di Emanuela Pessina

BERLINO. Se una volta era il buon Dio a regalare ai nobili l’intelletto, sono i geni, ora, a elargirlo ai ricchi: è quanto emerge dal libro di Thilo Sarrazin (SPD) “La Germania si distrugge da sola”, presentato ufficialmente a Berlino l'altro ieri mattina, ma già da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Sarrazin, alto dirigente della Bundesbank, la Banca federale tedesca, improvvisatosi antropologo per l’occasione, ha scritto un trattato di quasi 500 pagine contro l’immigrazione, giustificando “logicamente” il suo razzismo con la necessità di una selezione biologica conforme all’intelligenza e al ceto sociale. E ora la polemica continua a crescere: e alla Germania, forse oggi più sensibile di altri Paesi al tema dell’intolleranza razziale, non resta che vergognarsi di lui.

Nel suo trattato, Sarrazin individua uno dei fattori negativi della società moderna negli immigrati musulmani, nello specifico per la “difficoltà d’integrazione” che questi mostrano. In un’intervista al settimanale Welt am Sonntag, l’ex-politico spiega che la loro problematicità “non è una leggenda, ma una realtà concreta per l’Europa”. Si tratta di un elemento culturale che, purtroppo, difficilmente si può correggere. E, a sostegno delle sue tesi, aggiunge che “tutti gli ebrei hanno un gene particolare, così come i baschi si differenziano dagli altri per determinati geni”. Perché, secondo Sarrazin, è tutta una questione di biologia.

Sarrazin parte dal presupposto che l’intelletto è un fattore “dal 50 fino all’80% innato”, quindi determinato in gran parte dai geni di un essere vivente e non dalle circostanze sociali in cui si trova a vivere. E la ripartizione di questo prezioso bene non è per niente casuale: secondo Sarrazin, i più dotati intellettualmente si concentrano nel ceto alto della popolazione, mentre la classe media produce cervelli interessanti ma con quozienti non particolarmente superiori alla norma.

Il problema principale, tuttavia, è da riscontrare tra gli strati più poveri della popolazione, dove l’intelligenza superiore è merce assai rara. Per non parlare di chi sopravvive con gli aiuti sociali dello Stato: tra questi sfortunati - e tra la loro discendenza - sarebbe addirittura eccezionale trovare quozienti intellettivi nella media.

Ma non è tutto. Nel suo grottesco libro, Sarrazin associa l’intelligenza - e quindi l’appartenenza a un ceto - alla fertilità, in maniera inversamente proporzionale. Un quoziente intellettivo basso si accompagna a una grande fertilità. Conclusione: per risolvere i problemi della società odierna si devono favorire le gravidanze tra i ceti più alti e “intelligenti”. La sua proposta - al limite del ridicolo - è di eliminare le sovvenzioni che lo Stato tedesco offre a tutti i genitori per ogni bimbo nato, per offrire la bella somma di 50 mila euro a neonato alle giovani laureate che concepiscano prima del trentesimo anno di età.

Morale della favola, per combattere la decadenza della società tedesca si deve operare una selezione degli immigrati: a casa turchi, arabi e africani ”stupidi”, siano bene accetti gli emigranti colti. Attenzione: nella lista ci si potrebbero aggiungere anche gli “italiani”, visto che, dopo turchi e slavi, si tratta della terza potenza di emigranti in Germania.

Secondo il quotidiano berlinese Tagesspiegel, tuttavia, il trattato di Thilo Sarrazin non dovrebbe sorprendere più di tanto. Sarrazin ha la fama di provocatore e l’ex ministro socialdemocratico della città stato di Berlino aveva già esternato le sue opinioni prima d’ora in varie interviste personali. Semplici provocazioni o no, stavolta la sua carriera sembra essere arrivata al capolinea: Sarrazin ha superato il limite della democrazia e la politica tedesca non sembra pronta a perdonare.

La Cancelliera Angela Merkel accusa Thilo Sarrazin di dividere pericolosamente la Germania, considerata la grande quantità di immigrati ospitati nel Paese. Le sue parole sono, aggiunge la Merkel, “assolutamente inaccettabili” e mettono in imbarazzo la Bundesbank - in quanto Sarrazin ne è un dirigente - e il Paese tutto. La Merkel si augura che la Banca Federale Tedesca agisca di conseguenza e lo espella.

I socialdemocratici, da parte loro, chiedono a gran voce le dimissioni di Sarrazin dall’SPD o la sua espulsione diretta. Le sue parole sono degne di un estremismo neonazista e lo avvicinano vergognosamente a partiti come l’NPD, il partito di estrema destra tedesco,  dove dovrebbe approdare lasciando l’SPD, il partito cosiddetto “del Popolo”. Sarrazin, tuttavia, si vede coperto dalla “libertà di espressione” e non vede alcun motivo per dimettersi dai suoi incarichi.

Ma la Germania è stata costruita dagli stranieri. Dagli anni ‘60, il governo tedesco ha provveduto a siglare numerosi accordi con tutti i paesi del Mediterraneo, e in modo particolare con la Turchia, per regolare un’importazione di manodopera necessaria, diretta prevalentemente verso le fiorenti regioni industriali dell’area renana e meridionale. Braccia che dovevano occuparsi dei lavori più duri per ricostruire un Paese distrutto e diviso, cui non era di sicuro richiesto il diploma. Sarrazin dovrebbe discutere con questi antichi lavoratori dimenticati le sue tesi. Questi signori non farebbero fatica a trovargli un valido motivo per dimettersi dalla politica e per abbandonare le scienze antropologiche.

di Carlo Musilli

L’assistente del Presidente afgano Hamid Karzai riceve regolarmente un significativo stipendio dalla Cia. Lo rivelano funzionari afgani e americani avvicinati dal New York Times: Mohamed Zia Salhei, capo del Consiglio nazionale della sicurezza, é stato sul libro paga degli spioni americani per diversi anni. Non si è ancora appurato con certezza cosa facesse in cambio di tanta generosità: forse si limitava a passare informazioni, forse ‘metteva una buona parola’ con il Presidente e i suoi funzionari. Forse entrambe le cose.

Nel luglio scorso, Salehi è stato arrestato. Dopo ben sette ore di galera ha telefonato a Karzai, che ha minacciato di limitare i poteri dell’unità anti-corruzione se questa non avesse rilasciato il suo protetto. Salehi è tornato a casa per il tè. Evidentemente, il nostro Mohamed sa parecchie cose sull'amministrazione afgana, abbastanza da spaventare perfino Karzai. E anche se è probabile che la Cia sia già al corrente delle notizie più interessanti, meglio non rischiare. 

Perché lo avevano arrestato? Sembra che la Polizia afgana abbia intercettato una telefonata in cui Salhei chiedeva un’automobile per suo figlio. In cambio del regalino, avrebbe evitato che gli americani investigassero troppo a fondo sulla New Ansari, una compagnia sospettata di portare all’estero soldi cash da destinare a funzionari governativi, signori della droga e ribelli. Non chiedeva neanche tanto, per un favore del genere.

Sull'intera vicenda, i portavoce del Presidente afgano e della Cia hanno rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda. L'unica dichiarazione degna di nota sembra essere quella di un oscuro funzionario americano: “Se decidiamo di non aver nulla a che fare con gente che si è sporcata le mani - ha detto - possiamo tornarcene a casa oggi stesso. Chi fa spionaggio in una zona di guerra non può aspettarsi di trattare con Madre Teresa o Mary Poppins”.

Vediamo meglio chi è Mohamed Salehi, che, in effetti, non gira per Kabul appeso ad un ombrello volante. In origine, Mohamed faceva l’interprete per Abdul Rashid Dostum, un signore della guerra alleato tanto di Karzai quanto della Cia. Può darsi che Salehi abbia lavorato anche come corriere di denaro. Fatto sta che, dopo pochi anni, lo ritroviamo a braccetto non solo di Karzai, così premuroso nei suoi confronti, ma anche dell’ex vice capo dell’intelligence afgana, che qualche mese fa ha accompagnato a Dubai per incontrare i leader talebani.

Mica male come carriera. Eppure Salehi ancora non se l’è cavata. Secondo la legge afgana, gli inquirenti, dal momento dell’arresto, hanno 33 giorni per rinviare a giudizio un imputato. Mohamed è stato arrestato per corruzione e poi rilasciato a fine luglio, quindi manca poco alla scadenza dei termini. Se alla fine i “pm” si decideranno ad accusarlo formalmente, gli atti dovranno essere firmati dal procuratore generale. E a chi deve la sua bella poltrona questo procuratore generale? A Karzai, naturalmente.

Ma Salehi non è poi un uomo così speciale. La Cia è abbastanza prodiga nel distribuire le sue attenzioni. Per fare un esempio, pare che i servizi segreti Usa pagassero anche Ahmed Wali Karzai, il fratellastro del Presidente sospettato di avere una certa influenza sul traffico d’oppio. Ahmed chiaramente sostiene di essere soltanto l’innocuo presidente del Consiglio provinciale di Kandahar.

Ora, gli americani da mesi chiedono a gran voce che Karzai faccia in modo di debellare dal suo governo la piaga della corruzione, arrivando perfino a sospendere, come supremo monito, gli aiuti per il 2011. Dopo di che si mettono a pagare un pezzo grosso sospettato di essere nella top ten dei corrotti.

Qualcosa non quadra, decidetevi. In realtà la corruzione danneggia gli americani, perché priva di ogni credibilità il governo afgano e incrementa la popolarità dei talebani fra la popolazione civile. Allo stesso tempo, però, arrestare tutti i corrotti vorrebbe dire levare di mezzo gli unici alleati nella guerra contro i veri nemici, i talebani, appunto. Ad un anno dal previsto ritiro delle truppe, il dilemma fondamentale non è ancora risolto. Amleto non era nessuno a confronto.

John Kerry, senatore democratico del Massachusetts, sabato scorso è andato a Kabul per chiacchierare con Karzai. Al termine dell’incontro ha dichiarato alla stampa il suo rammarico per i legami fra Salehi e “il Governo americano”. La parola “Cia” non è riuscito a pronunciarla. Kerry ha poi detto di aver fatto pressioni perché Karzai lasci che l’unità anticorruzione indaghi liberamente su Salehi. “Credo di aver ottenuto un impegno da parte sua in questo senso”. Se non lo sai tu, John…

di Michele Paris

Con la propagandata uscita di scena di tutte le truppe di combattimento americane nel mese di agosto, a oltre sette anni dall’inizio della guerra, in Iraq rimangono circa 50 mila soldati che dovrebbero lasciare definitivamente il paese entro la fine del 2011. Il piano di ritiro, già concordato da George W. Bush con il governo di Baghdad nel 2008, non segnerà tuttavia il disimpegno statunitense dall’Iraq. Se un certo numero di militari sarà destinato a rimanere più a lungo, il ritiro delle forze armate sarà in parte bilanciato dall’arrivo di un esercito di appaltatori e guardie di sicurezza private alle dipendenze del Dipartimento di Stato.

Lo spostamento della quarta brigata Stryker in Kuwait ha dato l’occasione al presidente Obama di annunciare trionfalmente l’obiettivo raggiunto e il mantenimento della promessa che aveva fatto durate le presidenziali di porre fine alla guerra voluta dal suo predecessore. Nonostante la necessità di presentare la situazione irachena in termini positivi per motivi elettorali in vista del voto di medio termine tra un paio di mesi, dalla Casa Bianca ci si rende perfettamente conto delle gravi minacce che continuano ad incombere sull’Iraq del post-Saddam Hussein.

Oltre al persistere di una profonda crisi sociale ed umanitaria, negli ultimi mesi il tasso di violenza nel paese occupato ha raggiunto i livelli più alti da oltre due anni a questa parte. Una serie di sanguinosi attentati, che hanno colpito in particolare Baghdad e le principali città sunnite, mettono in discussione i progressi fatti segnare tra il 2007 e il 2008. Il continuo stallo della situazione politica a quasi sei mesi dalle elezioni parlamentari non promette poi nulla di buono. Ciò che permette ai politici e ai media americani di diffondere un messaggio rassicurante circa le condizioni dell’Iraq è piuttosto il numero relativamente contenuto di decessi tra i soldati USA, da qualche tempo per lo più confinati all’interno delle loro basi.

In ogni caso, le truppe che restano tuttora sul territorio iracheno sono in grado di condurre operazioni di combattimento, anche se ufficialmente il loro compito è quello di provvedere alla transizione verso il pieno controllo del paese delle forze locali. Ai vertici del Pentagono, peraltro, sono in pochi a credere in un ritiro completo degli americani dall’Iraq anche dopo la data stabilita dal cosiddetto SOFA (Status of Forces Agreement). Allo stesso tempo, proprio da Baghdad sono già giunti i primi segnali di una volontà di chiedere alle forze occupanti di rimanere nel paese ben oltre il 2011. Secondo il numero uno dell’esercito iracheno, generale Babaker Zerbari, ad esempio, i soldati americani dovrebbero prolungare la loro presenza almeno fino al 2020.

Saranno insomma le “condizioni sul campo” a decidere della durata dell’occupazione dell’Iraq, come stabilito dagli accordi con Washington. Tra le due parti, infatti, è prevista la costruzione di un “rapporto di lunga durata nel campo economico, diplomatico, culturale e della sicurezza”. Gli Stati Uniti, poi, avranno facoltà di impiegare ogni mezzo “diplomatico, economico o militare” contro eventuali minacce “interne o esterne” al governo di Baghdad.

Quel che è certo è che una parte dei compiti legati al mantenimento della sicurezza nel paese e all’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito irachene saranno affidati a “contractors” privati sotto la responsabilità del Dipartimento di Stato USA. Ad una schiera di privati, che si stima toccherà almeno le settemila presenze, toccherà anche, tra l’altro, occuparsi della difesa degli avamposti americani in Iraq, della conduzione dei voli di ricognizione senza pilota (droni) e dell’attivazione di squadre speciali per interventi in situazioni di crisi.

L’impiego massiccio di operatori a libro paga di aziende appaltatrici private rappresenta già un grave problema sia in Iraq che in Afghanistan, dove il presidente Karzai ha appena emanato un ordine per allontanare quasi tutti i contractors operanti nel paese. La situazione che si prospetta per l’Iraq nei prossimi anni rischia così di mettere nelle mani dei privati un numero ancora maggiore di delicate operazioni che possono avere profondi effetti sulla stabilità del paese.

Il Dipartimento di Stato, inoltre, non sembra avere la competenza necessaria per guidare un esercito di queste proporzioni, che si stima potrebbe costare alle finanze americane oltre due miliardi di dollari. “Il Dipartimento di Stato non ha mai operato in maniera indipendente dalle forze armate americane in una realtà così vasta e potenzialmente piena di rischi”, ha dichiarato al New York Times James Dobbins, ex ambasciatore presso l’UE e già inviato speciale in Afghanistan, Bosnia, Haiti e Somalia. “Si tratta di una situazione senza precedenti”, ha aggiunto.

Il presunto disimpegno  promosso da Barack Obama ha ridotto di circa 90 mila unità la presenza delle forze armate americane in Iraq. Ciò non ha ovviamente decretato alcun attenuamento del militarismo a stelle e strisce in Medio Oriente e nel continente asiatico, dal momento che le truppe ritirate dall’Iraq sono state trasferite in Afganistan. Qui si è ormai superata quota 100 mila, in previsione di nuove operazioni che faranno aumentare ancora il numero di vittime civili e militari.

La strategia di Washington non è altro che un’operazione di facciata, diventata indispensabile in seguito alla crescente opposizione interna nei confronti dello sforzo bellico su più fronti. Un impegno militare giustificato dalla lotta al terrorismo islamico ma in realtà dettato dalla necessità di assicurarsi il controllo di un’area cruciale del pianeta per gli interessi geo-strategici americani che continuano ad essere gli stessi anche con un presidente democratico alla Casa Bianca.

di Mario Braconi

Come ogni telenovela che si rispetti, anche in quella che ruota attorno al sito Wikileaks e al suo fondatore Julian Assange, non poteva mancare un coté pruriginoso. Assange, australiano di circa quaranta anni, è un ex studente di Fisica e Matematica all’Università di Melbourne, ed ex-white-hat hacker (cioè, hacker “buono”) riciclatosi nell’ultimo lustro come “apostolo della trasparenza”. E’ il fondatore e responsabile ultimo di quanto viene scritto su Wikileaks, un sito che pubblica informazioni segretate.

Julian si è recentemente trasferito dalla Gran Bretagna in Svezia, a suo dire per poter sfruttare meglio le tutele che il sistema giuridico di quel Paese offre ai cosiddetti whistleblowers (da noi si direbbe, con incongruo neologismo porno-cinefilo, “gole profonde”, o anche “spifferatori”). Peraltro, al fine di poter restare con una certa tranquillità in quel Paese, Assange (un extra-comunitario) ha avuto bisogno dell’”aiutino” di Aftonbladet, un tabloid di sinistra di Stoccolma che, secondo il New York Times, gli avrebbe offerto un posto di columnist al fine di poter provare davanti alla occhiuta burocrazia svedese, l’esistenza di un regolare impiego retribuito nel Paese.

Sfortunatamente la nuova patria di Julian non non si è rivelata molto generosa con lui: la notte dello scorso venerdì, infatti, un giudice svedese gli ha notificato l’equivalente di un avviso di garanzia per due presunti stupri commessi ai danni di un’attivista trentenne e di un’artista poco più che ventenne. In un’intervista all’Aftonbladet, (una fonte del tutto neutrale nei suoi confronti, visto che è anche il suo attuale datore di lavoro) Assange ribadisce che, in Svezia ed altrove, egli si è limitato ad avere rapporti sessuali solo in circostanze in cui fosse indiscutibile il pieno consenso di entrambi (?) gli interessati. E spinge l’acceleratore, già premuto da blogger e simpatizzanti vari, di un possibile “sporco trucco” ordito ai suoi danni dal Pentagono (che indubitabilmente non lo deve amare molto, dopo il discutibile exploit della pubblicazione a fine luglio su Wikileaks di 77.000 documenti “top-secret” redatti dall’esercito americano sulla guerra in Afghanistan).

Certo, la teoria del complotto paga sempre, specialmente se la (presunta) vittima si è autoattrobuita la patente di Giusto tra i Giusti, ma questa volta sembra che la realtà sia un po’ diversa: non solo il giudice incaricato del caso, la signora Eva Finne, sentita dal New York Times ha escluso alcuna interferenza “esterna” nel caso, ma una persona che il NYT descrive come caro amico svedese di Assange, si è detta “più che sicura” che alla radice della denuncia delle due donne vi siano sopratutto questioni personali tra i tre interessanti - altro che complotto internazionale, qui si tratterebbe, di una storia di letto e gelosia finita nel peggiore dei modi. Fortunatamente per Assange, l’accusa di stupro è stata ritirata quasi immediatamente, anche se, per la cronaca, non sono ancora cadute le accuse per molestie sessuali - un reato che in Svezia può comunque comportare anche un anno di carcere.

Bisogna riconoscere che, senza Wikileaks, non sarebbe stato possibile conoscere le agghiaccianti immagini di un attacco aereo effettuato nel luglio 2007 da un elicottero USA in un quartiere di Baghdad, costato la vita a 12 persone (10 civili inermi e due giornalisti della Reuters sui quali si sono abbattuti migliaia di colpi senza alcuna ragione: il video dimostra chiaramente come il cosiddetto “ingaggio” con i presunti “insurgent” è stato poco meno di eccidio a sangue freddo). Furono infatti le persone di Assange a pubblicare lo scioccante documento sul sito www.collateral.murder.com, che a tutt’oggi costituisce il più grande e prezioso successo del sito.

Alle misteriose entità che si nascondono dietro al collettivo Wikileaks si devono anche altri scoop di grande importanza sociale e politica, come la pubblicazione dei manuali operativi delle truppe americane nel campo di detenzione di Guantanamo, un corposo dossier sulla corruzione del governo kenyota, un ampio dossier sottratto alla setta Scientology, e le prove del coinvolgimento della banca svizzera Julius Baer in attività di riciclaggio di denaro sporco.

Assieme ad altri materiali di relativa utilità, quali la lista delle installazioni militari americane in Iraq (utile se si voglia scoprire il numero di pianoforti a coda, di PlayStation e di BMW 735 in dotazione alle forze di occupazioni statunitensi), alcune e-mail personali di Sarah Palin e le prove dell’evasione fiscale dell’attore afroamericano di pellicole d’azione, Wesley Snipes.

Tuttavia, vi sono almeno altrettante ragioni per emettere un giudizio severo sugli standard professionali dell’organizzazione dell’ex-hacker australiano. Ad esempio, dopo la pubblicazione del dossier sull’uccisione di 500 membri dell’opposizione in Kenya a fine 2008, due avvocati legati a Wikileaks sono stati freddati nel centro di Nairobi in pieno giorno: segno che le garanzie di non tracciabilità delle fonti, tanto sbandierate dalla organizzazione di Assange, non sempre funzionano come dovrebbero.

Ancor prima, Wikileaks, in un accesso di trasparenza, ha ritenuto di pubblicare la lista nera dei siti internet bloccati della polizia australiana: molti di questi ultimi, si è scoperto, erano dedicati alla pedopornografia. Al di là dell’assurdità dell’accusa con cui è stato incastrato il ventiduenne tedesco, titolare formale del dominio Wikileaks (diffusione di pornografia infantile...), conseguenza di un grottesco sillogismo giuridico, resta il fatto che, nel raggiungimento di un difficile equilibrio tra trasparenza e deontologia, qualcosa nei processi interni della creatura di Assange non ha funzionato come avrebbe dovuto...

La pubblicazione dei 76.000 documenti top-secret sulla guerra in Afghanistan, poi, è stata un vero autogol: innanzitutto, è stata venduta ai media come una operazione congiunta tra Wikileaks e i giornali The Guardian, The New York Times e Der Spiegel, cosa che non è vera e che ha irritato i giornalisti delle tre testate: a loro è spettato infatti un duro lavoro di analisi e di editing finalizzato a rimuovere dai documenti i nomi dei civili citati nelle fonti come simpatizzanti delle forze di occupazione, cosa di cui Assange non si è minimamente preoccupato.

In effetti, secondo un report del Wall Street Journal, diverse organizzazioni umanitarie (Amnesty International, Campaign for Innocent Victims in Conflict, Open Society Institute, Afghanistan Independent Human Rights Commission e l’ufficio di Kabul dell’International Crisis Group) avrebbero firmato un documento di protesta destinato a Wikileaks che contiene il seguente invito: “Preghiamo caldamente i vostri dipendenti di analizzare con attenzione tutto il materiale messo online, al fine di rimuovere tutti i riferimenti ad informazioni che possano condurre all’identificazione di persone”.

Sempre secondo la ricostruzione dei fatti data dal WSJ, Assange ha replicato candidamente chiedendo alle organizzazioni che hanno protestato di dargli una mano a purgare i documenti che lui ha messo online.. Questa risposta sarebbe forse sufficiente per calare una pietra tombale sulla professionalità di Assange. ma non è tutto: quando Amnesty gli ha chiesto di organizzare un colloquio telefonico per discutere della questione, pare che Assange abbia risposto sprezzante: “Ho altro da fare che perdere tempo con gente che preferisce non fare altro che pararsi il culo”.

In definitiva, sembra appropriato il commento di Steven Aftergood, firma del blog della Federation of American Scientists' Secrecy News: “Dal mio punto di vista, la trasparenza è solo uno strumento per ottenere qualcos’altro, ovvero una vita politica più robusta, istituzioni responsabili e censurabili, occasioni di impegno sociale e politico. Per loro (le persone di Wikileaks) la trasparenza e l’esposizione di informazioni sembrano essere il fine ultimo”.  Amen.

di Carlo Musilli

Ti daremo 300 euro per andare via da qui, non sei un bello spettacolo. Questo elegante invito, finora, è stato accettato da 371 persone. Novantatré sono partite il 19 agosto, altre 130 il giorno successivo. Le rimanenti si leveranno di mezzo il 26. Entro fine settembre arriveremo a quota 700. Dov’è che vanno tutte queste persone? Bucarest, principalmente. Sofia, in alternativa. Continuiamo a chiamarle persone, ma per qualcuno la definizione suonerà imprecisa. Sono rom.

E’ probabile che il presidente francese Nicolas Sarkozy la notte fatichi a dormire. Nei sondaggi è ai minimi storici. Le elezioni presidenziali del 2012 si fanno sempre più vicine e lui deve trovare un modo per risollevarsi. Le scarpe col tacco non bastano, Sarkò si sente ancora addosso la patina appiccicosa lasciata dal caso Bettencourt. Quello che ci vuole è un’arma di distrazione di massa. Non una qualsiasi, ma la più antica ed efficace. Nicolas si gioca la carta “sicurezza e disciplina”, trattando i francesi come bambini che hanno  ancora paura del buio.

A fine luglio l’obiettivo è chiaro, bisogna prendere provvedimenti contro “il comportamento di taluni appartenenti alle comunità rom e nomadi”. Pare che il 79% dei francesi appoggi la crociata. Brice Hortefeux, il ministro degli Interni, riceve l’incarico di smantellare nel più breve tempo possibile 300 campi ritenuti illegali. Agli ordini, mon président: in tre settimane ruspe governative e poliziotti mandano all’aria più di 50 campi rom.

A questo punto possono iniziare i “rimpatri volontari”, un teatrino che preoccupa l’Unione Europea. La Francia “deve rispettare le regole sulla libertà di circolazione e di residenza dei cittadini europei - è il monito di Matthew Newman, portavoce del commissario europeo alla Giustizia - vigileremo molto attivamente per verificare che tutte le norme siano rispettate”.  Gli risponde Bernard Valero, portavoce del ministro degli Esteri francese, sottolineando che si tratta di “misure pienamente conformi alle regole europee”, che prevedono specifiche “restrizioni al diritto di libera circolazione”. Incredibilmente, ha ragione lui.

Quando tre anni fa Romania e Bulgaria entrarono nell’Unione Europea, la Francia, avvalendosi di una deroga concessa da Bruxelles fino al 2014, mantenne alcuni vincoli all’accoglienza dei cittadini provenienti dai due Paesi. Bulgari e romeni possono tranquillamente entrare in Francia e restarci per tre mesi senza dover rendere  conto a nessuno. Ma, scaduto il periodo, per restare devono essere iscritti a una cassa di assicurazione malattie e dimostrare di avere un lavoro o di essere studenti. Chi intendesse assumerli come dipendenti deve poi  ottenere una “autorizzazione di lavoro”, che viene rilasciata per soli 150 tipi di impiego. Quelli che i francesi gradiscono meno. Se disgraziatamente alla fine del trimestre non soddisfano questi requisiti, bulgari e romeni devono tornare a casa. Con le buone o con le cattive. Se evitano di fare storie, hanno diritto all’ “aiuto al ritorno umanitario” (300 euro per gli adulti, 100 per i minori), ma devono  lasciarsi prendere le impronte digitali.

Aldilà dal ritorno elettorale, tutta questa iniziativa volta alla purificazione del suolo francese è completamente inutile. La maggior parte dei rom incasserà graziosamente l’assegno, si lascerà riportare in patria con un aereo pagato dai contribuenti francesi, e tornerà in Francia via terra. Per questo Hortefeux da giorni chiede la collaborazione della Commissione Europea per organizzare un “programma d’integrazione” dei rom espulsi nel loro paesi d’origine. La questione non è sfuggita al quotidiano bulgaro Sega, che fa notare un paradosso: i governi di Bucarest e Sofia potrebbero trattenere con la forza i cittadini rimpatriati solo se scegliessero di tornare al regime comunista. Bei tempi, quando c’era il visto d’uscita.

In Romania forse sono meno sarcastici, ma piuttosto espliciti: “Esprimo la mia inquietudine sui rischi di una deriva populista - afferma Teodor Baconschi, ministro degli Esteri romeno -  e sul generarsi di reazioni xenofobe, con la crisi economica che fa da sfondo. Se continuiamo a criminalizzare a titolo collettivo dei gruppi etnici, non andiamo da nessuna parte. Resuscitiamo solo spiacevoli ricordi storici”. Da notare che Baconschi, in passato, è stato ambasciatore di Bucarest a Parigi e che a sua volta, qualche mese fa, è stato accusato di razzismo per improvvide affermazioni sulla delinquenza fra i rom. Il destino di Teodor ha il senso dell’umorismo.

Intanto il suo presidente, Traian Basescu, ha un bel da fare. In nessun caso vorrebbe rovinare i rapporti fra Romania e Francia, ma nemmeno si lascia sfuggire l’occasione per ripetere ad una platea mai così ampia una proposta che continua a fare dal 2008: “Quello che succede a Parigi dimostra la necessità di un programma europeo per l’integrazione dei rom”.

Un ultimo dato. Il 95% dei nomadi residenti in Francia sono francesi. Con loro come la mettiamo? Dove li possiamo spedire? Tecnicamente, le parole “nomade” e “rom” non sono affatto sinonimi, ma pare che nemmeno nei discorsi ufficiali si faccia caso a questa sottigliezza.  In realtà, non fa tanta differenza. Tieniti stretta la borsa se uno di loro ti cammina accanto in strada. Metti una mano sulla tasca dove tieni il portafogli. Noi siamo quelli che hanno inventato i diritti civili. Loro sono rom.


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