che si prende la briga di passare poi all’ambasciata americana presenze, orari, gruppi di lavoro, così come appunti scritti a mano di tutto ciò che è stato detto durante le riunioni e documenti interni delle forze di coalizione. In poche parole, una catastrofe. Secondo Der Spiegel, gli Stati Uniti sanno più dello scenario politico tedesco di tanti politici tedeschi stessi. Rimangono ancora da chiarire i criteri che impediscono di considerare l’informatore una spia a tutti gli effetti.

Westerwelle ha reagito a questa indiscrezione nell’unico modo possibile: non crede assolutamente all’esistenza di questo fantomatico verbalizzatore per conto terzi, il ministro liberale ha piena fiducia nei suoi. Inoltre, secondo Guido Westerwelle, le informazioni di Wikileaks non vanno a intaccare in alcun modo i rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Germania. La preoccupazione del ministro degli Esteri tedesco va piuttosto a quelle persone che la pubblicazione dei documenti segreti ”potrebbe mettere in pericolo di vita”, riferendosi forse agli informatori delle superpotenze democratiche occidentali che collaborano da Paesi sotto regime o di guerra. Una prospettiva molto interessante, vista la bufera che l’imbarazzo che certe indiscrezionii avrebbero potuto sollevare in Germania.

A quanto pare, dopo i segreti militari degli Stati Uniti, ora Wikileaks ha sferrato un colpo alla diplomazia: le vittime sono i due pilastri della strategia di potere americano, sottolinea Der Spiegel. Anche l’autorevole settimanale di sinistra tedesco sfocalizza l’attenzione sul problema della vulnerabilità del sistema informativo statunitense. Ad essere messa in discussione è la fiducia sistema di protezione degli Stati Uniti, una mancanza che gli Stati Uniti non si possono permettere visto il ruolo di superpotenza che si arrogano da decenni. Ed è proprio questo, secondo Der Spiegel, più che i contenuti dei dispacci in sé, che potrebbe intaccare i rapporti bilaterali tedesco- statunitensi e non solo.

Si tratta di un malloppo di 243’270 dispacci diplomatici che la ambasciate americane hanno mandato alla centrale e di 8’017 direttive inviate dallo State Departement alle sue ambasciate in tutto il mondo. Se ne stanno occupando il New York Times, il Guardian, Le Monde, El País e Der Spiegel: l’analisi di questi giornali è mirata a mostrare come gli Stati Uniti vedono il mondo, le influenze che esercitano e le sconfitte che devono venire accettate.

I primi dispacci segreti sono datati 28 dicembre 1966, gli ultimi febbraio 2010. Per la maggior  parte si documentano gli anni di Georg W. Bush e l’inizio del mandato di Barack Obama: secondo Der Spiegel, ben 49’446 di questi avvisi sono stati mandati dal 2008, l’anno delle elezioni di Obama.

 

 

 

di Carlo Musilli

Hanno detto ancora sì. Un anno dopo aver proibito la costruzione di minareti sul territorio nazionale, gli svizzeri hanno dato il proprio assenso anche al referendum "per l'espulsione degli stranieri che commettono reati". L'ostracismo durerà dai 5 ai 15 anni, 20 per i recidivi. Sarà colpito chi, non essendo elvetico purosangue, si macchierà di gravi colpe quali omicidio, stupro, rapina, traffico di droga e tratta di esseri umani. Curiosamente, alla lista di abomini gli svizzeri aggiungono anche l' "abuso di prestazioni sociali". Il provvedimento è stato approvato dal 52,9% dei votanti, con una netta cesura territoriale: a favore tutti i cantoni di lingua tedesca  (fatta eccezione per Basilea Città), contrari tutti quelli francofoni (tranne il Vallese).

L'iniziativa era stata lanciata durante la campagna elettorale del 2007 dall'Unione di Centro (Udc), che a dispetto del nome è un partito di estrema destra populista, xenofobo e nemico dell'Unione Europea. In tempi record, gli uomini dell'Udc hanno raccolto 211mila firme, più del doppio di quelle necessarie a indire il referendum. Tre anni dopo, l'aria che si respira è ancora quella elettorale: l'esito della recente consultazione rappresenta una vittoria politica fondamentale per l'Udc in vista delle elezioni federali dell'ottobre 2011.

Quanto alla realizzabilità concreta del progetto, invece, i dubbi da sciogliere sono ancora molti. La proverbiale precisione svizzera stavolta lascia davvero a desiderare. Una serie di abnormi problemi giuridici si frappone fra l'idea proposta nel referendum e l'eventuale approvazione della legge. Il più risolvibile è quello relativo all'ordinamento interno della Svizzera: la nuova iniziativa richiederà una modifica della Costituzione per consentire la revoca del permesso di soggiorno e l'espulsione automatica dei malefici stranieri. A sua volta, la riforma costituzionale dovrà essere preceduta da una legge ad hoc ancora tutta da scrivere.

Il secondo ostacolo è invece ben più pericoloso. Quello che gli svizzeri hanno in mente di fare rischia di compromettere la loro posizione all'interno della Comunità Europea. L'iniziativa prevede infatti che anche i cittadini comunitari residenti in Svizzera possano essere espulsi senza tante storie, il che - fanno notare da Bruxelles - è un tantino in contraddizione con l'accordo bilaterale sulla libera circolazione che il Paese ha firmato con l'Ue. Da notare che gli accordi di Schengen risalgono al 1985, ma la sottoscrizione della Svizzera è arrivata solo nel 2008.

Ammesso che gli astuti elvetici riescano a superare anche questo scoglio, come la mettiamo con i diritti umani? Secondo Mevlut Cavusoglu, presidente dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, le misure che la Svizzera vuole introdurre "non sarebbero in conformità con quanto previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo", perché le espulsioni sarebbero automatiche e non soggette ad alcuna procedura d'appello. Questo, a sentire Cavusoglu, comporterebbe il rischio di rispedire qualche straniero in paesi dove potrebbe essere "torturato o perseguitato".

L'Udc è stato l'unico dei grandi partiti presenti nel parlamento svizzero a sostenere questo delirante programma d'espulsioni. Gli altri erano contrari. Tutti. E allora come hanno fatto gli ultraconservatori a spuntarla? La risposta è drammaticamente semplice. Per amor di pluralismo, o più probabilmente per non dispiacere troppo all'elettorato in un momento in cui la situazione sembrava ancora gestibile, il parlamento decretò a suo tempo che il testo non violava il diritto pubblico internazionale e che quindi poteva essere sottoposto al voto del popolo. A quel punto, per arginare il progetto dell'Udc è emersa un’idea tristemente nota in Svizzera: il "Controprogetto".

In sostanza, il documento prevedeva sempre l'espulsione degli stranieri per reati gravi, ma stabiliva che non dovesse essere automatica. Anzi, bisognava valutare caso per caso, garantendo agli interessati la possibilità di fare ricorso, in modo da rispettare il diritto svizzero ed europeo. In uno slancio di titanico progressismo, si ribadiva perfino il dovere di promuovere l'integrazione degli stranieri in Svizzera.

I verdi hanno bocciato il "Controprogetto", mentre i socialisti si sono spaccati (tutto il mondo è paese). Alcuni lo hanno rifiutato perché non distingueva fra gli stranieri di passaggio e quelli nati in Svizzera e perché venivano posti sullo stesso piano reati economici e delitti come l'assassinio o lo stupro, in palese violazione del principio di proporzionalità della pena.

Le uniche forze politiche davvero rilevanti a sostenere questa riforma light sono state il Partito Liberale Radicale (Plr) e il Partito Popolare democratico (Ppd). Risultato: il povero "Controprogetto", anch'esso sottoposto a referendum, è stato bocciato con il 54,2% dei no. Non è stato approvato in nessuno dei 26 cantoni.

A vincere è stata l'Udc. I super-conservatori hanno saputo cavalcare le paure più ingenue, quelle che si accontentano di associazioni rozze, del tipo straniero-criminale. Paure istintive, che di fronte a problemi complessi trovano rassicurazione in risposte chiare, semplici e sbagliate. 


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