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di Carlo Musilli
Una mamma gorilla che abbraccia teneramente il suo cucciolo, una fossa comune. Quale delle due immagini vi fa venire in mente il Ruanda? Sulla risposta che darete, è stato costruito un business da milioni di sterline. Lo chiamano ‘riciclaggio della reputazione’. Secondo un’inchiesta del Guardian, Londra è diventata la capitale del “reputation laundering”, punto di riferimento per tutti quei dittatori che hanno bisogno di migliorare l’immagine del loro Paese all’estero. E da dove iniziare se non dai media inglesi?
L’assunto di base è questo: gli uomini ricchi e potenti del pianeta leggono l’Economist e il Financial Times. Sono loro la platea da convincere. Così, le aziende britanniche di public relations negli ultimi anni hanno visto lievitare il proprio fatturato grazie alla generosità di governi che violano sistematicamente i diritti umani, come quelli di Arabia Saudita, Russia, Cina, Sudan, Madagascar, Ruanda, Kazakistan e Sri Lanka. Gli esperti di comunicazione di sua maestà stipulano contratti da 2 milioni di sterline l’anno per dare utili suggerimenti a paesi ufficialmente denunciati dalle Nazioni Unite per pratiche come tortura, corruzione, censura. L’associazione britannica dei consulenti di pubbliche relazioni (Prca) ha definito il fenomeno “un mercato in crescita”. Ha ragione: il giro d’affari raggiunge i sette miliardi di sterline l’anno.
Vediamo i professionisti all’opera. In vista delle elezioni politiche in Ruanda (le seconde in sedici anni), il ministro degli Esteri del Paese, Louise Mushikiwabo, ha indetto una conferenza stampa nell’ambasciata di Londra. Qui entrano in gioco i Pr della Racepoint. Mettetevi comodi, inizia lo spettacolo. Giornalisti di tutto il mondo vengono accolti in un finto villaggio ruandese. In una mano sfavillanti brochure piene di gorilla e montagne, nell’altra una tazza di delizioso caffè. Ruandese, naturalmente. In sottofondo la voce del ministro: “Abbiamo più donne in Parlamento di qualsiasi altro paese”. E funziona. “Il Ruanda ha un eccellente macchina di pubbliche relazioni, si legge in un rapporto dello scorso anno dell’Iniziativa per i diritti umani del Commonwealth. E’ riuscita a convincere la comunità internazionale che nel Paese vige una stabile democrazia basata sulla separazione dei poteri e sul totale rispetto dei diritti umani. Tuttavia - conclude il rapporto - è vero esattamente il contrario”.
Una delle aziende leader del settore è la Chime plc, guidata da Lord Bell, ex consulente della lady di ferro Thatcher. “Non mi occupo di etica, ma di comunicazione - spiega Bell - chiunque voglia comunicare qualcosa, dal mio punto di vista è libero di farlo”. Nel 2009 la Chime ha così messo in cascina quasi 67 milioni di sterline, con una crescita del 37% rispetto al 2008. Fra i vari clienti, l’azienda annovera il governo dello Zambia, che neanche tre mesi fa è stato accusato da varie associazioni per i diritti umani di dare rifugio a sospetti responsabili del genocidio in Ruanda.
Nonostante tutto, un codice di condotta per le aziende di Pr esiste. Secondo la Prca, bisognerebbe rifiutarsi di lavorare per clienti le cui attività sono manifestamente illegali o contrarie all’etica, professionale o umana che sia. La Chime ha risolto il problema creando una divisione per i rapporti con i paesi stranieri, la Bell Pottinger, che non ha sottoscritto il codice. Altre aziende sembrano farsi degli scrupoli. La Portland Pr, guidata da Tony Allen, ex vice capo dell’ufficio stampa di Blair, e la Hill & Knowlton, che ha fra i suoi clienti Adidas e Nissan, hanno rifiutato un’offerta milionaria dal governo kazako, attualmente sotto inchiesta da parte della commissione investigativa delle Nazioni Unite (sembrerebbe che laggiù i poliziotti abbiano una certa propensione alla tortura).
“Noi rispettiamo il codice e non condividiamo nessun tipo di comunicazione contraria alla legalità o all’etica, né ci è mai stato chiesto dai nostri clienti”, spiega un portavoce della Portland, mentre la società si consola gestendo l’immagine britannica di un pezzo grosso come la Russia. Alla fine il contratto kazako è stato sottoscritto dalla Bgr Gabara, impresa londinese che non solo non ha firmato il codice, ma nemmeno fa parte della Prca, a scanso di equivoci sulla politica aziendale in fatto di principi etici. Curiosamente, sul sito web dell’azienda, nella sezione “representative clients”, il governo del Kazakistan non compare. Proprio non se la sono sentita di farne un vanto.
Eppure la collaborazione aperta col mostro da prima pagina non conviene nemmeno ai Pr più spregiudicati. Per questo Omar Bashir, dittatore sudanese accusato dal Tribunale penale internazionale di crimini contro l’umanità per il genocidio in Darfur, si è visto rifiutare dalla Bell Pottinger un contratto da due milioni di sterline. Peccato che la stessa azienda lavori per il governo dello Sri Lanka, che pare abbia bombardato civili e praticato esecuzioni nelle fasi finali della guerra contro i separatisti del Tamil, appena un anno fa.
Il governo di Colombo non fa mancare ai suoi cittadini nemmeno la tortura e la violazione dei diritti dell’infanzia, pratiche che hanno indotto l’Unione Europea, nel luglio scorso, a minacciare il blocco del canale preferenziale per le esportazioni verso il vecchio continente di cui lo Sri Lanka gode. Bashir si deve essere sentito ingiustamente escluso dalla festa e ha trovato il modo per entrare dalla porta sul retro. Una società petrolifera cinese attiva in Darfur ha preso contatti con i Pr londinesi in sua vece.
A scanso di facili moralismi, conviene ascoltare anche chi si è mobilitato in difesa dei tanto criticati esperti di Pr. Molti sostengono che un lavoro ben fatto può portare nei paesi sottosviluppati nuovi investitori, clienti, turisti e partner diplomatici. Insomma, sviluppo. Magari perfino democrazia. Si ripete che lavorare per il bene di un intero paese non vuol dire favorire il dispotismo dei governi. Peccato che a pagare per il lavoro ben fatto siano proprio i governi. Certo non è giusto associare il Ruanda esclusivamente al genocidio. Un paese è una realtà complessa che merita di essere studiata in modo ampio, da più punti di vista. Ma studiare e vendere non sono esattamente sinonimi.
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di mazzetta
C'è ancora molto rumore negli Stati Uniti attorno a Wikileaks. Il sito, rilasciando recentemente miglia di comunicazioni militari statunitensi, ha provocato un discreto scandalo, ma ancora di più ne ha provocato la diffusione di un grosso file (della dimensione 1,4 gigabyte) denominato "Insurance", assicurazione. Il file è criptato con una chiave a 256 bit, una password di oltre cinquanta caratteri per forzare la quale, provando tutte le combinazioni possibili e mettendo al lavoro una decina di computer molto veloci, occorrerebbe un tempo molto superiore alla stessa età del pianeta terra.
Un'impresa che sembra al di sopra delle pur notevoli possibilità di computo a disposizione dei servizi segreti americani, che infatti hanno un diavolo per capello e che devono a questo punto trovare un sistema alternativo alla "forza bruta" per aprirlo, analizzarlo e comprendere cosa contenga e quanto sia pericoloso per gli Stati Uniti e la loro reputazione.
Il file, inoltre, è già stato scaricato da migliaia di utenti, rendendo vana ogni ipotesi d'intervento basata sul sequestro, il sabotaggio del sito, azioni di polizia o aggressioni militari ai danni di Wikileaks e dei suoi server. Per questo si sprecano le accuse al comportamento "irresponsabile" di Wikileaks e di chi lo gestisce, in particolare del suo fondatore Julian Assange.
Un'agitazione francamente difficile da comprendere, dato che la recente diffusione delle comunicazioni tra i militari americani è passata quasi inosservata e del tutto priva di conseguenze significative. Pur provando e dimostrando che i militari americani hanno commesso e occultato gravi crimini di guerra, che ne hanno discusso tranquillamente tra loro senza che nessuno sollevasse grosse obiezioni e perfino che i soldi dei contribuenti americani foraggiano i servizi pachistani che fanno il doppio gioco ai loro danni.
Nessuna conseguenza: ufficiali e media americani hanno reagito dicendo semplicemente che nei documenti diffusi non c'era niente che non si sapesse già, subito seguiti dai media occidentali che sostengono lo sforzo bellico, rapidi a dar voce a fidati editorialisti che si sono affrettati a confermare che non ci fosse niente di nuovo. Il tutto si è esaurito in una fiammata di un paio di giorni con gran parte dell'opinione pubblica che non è stata neppure raggiunta dalla notizia, visto che degli imbarazzanti dettagli si è discusso molto meno che del "pericolo" rappresentato da Wikileaks per i "nostri ragazzi" al fronte. Wikileaks è stata velocemente indicata come la parte criminale nella faccenda e dei crimini di guerra e delle prove rappresentate dalle stesse comunicazioni statunitensi non si è proprio discusso.
Stessa sorte per la clamorosa inchiesta che poche settimane prima aveva pubblicato il Washington Post, dimostrando che negli Stati Uniti è stato dato il nulla-osta per trattare dati segreti e quasi un milione di persone e che questi sono per la maggior parte dipendenti d'imprese private, arruolate dal governo per spiare principalmente gli americani e le loro comunicazioni. La scoperta di un tale outsourcing della sicurezza nazionale che; unito a una spesa mostruosa per tener su tutta la baracca e al fatto che tutto il sistema sia orientato più alla sorveglianza degli americani che verso eventuali minacce straniere; avrebbe in teoria dovuto scuotere la "terra degli uomini liberi" e invece è scivolato via come se niente fosse.
In un caso e nell'altro non c'è stato dibattito, nessun politico ha levato la sua voce per dirsi scandalizzato e i due scandali non hanno provocato nemmeno una modesta indagine del Congresso. Eppure i numeri e le spese in gioco sono di dimensioni impressionanti, ed è evidente che da un lato si è dimostrato che il governo degli Stati Uniti spia senza tregua i propri cittadini e dall'altro che i militari americani hanno commesso numerosi crimini di guerra e altri crimini per occultarli. Niente, nessuno scandalo; solo diffusa indifferenza a parlar d'altro. Le uniche reazioni emerse sono state quelle di fastidio verso chi ha diffuso le notizie e l'abbozzo di un processo pubblico nei loro confronti.
E se negli Stati Uniti funziona così negli altri paesi occidentali, il nostro su tutti, la situazione è ancora peggiore. Chi avesse confrontato i maggiori quotidiani d'oltreoceano e i nostri nei giorni scorsi non avrebbe potuto fare a meno di notare la clamorosa differenza nel trattare la notizia dell'uccisione di un gruppo di medici occidentali e non in Afghanistan. Per i quotidiani statunitensi sono stati uccisi dieci medici, dieci volontari impegnati nel portare cure nei luoghi meno accessibili dell'Afghanistan.
Chi li abbia uccisi non è chiaro e, visto che a rivendicare l'azione sono stati due gruppi diversi di guerriglieri, resta aperta ogni ipotesi. Per i maggiori quotidiani italiani invece è stato semplicemente un massacro di medici "cristiani". Nessuna delle testate che spesso criticano la presenza di Emergency in Afghanistan come presenzialismo incosciente, animato da motivazioni politiche che affondano nell'antiamericanismo ha osato scrivere nulla del genere.
Ecco perché anche l'innovativa e meritoria opera di Wikileaks non servirà a niente. Il controllo esercitato dal potere sui media occidentali e sul discorso pubblico è talmente pervasivo che alla "soppressione dell'informante nativo" (cit.) Spivak); che censura completamente le voci degli abitanti dei paesi travolti dalle "nostre" guerre o vittime delle "nostre" politiche; si aggiunge la garanzia del dirottamento del dibattito pubblico dove non può far danni, anche quando le notizie capaci di dare scandalo riescano a giungere ai media e a bucare la propaganda bellica spinti da fonti autorevoli e occidentali come il Washington Post o certificate da prove incontestabili come i documenti militari americani diffusi da Wikileaks. Non succede niente, neanche quando ci si trova di fronte a un fallimento epocale certificato, come la guerra in Iraq.
Una guerra della quale nel nostro paese non dibatte più nessuno ormai da anni e che, anche negli Stati Uniti, sembra un capitolo chiuso, nonostante la situazione sul terreno sia molto peggiore di quella che era a un anno dall'invasione e nonostante le truppe americane siano destinate a restarvi per anni, a dispetto degli assurdi proclami che hanno annunciato il disimpegno americano e a dispetto del fatto che tutte le cifre di pubblico dominio restituiscano il quadro di un paese distrutto che a distanza di mesi dalle ultime elezioni, definite ovunque in Occidente "un successo", è addirittura ancora privo di un governo.
Un'evidenza che dovrebbe portare gli esperti alla revisione della dottrina del "Nuovo Modello di Guerra Occidentale" (cit. Martin Shaw), che prevede il controllo di tre campi di battaglia perché l'Occidente possa andare alla guerra: quello bellico in senso stretto, quello economico e quello mediatico. Da quello che abbiamo visto dal 2001 in poi e da quello che possiamo trarre dall'esperienza empirica, bisogna invece concludere che l'Occidente può anche andare alla guerra e perderla, che può anche portare alla rovina le proprie economie a seguito dello sforzo bellico o di concomitanti politiche economiche fallimentari, ma che fino a quando il potere politico ed economico domineranno incontrastati il campo di battaglia mediatico, non ci sarà alcuno ostacolo alla continuazione delle guerre in corso o allo scoppio di altre guerre in futuro.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Le elezioni di mediotermine sono alle porte e i Democratici sono terrorizzati dall'astensione a sinistra. Che sconfiggeranno, ritengono, portando a votare in massa i consumatori di marijuana. Una trovata paradossale, che in caso di successo varrà come exit strategy dalla “guerra alla droga” e, perché no, potrebbe fare scuola in altri Paesi. Rastrellare un paio di punti in più dell'avversario è quello che serve per vincere le elezioni. Mai come quest'anno i sondaggi sono incerti e l'elettorato polarizzato, in un'America in crisi, facile preda della strategia della paura perseguita dai Repubblicani.
Quel paio di punti in più valsero a Bush la vittoria nel 2004, grazie alla geniale intuizione del suo stratega Karl Rove, che trasformò le elezioni in un referendum contro i matrimoni omosessuali. Bush riuscì così a portare alle urne l'estrema destra cristiana, che non avrebbe altrimenti votato.
La popolarità di Obama è in caduta libera, sotto la pesante propaganda dei Repubblicani. Il GOP infatti può attingere a finanziamenti illimitati da parte di Wall Street, dei petrodollari e delle grosse corporations, che puntano a paralizzare il Congresso e bloccare con ogni mezzo le pur blande riforme che i Democratici hanno in cantiere.
L'ondata di entusiasmo popolare per Obama è ormai svanita e gli strateghi democratici devono portare a votare quella parte dell'elettorato liberale che votò una tantum nel 2008, ma che non pare intenzionato a ripresentarsi a novembre. Si tratta in particolare delle donne single sotto i quarant'anni e degli ispano-americani. I sondaggi mostrano che, nel caso il quesito sulla legalizzazione della marijuana fosse sulla scheda, la metà di questo elettorato astensionista tornerebbe alle urne. E nei due terzi dei casi voterebbe a favore della legalizzazione.
Gli americani favorevoli alla legalizzazione delle droghe leggere sono in aumento stabile di anno in anno, soprattutto dopo aver scoperto che la legalizzazione ad uso medico in molti Stati non ha portato all'Apocalisse che tutti temevano, anzi ha aperto nuove opportunità. In un periodo di recessione, le tasse provenienti dalla vendita di marijuana sono una manna dal cielo per le amministrazioni locali in bancarotta.
La legalizzazione ad uso medico ha portato alla luce una grossa fetta di consumo e rappresenta anche un notevole risparmio per la polizia e il sistema carcerario. Persino i maggiori network televisivi, tra cui CNN e NBC, dedicano speciali in prima serata alle mille possibilità di fare affari legalmente con la canapa. Per non parlare del colpo mortale ai sanguinari cartelli messicani della droga, che controllano il traffico di marijuana (e di tutte le altre droghe).
Martedì è stata lanciata la campagna nazionale "Just say now", che mette insieme un'inedita coalizione di attivisti, giudici e poliziotti con l'intenzione di legalizzare la marijuana. Con l'appoggio bipartisan della ultra-destra conservatrice dei "Tea parties", la cui bandiera è la riduzione dell'invadenza del governo nella vita dei cittadini e dunque anche per quanto riguarda l'uso di droghe. L'organizzazione “Forze dell'ordine contro il proibizionismo,” formata da poliziotti e giudici, daranno la copertura tecnica ai politici che decideranno di fare outing in favore della legalizzazione.
In Arizona, Oregon, California, Colorado e South Dakota, "Just say now" appoggerà i referendum che accompagneranno le elezioni del 2010. Anche se i Democratici stanno lavorando per portare la marijuana sulla scheda, la strategia del partito nel merito del referendum resta però ambigua, evitando di schierarsi apertamente a favore della legalizzazione e usando i referendum come trucco per portare a votare gli astensionisti. Assumendo che questi, in maggioranza, voteranno a sinistra. E soprattutto, con la speranza che gli amanti dello spinello si ricordino di andare a votare...
Se il trucco escogitato dal Partito Democratico funzionerà, Obama ha già pronto il bis per le presidenziali del 2012. Per andare sul sicuro, questa volta le schede elettorali saranno stampate su cartine King Size...
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di Eugenio Roscini Vitali
Anche se non ci sono riprese televisive, il 4 agosto in Iran un’esplosione c’è stata. Anzi, di esplosioni ce ne sono state due. La prima, avvenuta lungo la strada che dall’aeroporto di Hamadan porta allo stadio della squadra locale di football, ha interessato il corteo del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, in visita nel capoluogo dell’omonima regione per un comizio in favore del programma nucleare iraniano. La seconda, registrata a pochi minuti di distanza, ha colpito l’impianto petrolchimico della compagnia Pardis ad Assaluyeh, nell’Iran meridionale, e ha provocato la morte di cinque operai e danneggiato gravemente le strutture di produzione.
Per minimizzare i fatti di Hamadan, l’emittente iraniana in lingua araba Al Alam ha dovuto ammettere che la deflagrazione sarebbe stata causata da un numero eccessivo di fuochi d’artificio, accesi dai sostenitori al passaggio del corteo presidenziale, ma il network Al Arabiya parla di attentato e, secondo le informazioni diffuse da siti web vicini al regime e dall’agenzia filo-governativa FARS, ci sarebbero alcuni feriti e un arresto.
Quello dell’impianto di Assaluyeh, la cui seconda fase era stata inaugurata 28 luglio scorso dallo stesso presidente Ahmadinejad, è il terzo grave incidente registrato nell’arco degli ultimi due mesi in Iran e ufficialmente avrebbe avuto luogo durante la riparazione di una conduttura, una saldatura eseguita dagli operai della Pardis. Il 24 luglio l’impianto petrolchimico situato sull’isola di Khark, provincia di Bhusher, 1.200 chilometri a sud di Teheran, era stato investito da una vasta esplosione e da un incendio che aveva causato tre morti, un disperso e diversi feriti, alcuni dei quali intossicati dal gas.
Anche in questo caso le autorità avevano giustificato l’incidente con problemi tecnici: il surriscaldamento di una caldaia che aveva poi causato l’esplosione. Ma, visto che sull’isola sorge il più grande terminal petrolifero del Golfo Persico, il livello di allerta era cresciuto notevolmente. Il 29 maggio era invece esploso uno dei pozzi petroliferi di Naftshahr, provincia di Kermanshah: cinque i morti, 12 i feriti e una perdita di produzione di oltre 8.000 barili al giorno per 39 giorni, il tempo impiegato dal team della National Iranian Drilling Company (NIDC) per domare l’incendio e fermare la fuoriuscita di petrolio.
Con 2.4 milioni di barili al giorno, nel 2008 l’Iran è stato il quarto esportatore di petrolio al mondo; principali acquirenti sono stati i giganti asiatici (Giappone, Cina, India e Corea del Sud) e i Paesi europei appartenenti all’OECD (Italia, Spagna, Grecia e Francia). Sempre nello stesso anno la produzione è stata pari a 3.8 milioni di barili al giorno (5% della produzione mondiale), seconda solo a quella dell’Arabia Saudita (8.2) e davanti all’Iraq (2.4), agli Emirati Arabi Uniti (2.3) e al Kuwait (2.3); le aree di produzione sono quaranta, 13 delle quali offshore, e l’80% dell’estrazione arriva dalle grandi riserve del Khuzestan e dalle istallazioni situate nelle province di Bushehr, Fars, Kohkiluyeh e BoyerAhamd.
Nel gennaio scorso l’autorevole rivista Oil and Gas Journal ha stimato che per il 2009 la produzione iraniana è stata pari a 3.8 milioni di barili, 500 mila barili in più della quota OPEC prevista, e che la Repubblica Islamica possiede il 10% dell’intera riserva mondiale di greggio (137.6 miliardi di barili contro i 259.9 dell’Arabia Saudita e i 175.2 del Canada). Lo scorso anno gli impianti della National Iranian Oil Refining and Distribution Company (Abadan, Isfahan, Bandar Addas, Teheran, Arak, Tabriz, Shiraz, Kermanshah e Lavan Island) hanno raffinato 1.5 milioni di barili al giorno, una quantità che non soddisfa la domanda interna, ma che entro il 2013, grazie anche ai 40 miliardi di dollari che la Cina è pronta ad investire nella Repubblica Islamica, dovrebbe raddoppiare.
In Iran le vicende degli ultimi giorni sono sintomatiche di un aumento delle tensioni interne: la lista dei nemici dell’attuale regime è lunga e non manca chi è pronto a sostenerli. Ci sono le rivendicazioni politiche dei riformatori che, a causa delle contestazioni espresse nei riguardi del voto del 12 giugno 2009, stanno soffrendo una feroce repressione e il braccio armato dei Mujaheddin Khalq (MEK), gruppo armato iraniano con una lunga e insanguinata storia di opposizione al regime che attualmente non ha una reale capacità operativa ma che potrebbe entrare nella sfera di influenza qualche servizio segreto straniero disposto a finanziarlo.
Ci sono poi le aree dove le tensioni etniche possono dare origine a forme di separatismo armato e dove Washington e Tel Aviv potrebbero trovare spazio per preparare le basi di una resistenza interna: i curdi del Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Pjak) e gli azeri nel nord-ovest, i baluchi nel sud-est e ribelli sunniti Jundallah del Movimento di Resistenza Popolare dell’Iran (PRMI), i gruppi legati ad Al-Qaeda e gli ahwazi del sud-ovest arabo; 30 milioni di persone che rappresentano il 40% della popolazione iraniana e decine di movimenti che per ottenere ragione delle proprie istanze ricorrono ad ogni forma di lotta, compreso il terrorismo.
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di Fabrizio Casari
A poche ore dall’insediamento del nuovo presidente colombiano, Juan Manuel Santos, la tensione tra Venezuela e Colombia, costruita ad arte dall’uscente presidente Uribe, trova un nuovo focolaio interessato in Washington. Larry Palmer, designato dal Dipartimento di Stato come prossimo ambasciatore statunitense in Venezuela, si è infatti lasciato andare a dichiarazioni che di diplomatico hanno ben poco.
Scimmiottando le affermazioni di Uribe, nel rispondere alle domande poste in un questionario destinato al Senato statunitense (che dispone della facoltà di accettare o rifiutare la designazione dell’ambasciatore proposta dalla Casa Bianca) Palmer ha sostenuto che “nelle forze armate di Caracas il morale è basso; ciò a causa dell’aumento dell’influenza cubana, aspetto che sarebbe già stato rifiutato dai militari venezuelani”. Lo stesso Palmer ha poi aggiunto di aver chiari “i nessi tra la guerriglia colombiana ed il governo del Venezuela”.
Le parole di questo nuovo ambasciatore di guerra hanno trovato la pronta replica delle autorità venezuelane. Il Ministro della Difesa, Carlos Mata Figueroa, ha dichiarato che “le forze armate del Venezuela respingono categoricamente le dichiarazioni rilasciate da Palmer” e considerano che questo ipotetico ambasciatore “ in modo assurdo, temerario e irresponsabile, ha attaccato la dignità e il decoro dei militari venezuelani”. E ancora: “Solo una mente meschina, perversa e contorta potrebbe confondere la nostra collaborazione tra popoli fraterni con un’intromissione straniera”.
A giudizio del Ministro venezuelano, Palmer cerca di coinvolgere il Venezuela nel conflitto armato interno alla Colombia, “svelando il piano orchestrato dalle canaglie imperialiste rappresentate dal governo degli Stati Uniti”. Ognuno sceglie i toni che preferisce, ma é difficile dargli torto, in effetti, giacchè aldilà degli aggettivi, le dichiarazioni di Palmer sembrano direttamente confermare l’escalation della provocazione da parte di Washington nei confronti del governo venezuelano. Presentare le proprie credenziali da ambasciatore dopo simili affermazioni, sarebbe infatti un'autentica sfida alla sovranità del paese ospitante.
Le affermazioni dell’ambasciatore designato sembrano collocarsi perfettamente nel piano politico-mediatico redatto da Washington e Bogotà, destinato a portare Venezuela e Colombia ad una guerra. Il piano, già denunciato dal Presidente Hugo Chavez, prevederebbe l’eliminazione dell’inquilino di Miraflores e l’insubordinazione di settori delle forze armate venezuelane, che dovrebbero sabotare dall’interno le capacità di reazione dei militari leali alla Costituzione e all’autorità politica e istituzionale del paese di Simon Bolivar.
Il secondo aspetto del progetto golpista prevederebbe, infatti, sia l’entrata in azione delle forze armate colombiane (da qui la falsa accusa di sostegno alle FARC da parte di Caracas ndr) e sia - ove fosse necessario - il successivo affiancamento dei militari statunitensi, che dalle basi militari in Colombia, dalla IV Flotta di stanza nel Mar dei Caraibi e dalle truppe di terra stanziate in Costa Rica, dovrebbero riuscire a prevenire - o a respingere - eventuali reazioni dei paesi amici del Venezuela, significativamente Cuba e Nicaragua.
Il piano, pur con tutta la sua pericolosità, è naturalmente un progetto che non sarà né semplice, né indolore, provare a trasferire dalla carta a terra. D’altra parte, le dichiarazioni di Uribe circa la presunta copertura venezuelana ai guerriglieri colombiani delle FARC, non hanno raccolto grandi consensi nel subcontinente. Anzi, l’arcinota qualità di Bogotà nel fabbricare paccottiglia propagandistica, spacciandola per denuncia internazionale, proprio nei giorni scorsi ha subìto un’ulteriore conferma.
Un ufficiale dell’esercito colombiano, infatti, ha ammesso di aver manipolato a fondo il computer portatile di Raul Reyes, “Ministro degli ESteri” delle FARC ucciso durante un raid dell’esercito colombiano in territorio ecuadoregno, che vide un saldo di venticinque persone assassinate e la successiva crisi diplomatica tra Quito e Bogotà,che ha rischiato di degenerare persino sul piano militare, dal momento che il presidente Correa non consente passeggiate dei militari colombiani nel proprio territorio.
Quella del pc di Reyes è stata una delle pagine più comiche della fabbrica dei falsi di Uribe. Su quel computer, a detta dell’ex presidente colombiano, c’era di tutto: alleanze, appoggi, relazioni, strutture, capacità operative: insomma, sessanta anni di storia guerrigliera colombiana in un portatile.
Ovviamente, nello stesso portatile, come per incanto, appariva la conferma di tutte le tesi politico-propagandistiche di Bogotà e Washington circa la complicità internazionali con le FARC e l’ELN. Venezuela, Nicaragua, Cuba, Ecuador; le tesi colombiane circa gli aiuti alla guerriglia da parte di tutti i paesi dell’ALBA venivano miracolosamente confermate, guarda caso, dall’analisi dell’hard disk. Oggi, però, con la confessione del militare colombiano, si sa quel che già s’immaginava: le cosidette “evidenze” erano in realtà falsi costruiti su misura per gli scopi politici di Washington e Bogotà.
A poche ore dall’insediamento di Santos, dunque, le parole dell’ambasciatore designato sembrano voler indicare che Washington non gradirebbe un’eventuale correzione di linea rispetto a quella (fallimentare) di Uribe nei confronti del Venezuela. In risposta alla reazione dei paesi latinoamericani, che attraverso l’Unasur hanno fatto presente come questa crisi tra Bogotà e Caracas vada fatta rientrare al più presto e come l’intero continente attenda dal neopresidente colombiano un deciso cambio di rotta, in direzione della normalizzazione dei rapporti con il Venezuela, l’intenzione della Casa Bianca sembra essere quella d’innalzare quanto più possibile la tensione con Caracas. In questo senso, la designazione di Palmer sembra voler inviare contemporaneamente un messaggio sia alla Colombia che al Venezuela.
E se si vuole avere una conferma diretta a questa linea interventista di stampo imperiale che la Casa Bianca di Obama ha intrapreso verso l’America Latina, basta scorrere la recente pubblicazione della “lista nera”, cioè dei paesi che a detta di Washington non combattono il terrorismo. Cuba, Nicaragua, Bolivia, Ecuador, Venezuela; l’elenco dei “cattivi” abbonda soprattutto dei paesi membri dell’ALBA, che hanno avuto l’indicibile torto di abolire l’obbedienza dovuta al gigante del Nord. La lista, infatti, come’è ovvio, non ha niente a che fare con il terrorismo; è invece l’elencazione annuale che gli Stati Uniti fanno dei loro avversari politici. Anzi, spesso nemmeno dei loro avversari, quanto piuttosto dei paesi che non riconoscono al locale ambasciatore statunitense il ruolo di proconsole dell’impero.
La lista dei “cattivi” non è per niente diversa da quelle stilate dalle precedenti amministrazioni repubblicane, a significare una certa continuità di vedute e d’intenti tra il deplorato Bush e la novità Obama. L’idea che gli Stati Uniti possano fornire pagelle, decretare status, organizzare colpi di stato e destabilizzazioni nei paesi che considerano indipendenti non conforta certo chi riteneva che il dopo-Bush potesse mostrare un cambio di rotta, un’inversione di tendenza dal governo unipolare ad una governance multipolare.
Si deve perciò ricordare che Miami è un autentico resort per terroristi ricercati da diversi paesi dell’area, primo fra tutti l’ultraprotetto Posada Carriles, definito dagli stessi organismi Usa a difesa dei diritti umani “il bin Ladin delle Americhe”. Ora, che gli Stati Uniti, principali finanziatori e sostenitori del terrorismo contro Cuba e Venezuela, ispiratori di colpi di stato e dispensatori di aiuti economici e militari ai gruppi di destabilizzazione nei paesi come Cuba, Bolivia, Ecuador, Cuba, Venezuela e Nicaragua possano avere il coraggio di definire altri paesi come complici del terrorismo, risulterebbe comico, se non fosse tragico.
Da questo punto di vista le dichiarazioni provocatorie di Larry Palmer non sono quindi espressione di accenti fuori luogo dell’ambasciatore in pectore, né di estremismo verbale per compiacere i senatori repubblicani della Commissione Esteri; bensì una riduzione lessicale coerente di quanto il Dipartimento di Stato esprime con maggiore ampiezza.
Il Presidente Chavez, da parte sua, definendo “gravi” le dichiarazioni di Palmer, ha affermato che queste sono “oggetto di valutazione” e che “potrebbero inibirlo”. Sostanzialmente, ammesso che lo stesso riceva dal Senato nordamericano l’approvazione alla nomina, Miraflores valuta se accettare o rifiutare il gradimento alla nomina del neoambasciatore Usa. Perché a Washington possono anche approvare i loro desideri, ma è a Caracas che si decide il destino venezuelano del ciarliero ambasciatore.