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di Michele Paris
A partire dagli attentati dell’11 settembre, il governo americano ha dato il via ad un controverso programma di “esecuzioni extragiudiziali” che permette alle proprie forze speciali di colpire qualsiasi individuo sospettato di terrorismo in qualunque parte del globo senza passare attraverso i normali canali legali. Questa pratica è stata ora per la prima volta messa in discussione da una denuncia presentata da due associazioni newyorchesi a difesa dei diritti civili in rappresentanza del padre di Anwar Al-Awlaki, il primo cittadino statunitense finito sulla lista dei condannati a morte della CIA.
Ex Imam nato nel Nuovo Messico durante un soggiorno di studio negli USA del padre yemenita, Al-Awlaki si è trasferito da tempo nel paese di origine, dal quale - secondo le autorità americane - dirige una campagna di reclutamento per Al-Qaeda e contribuisce a diffondere un messaggio integralista e accesamente anti-occidentale. Nascosto da qualche parte in Yemen, Al-Awlaki rischia in qualsiasi momento di finire vittima di un’incursione aerea o di un’operazione anti-terrorismo condotta da soldati o agenti segreti che posseggono il suo stesso passaporto statunitense.
Già nel dicembre dello scorso anno Al-Awlaki era stato il bersaglio di un bombardamento in territorio yemenita, quando riuscì a sopravvivere a malapena a 17 missili cruise dotati di “cluster bombs” lanciati sulla località in cui soggiornava. Mancato l’obiettivo, l’attacco americano autorizzato dal governo dello Yemen causò la morte di 41 civili, tra cui 21 bambini e 14 donne.
Per bloccare l’esecuzione del figlio, Nasser Al-Awlaki si è rivolto al Center for Constitutional Rights (CCR) e all’American Civil Liberties Union (ACLU), le quali prima di poter presentare la propria denuncia di fronte ad un tribunale federale di Washington sono state costrette ad ottenere una speciale licenza dal governo americano. Qualche mese fa, infatti, il Dipartimento del Tesoro aveva designato Anwar Al-Awlaki come un “terrorista globale”, la cui difesa in aula sarebbe automaticamente diventata un crimine federale.
La causa appena avviata - “Al-Awlaki contro Obama” - si basa sul fatto che le cosiddette “esecuzioni mirate”, al di fuori di un conflitto armato vero e proprio, sono proibite sia dalla Costituzione americana che dal diritto internazionale, a meno che esse non rappresentino una soluzione estrema resa necessaria per fronteggiare una “concreta, specifica e imminente minaccia di morte o di serio danno fisico”. Il programma del governo americano, inaugurato dall’amministrazione Bush e ribadito da Obama, aggiunge invece dei nomi ad una sorta di lista nera dopo una serie di procedure condotte in segreto, sulla quale i condannati a morte rimangono anche per parecchio tempo, escludendo perciò la circostanza della “minaccia imminente”.
Secondo CCR e ACLU la corte federale della capitale americana dovrebbe deliberare che il programma delle esecuzioni mirate viola il Quarto e il Quinto Emendamento della Costituzione americana, in quanto non permette la protezione dall’abuso dell’autorità governativa né garantisce un giusto processo. Inoltre, ogni cittadino americano deve avere il diritto di conoscere i motivi per cui il proprio governo agisce nei suoi confronti, in particolar modo se si tratta di una condanna a morte. L’amministrazione Obama, al contrario, non ha reso note le procedure attraverso le quali Al-Awlaki è finito tra i candidati ad essere assassinati senza alcun procedimento legale.
Perciò, in una causa separata, i legali di Al-Awlaki hanno chiesto alla corte federale di Washington di emettere un’ingiunzione nei confronti del governo americano per bloccare il programma di uccisioni extra-giudiziali finché il processo in questione non sarà giunto al termine. “Gli Stati Uniti non possono semplicemente eseguire condanne a morte di propri cittadini in qualsiasi parte del pianeta basandosi elusivamente sulla propria autorità”, ha spiegato Vince Warren del Center for Constitutional Rights. “La legge proibisce al governo di uccidere chiunque senza un processo o senza aver formulato un’accusa se non in presenza di una grave minaccia”.
“Un programma che autorizza l’assassinio di cittadini americani senza passare attraverso le vie legali è incostituzionale, illegale e anti-americano”, ha aggiunto Anthony Romero, direttore esecutivo dell’American Civil Liberties Union. “Gli Stati Uniti non emettono condanne sulla base di giudizi segreti, a maggior ragione se si tratta di condanne a morte”.
Nonostante la palese violazione della legalità, un percorso piuttosto complicato attende il processo relativo alla sorte di Anwar Al-Awlaki. Prima ancora di decidere nel merito della questione delle esecuzioni extragiudiziali, la corte federale incaricata del caso potrebbe squalificare il padre del leader spirituale islamico e rendere quindi nullo il procedimento. Questa conclusione è, infatti, già toccata nel recente passato a molte denunce contro i metodi dell’antiterrorismo a stelle e strisce.
Nel caso invece la causa dovesse superare questo primo scoglio ad essere messa in discussione potrebbe essere finalmente la stessa condotta dell’esecutivo americano nella lotta al terrorismo su scala planetaria nel post-11 settembre. Il nodo centrale della questione riposa nella legittimità della pretesa statunitense di essere impegnata in un conflitto armato con i militanti di Al-Qaeda. Tale definizione comporta un conseguente rilassamento delle regole che disciplinano le attività dei militari e delle forze speciali, fino a consentire l’uccisione di presunti terroristi al di fuori di ogni vincolo legale.
Su questa pretesa sono in molti ad aver espresso forti perplessità. Da ultimo, lo scorso mese di agosto, il relatore speciale dell’ONU per le esecuzioni extragiudiziali, Philip Alston, in un documento ufficiale ha dichiarato che “la pretesa degli USA di concedersi la libertà di eseguire assassini mirati contro individui in qualsiasi angolo del globo senza dover rispondere a nessuno arreca un grave danno al diritto internazionale che intende proteggere il diritto alla vita”.
Sempre secondo Alston, il governo di Washington, anziché stabilire dei criteri legali universalmente riconosciuti sui quali basare la propria condotta in questo ambito, “ha fatto appello ad una teoria tutta nuova fondata su una sorta di ‘legge dell’11 settembre’ che consente l’uso della forza in un paese straniero nel quadro del proprio diritto di auto-difesa nel conflitto armato con Al-Qaeda, i Talebani e altre ‘forze associate’ non meglio definite”. Se questo comportamento dovesse essere fatto proprio da altri paesi, il risultato sarebbe il caos più totale.
Ciò che il governo americano ha stabilito in questi anni, dunque, non è altro che il diritto di portare a termine assassini sommari in paesi che nulla hanno fatto per colpire i cittadini statunitensi o i loro interessi. E frequentemente l’unica colpa degli obiettivi accusati di aver compiuto atti di terrorismo è solo quella di opporsi legittimamente ad un’occupazione militare che continua ad imporre un prezzo pesantissimo alla popolazione civile.
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di Carlo Musilli
Stavano in fila ordinati, sotto il sole, con un bigliettino numerato in mano. Non aspettavano di entrare allo stadio, ma di parlare con un cassiere. Migliaia di risparmiatori terrorizzati hanno affollato la settimana scorsa gli sportelli della Kabul Bank per avere indietro i loro soldi e metterli al sicuro sotto al materasso. Oggi, la loro ansia rischia di far fallire la più grande Banca dell’Afghanistan.
Un Istituto interamente privato che, per conto del governo, paga gli stipendi dei dipendenti pubblici, dell’esercito e degli insegnanti. Un Istituto che l’anno scorso ha finanziato la campagna elettorale per la rielezione (non proprio trasparente) di Karzai e che ha fra i suoi maggiori azionisti ha il fratello del presidente e il fratello del vicepresidente del Paese.
Il panico è iniziato lunedì scorso, quando Hamid Karzai ha rimosso in un colpo solo presidente e direttore generale della Kabul Bank, che adesso è guidata da un funzionario della Banca Centrale afgana. Probabilmente il provvedimento è stato sollecitato dal generale Petraeus, comandante delle truppe Usa in Afghanistan, che ha fra le sue priorità quella di ridurre il livello di corruzione nel governo. Sembra, infatti, che la Kabul Bank fosse un po’ troppo generosa nei confronti di certi suoi azionisti di punta, che casualmente erano anche alti funzionari governativi. Nelle loro tasche sono finiti prestiti irregolari per centinaia di milioni di dollari e lussuose ville con piscina sulle spiagge di Dubai.
Basta un dato a capire quanto fosse cristallino questo genere di operazioni: il 51% delle azioni della banca è stato comprato con soldi prestati dalla banca stessa. È illegale, naturalmente. Il sistema, se da una parte ha permesso a Mahmoud Karzai, fratello di Hamid, di acquistare il 7% dell’Istituto, dall’altra ha fatto nascere pericolosissimi attriti fra gli uomini che hanno in mano il destino politico ed economico del Paese. Una minaccia troppo grande per la stabilità dell’Afghanistan.
Era vitale che il governo di Karzai mantenesse segreto tutto questo marciume. Purtroppo non ce l’ha fatta. Risultato: gli afgani, nel timore (infondato) che la Kabul Bank potesse fallire, sono corsi in massa a ritirare i propri soldi, svuotando le casse di ogni filiale. Un meccanismo classico. Mercoledì scorso sono stati ritirati 85 milioni dollari, giovedì 109, sabato altri 69. La liquidità della Banca è più che dimezzata.
E ora, che si fa? Dagli Stati Uniti si sono affrettati a mandare una squadra del Dipartimento del Tesoro per dare “assistenza tecnica” agli afgani. Quanto a salvataggi di banche, ormai, gli americani sono espertissimi. Ma hanno sottolineato che per la Kabul Bank non verseranno nemmeno un dollaro dei loro contribuenti. A Karzai non resta che ipotizzare di far acquistare allo Stato parte dell’Istituto, per non essere costretto, in futuro, a riempire di soldi pubblici una Banca privata.
Secondo alcuni economisti, se la crisi della Kabul Bank continuasse, potrebbe avere ripercussioni devastanti su tutta l’economia afgana. Altri, invece, sostengono che gran parte del sistema non subirebbe alcun danno. In Afghanistan, infatti, le banche sono un’invenzione relativamente recente. La maggioranza dell’economia è basata ancora sul sistema delle “hawala”, transazioni invisibili basate sul prestito d’onore, particolarmente gradite a trafficanti e terroristi.
L’unica cosa certa è che la crisi di oggi scredita il lavoro degli americani, che negli ultimi nove anni hanno cercato di costruire in Afghanistan un sistema finanziario da ventunesimo secolo. Con risultati non brillantissimi, evidentemente. Inoltre, gli Stati Uniti continuano a ripetere di voler ritirare le truppe l’anno prossimo, ma ogni giorno incassano segnali poco incoraggianti sulla fiducia che Karzai ispira ai suoi presunti elettori. Quando il Presidente ha cercato di rassicurare i suoi connazionali ripetendo che “il governo non lascerà che la Kabul Bank fallisca”, nessuno gli ha creduto. Chiaramente Karzai se l’è presa con i media occidentali. Sono stati loro a ingigantire il problema, a diffondere paura.
Nel frattempo, sul campo di battaglia, i talebani sono dannatamente forti. Il numero dei soldati americani uccisi nel 2010 è il più alto mai registrato dall’inizio della guerra. E il prossimo 18 settembre ci sono le elezioni parlamentari. Troppe cose a cui pensare per Karzai, che rilancia un disperato tentativo di pacificazione con l’ “Higher Peace Council”, un “organo di negoziazione” che accoglierà vari rappresentanti della società afgana. Non avendo accettato finora nessuna forma di dialogo, tuttavia, sembra davvero difficile che i Talebani decidano di iniziare le trattative di pace proprio adesso, in un momento a loro così favorevole.
Ecco perché ogni dubbio sulla salvezza della Kabul Bank va spazzato via il più presto possibile. Ecco perché bisogna minimizzare il problema, seguire gli americani e cercare di convincere gli afgani che il Paese ha ancora un futuro. È d’accordo anche Mahmoud Karzai: “Mio fratello ha fatto davvero bene a fare quello che ha fatto, ora la Kabul Bank dovrà giocare secondo le regole, investendo in Afghanistan, non all’estero”. Lo ha dichiarato dalla sua villa con piscina a Dubai.
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di Michele Paris
Da qualche mese a questa parte gli Stati Uniti stanno mostrando una nuova intraprendenza nei confronti dei paesi del sud-est asiatico. Il rinnovato interesse di Washington per questa area del globo di particolare importanza strategica si è manifestato attraverso una serie di annunciate partnership militari e di accordi di fornitura che hanno suscitato accese proteste a Pechino, da dove si considera l’intera area come propria tradizionale sfera di influenza.
Quasi a sancire ufficialmente il nuovo corso statunitense nella porzione più remota del continente asiatico, durante un meeting in Vietnam dei paesi appartenenti all’ASEAN (Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale), il segretario di Stato Hillary Rodham Clinton lo scorso mese di luglio aveva dichiarato che il suo paese intendeva appoggiare una soluzione multilaterale delle questioni legate alle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese meridionale.
Con questa affermazione il numero uno della diplomazia americana ha lanciato una pericolosa sfida alle ambizioni della Cina, interessata al contrario a risolvere le dispute territoriali tramite accordi bilaterali senza ingerenze di paesi terzi, mettendo bene in chiaro che gli USA considerano proprio “interesse nazionale la libertà di navigazione e il libero accesso alle rotte marittime asiatiche”. Una presa di posizione quella di Hillary giunta per di più a poca distanza dall’annuncio di Barack Obama di voler condurre esercitazioni navali con la Corea del Sud al largo della penisola coreana, nonostante la ferma opposizione di Pechino.
Nel Mar Cinese meridionale la Cina è da tempo coinvolta in una controversia circa la sovranità sugli arcipelaghi di Spratly e Paracel con Vietnam, Brunei, Malesia e Filippine. Oltre a permettere il controllo di una regione nevralgica situata tra l’Oceano Indiano e quello Pacifico, queste isole sono situate in un’area potenzialmente ricca di risorse petrolifere. Obiettivo primario dell’amministrazione Obama è così quello di seminare divisioni all’interno dell’ASEAN, dove sono in molti a nutrire sospetti nei confronti di Pechino, ostacolando il tentativo cinese di stabilire migliori rapporti con i paesi vicini.
Malgrado qualche concessione e gli sforzi messi in atto negli ultimi mesi dagli Stati Uniti per convincere la Cina a sostenere la campagna intimidatoria nei confronti dell’Iran, Washington non sembra insomma mostrare particolare sensibilità per gli interessi strategici cinesi in Asia. I paesi del sud-est asiatico si trovano così stretti tra una crescente dipendenza economica da Pechino e le lusinghe di accordi strategici di lungo termine con gli USA.
Emblematica a questo proposito è la relazione tra gli Stati Uniti e il Vietnam, dove tra l’altro sono sempre più massicci gli investimenti delle grandi aziende americane. A quindici anni dal ristabilimento dei rapporti tra i due paesi, nel mese di agosto si sono svolte esercitazioni militari a bordo della nave da guerra John McCain attraccata nel porto di Danang. Pochi giorni più tardi ad Hanoi si sono poi incontrati l’assistente del Segretario alla Difesa Robert Scher e il generale vietnamita Nguyen Chi Vinh con all’ordine del giorno gli scambi militari e possibili future collaborazioni tra le rispettive forze armate.
Simili approcci, accompagnati da elargizioni di finanziamenti e promesse di forniture militari, si stanno costruendo ugualmente con Indonesia e Cambogia. Il riavvicinamento a Jakarta ha provocato molte polemiche poiché comprende il ripristino dei rapporti con le unità speciali indonesiane del Kopassus, accusate di numerose violazioni dei diritti umani negli ultimi decenni. Più di una nube si addensa poi anche sul passato dell’esercito cambogiano, protagonista di programmi di addestramento diretti dagli americani e beneficiario di svariati milioni di dollari da qualche anno a questa parte.
In risposta all’aggressività americana, Pechino da parte sua ha incrementato la propria presenza nel Mar Cinese meridionale, ponendo le basi per un possibile conflitto con le forze statunitensi, come ha dimostrato uno scontro avvenuto lo scorso mese di marzo tra un vascello cinese e una nave spia americana. L’aumentato militarismo cinese in quest’area è stato polemicamente messo in risalto anche da un recente rapporto del Pentagono, nel quale si metteva contemporaneamente in guardia dai crescenti investimenti in nuovi armamenti.
La prossima tappa della promozione degli interessi strategici USA in questa regione sarà segnata dalla presenza del Segretario alla Difesa Robert Gates all’incontro che si terrà ad Hanoi nel mese di ottobre tra i ministri della difesa dei paesi ASEAN. L’appuntamento fornirà con ogni probabilità l’occasione per discutere nuovamente della questione del Mar Cinese meridionale.
Quest’ultimo punto sta dunque particolarmente a cuore all’amministrazione Obama, determinata ad espandere la presenza della propria flotta per difendere il controllo sulle linee commerciali che passano attraverso questa parte del globo. Per comprendere l’importanza di questi percorsi marittimi basti ricordare che dal Mar Cinese meridionale passa circa il 60 per cento delle merci che costituiscono l’intero commercio estero di Pechino. Allo stesso modo, il 60 per cento delle navi che attraversano il vicino stretto di Malacca battono bandiera cinese, gran parte delle quali trasportano il greggio proveniente dal Medio Oriente e dall’Africa.
Se su questo fronte il conflitto latente tra USA e Cina si è finora mantenuto sul piano diplomatico e della competizione economica, l’escalation militare in atto rischia però di far sfociare il confronto in pericolosi scontri armati nel prossimo futuro. Ostacolando apertamente le ambizioni di Pechino in un’area cruciale per la propria sicurezza, Washington ha così aggiunto un nuovo grave motivo di scontro alla inevitabile e crescente rivalità tra le due superpotenze sullo scacchiere internazionale.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Abbas, Clinton e Netanyahu sorridono per le telecamere: si riparte con la farsa dei negoziati di pace israelo-palestinesi. Sembrava l'altro ieri quando Abbas, Ehud Olmert e Condoleezza Rice si stringevano le mani soddisfatti ad Annapolis, mentre George W. Bush benediceva la portata storica dell'accordo raggiunto: talmente importante che nessuno dei presenti giovedì l'ha nemmeno nominato. L'unico effetto dell'incontro di oggi è stato l'immediato innesco di un nuovo ciclo di violenza in Palestina, con Hamas da una parte e l'IDF e i coloni dall'altra.
Abbas e Netanyahu si sono incontrati per la prima volta: un autocrate palestinese, ormai delegittimato tra la popolazione, che continua a rinviare le elezioni e controlla soltanto metà dei Territori Occupati, ma gode dell'appoggio della Lega Araba; un premier israeliano a capo del governo di destra più estremista nella storia dello Stato ebraico, la cui coalizione è in maggioranza appiattita sulle posizioni dei coloni ebrei.
Il risultato del meeting segue la prassi dei falliti negoziati di Annapolis. Abbas e Netanyahu si sono accordati soltanto sulla data per il prossimo meeting, da tenersi fra due settimane a Sharm el-Sheikh, sul Mar Rosso, alla presenza di Hillary Clinton, in cui verranno fissate le date dei meeting successivi, da tenersi in forma riservata ogni due settimane. Il format ricopia per filo e per segno i meeting riservati tra Abbas e Olmert, che precedettero il (non) accordo di Annapolis.
Come volevasi dimostrare, nessuno ha parlato di contenuti. Stupefacenti i due commenti del Segretario di Stato Clinton, secondo la quale “si può raggiungere un accordo entro un anno”, ma precisando che “l'America non può e non vuole imporre alcuna soluzione.” Come dire, grazie per le foto e adesso arrangiatevi. È ovvio, infatti, che, senza la pesante pressione degli Stati Uniti, i cui finanziamenti massicci mantengono al potere Abbas da una parte e l'esercito israeliano dall'altra, non è possibile nessun tipo di accordo.
Che si tratti dell'ennesimo negoziato-farsa è sotto gli occhi di tutti. Innanzitutto, nel suo discorso di apertura Netanyahu si è rivolto direttamente ad Abbas e gli ha spiegato che “così come voi vi aspettate che noi riconosciamo lo Stato Palestinese come nazione di tutto il popolo palestinese, così noi ci aspettiamo che voi riconosciate Israele come la nazione del popolo ebraico.” Condizione che nessun palestinese (con la possibile eccezione di Abbas) si sognerebbe mai di accettare, se non altro per via del milione e mezzo di palestinesi che sono cittadini israeliani. Per non parlare della questione dei profughi.
La condizione fondamentale da parte palestinese per l'avvio di negoziati è il blocco dell'espansione delle colonie ebraiche in West Bank, come ha ricordato Abbas durante la conferenza stampa. Anche se ha poi ribadito che i negoziati saranno “senza precondizioni,” nell'ennesimo walzer di smentite.
La questione degli insediamenti pare al momento del tutto irrisolvibile. Da una parte, Netanyahu ha ufficialmente congelato l'espansione delle colonie fino al 26 dicembre. Il blocco però non ha minimamente infastidito i coloni, che hanno continuato senza sosta a costruire abusivamente. Ad esempio, l'avamposto di Migron, smantellato dall'esercito israeliano, è stato prontamente ripristinato. Ma gli esempi sono innumerevoli e ben documentati dal lavoro delle organizzazioni pacifiste israeliane.
Anche prendendo per vera la storia del blocco degli insediamenti, al suo scadere in tre settimane la costruzione riprenderà a gonfie vele, come ha confermato oggi il vicepremier Silvan Shalom, secondo il quale un'estensione del blocco porterebbe inevitabilmente alla caduta del governo. La maggioranza dei partiti che sostengono Netanyahu infatti aderiscono interamente al progetto di colonizzazione della West Bank e si fanno portavoce delle istanze dei coloni.
Poche ore dopo la conferenza stampa a Washington, DC, il Consiglio dei Coloni ebrei in West Bank ha annunciato la fine del blocco degli insediamenti e la ripresa immediata della costruzione di nuove case in ottanta insediamenti illegali. La prova di forza tra coloni e governo israeliano è soltanto apparente. In realtà, Netanyahu non si è mai impegnato a far rispettare il blocco e dunque i coloni hanno sempre avuto mano libera.
L'incontro tra Abbas e Netanyahu ha purtroppo avuto un risultato netto: la ripresa delle violenze nei Territori Occupati. Hamas ha giurato di sabotare a tutti i costi i negoziati lanciando una campagna di attacchi contro i coloni israeliani e minacciando la ripresa di attacchi sul suolo d'Israele. Il portavoce di Hamas Zuhri ha infatti ribadito che “Abbas non ha il diritto di parlare per i Palestinesi, né quello di rappresentarli, e dunque nessun accordo sarà vincolante.”
Questa settimana, Hamas ha rivendicato l'uccisione di due uomini e due donne israeliani, di cui una incinta, nei pressi di Hebron. L'ala militare del gruppo islamico ha annunciato che “questo attacco è parte di una serie di attacchi, alcuni sono già stati eseguiti, altri seguiranno.” Contemporaneamente alla conclusione dell'incontro a Washington, l'esercito israeliano è entrato a Gaza con carri armati e bulldozer per demolire delle case a Beit Hanoun, mentre scontri a fuoco nella zona sono proseguiti per tutto il giorno.
I colloqui sono dunque serviti a tutte e tre le parti in causa. Obama, in un momento di estrema difficoltà in vista delle elezioni di novembre, può vantare la riapertura dei negoziati come prova del suo successo in politica estera, dopo aver ottenuto il Premio Nobel per la Pace sulla fiducia. Il Presidente palestinese Abbas, come la testa di Nixon sotto formalina in Futurama, è ormai tenuto in vita artificialmente al solo scopo di rendere possibili questi incontri fotogenici.
Ma il vero vincitore è Benjamin Netanyahu, che può vestire ora i panni della colomba, mentre dietro la schiena continua la costruzione del Muro, l'espulsione di palestinesi da Gerusalemme Est e la costruzione indisturbata di nuove colonie in West Bank. Ma tutto a telecamere spente.
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di Eugenio Roscini Vitali
La settimana scorsa il quotidiano kuwaitiano Al Rai ha pubblicato un reportage nel quale viene annunciata un’imminente operazione aerea israeliana in Siria: oltre ai depositi di armi utilizzati da Hezbollah, nel mirino dello Stato ebraico ci sarebbero le fabbriche di razzi a media e lunga gittata che minacciano gran parte d’Israele. La fonte del report, che Al Rai indica come vicina agli ambienti occidentali, precisa che negli ultimi mesi l’aviazione israeliana avrebbe effettuato un alto numero di missioni intelligence sia in Siria che nel Libano meridionale e Tzahal avrebbe già rinforzato la sua presenza nel Golan e nell’area del monte Dov, pochi chilometri a sud delle fattorie di Sheba’a, la zona agricola che il Libano rivendica come sua e che Israele considera come parte dei territori siriani conquistati durante la Guerra dei sei giorni.
Il rischio di un attacco e la paura che gli israeliani possano ripetere una nuova Operazione Frutteto hanno indotto Damasco ad innalzare l’allerta al massimo livello: il 6 settembre 2007, le Forze Aeree Israeliane (IAF) penetrarono nella regione di Deir ez-Zor e, dopo aver accecato tutti i sistemi siriani di difesa aerea, distrussero un presunto sito nucleare costruito nei pressi del fiume Eufrate.
Con la sua recente visita in Libano, il presidente siriano Bashar Assad ha di fatto ristabilito l’influenza di Damasco su Beirut. Il governo di Saad Hariri sembra ormai in balia della linea politica assunta dall’alleanza tra il Movimento sciita di liberazione guidato da Seyyed Hassan Nasralla e la Siria. E’ degli scorsi giorni la notizia secondo cui lo Stato Maggiore siriano ed Hezbollah avrebbero deciso di dare vita ad una cooperazione militare che prevede la creazione di un comando unificato, al quale verrebbe demandata la gestione strategico-operativa del campo di battaglia e di una struttura d’intelligence congiunta attraverso la quale dovrebbero essere trattate e scambiate le informazioni relative alle forze aeree e ai bersagli strategici israeliani.
La Siria, dal canto suo, sta cercando di trarre vantaggio dalla chiusura ai velivoli militari israeliani dello spazio aereo turco e, in caso di attacco, potrebbe cercare di infliggere pesanti danni alla flotta aeromobile israeliana, fornendo ad Hezbollah tutte le informazioni necessarie a colpire gli aeroporti militari e civili d’Israele.
Nel vicino Medio Oriente il fronte anti-israeliano sta certamente vivendo una nuovo primavera: a fine agosto, dopo la sospensione americana del pacchetto di aiuti militari destinato per il 2009 al governo di Beirut - 100 milioni di dollari che si sarebbero dovuti aggiungere ai 720 milioni forniti al Paese dei cedri tra il 2006 e il 2008 - il moderato presidente del Libano, Michel Suleiman, ha preso una decisione destinata a cambiare in modo determinante gli equilibri politici e militari dell’intera regione. Suleiman ha accolto l’appello del segretario generale di Hezbollah, Seyyed Hassan Nasralla, e ha chiesto ufficialmente alla Repubblica Islamica di equipaggiare con armi moderne le Forze Armate Libanesi (LAF).
Ma che l’asse Tehera-Damasco-Beirut fosse destinato ad un ulteriore rafforzamento lo si era già capito all’indomani dell’incidente di frontiera che, lo scorso 3 agosto, ha visto coinvolti l’esercito israeliano e i militari della LAF. A poche ore dal sanguinoso scontro armato avvenuto tra le località di Adaysse e Kfar Kila, il presidente Assad e il ministro degli Esteri iraniano, Manoucher Mottaki, si erano incontrati nel porto siriano di Latakia per discutere la situazione mediorientale e concordare una linea condotta comune. Negli stessi giorni, analoghi colloqui erano intercorsi tra l’inviato di Teheran e la sua controparte libanese, Ali al-Shami, deputato eletto nelle liste di Amal, il movimento sciita alleato di Hezbollah che partecipa al governo di unità nazionale guidato da Saad Hariri.
Mentre gli Stati Uniti stanno cercando di lanciare un negoziato di pace tra Israele, Siria e Libano, a Tel Aviv c’è chi vuole indebolire gli avversari chiudendo la principale linea di rifornimento che alimenta gli arsenali di Damasco e Teheran. Benjamin Netanyahu ha già chiesto alla Russia di bloccare la vendita di armi alla Siria e, il prossimo 5 settembre, il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, si recherà a Mosca per incontrare l’omologo russo Anatoli Seryukov.
Durante il meeting dovrebbe essere discussa la fornitura russa alla Siria dei missili supersonici P-800 Yakhont, che Israele considera pericolosi per le sue navi militari nel Mar Mediterraneo, ma si parlerà anche dei sistemi di difesa aerea S-300 che Damasco e Teheran stanno cercando di acquisire dalla Almaz-Antey e del sostegno russo alle sanzioni stabilite dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro il programma nucleare iraniano.
Sono molti i segnali che in queste ultime settimane evidenziano come Israele si stia preparando ad effettuare un’azione di forza: attaccare l’Iran o la Siria o reagire a qualsiasi provocazione libanese, le opzioni riguardano solo il come. Analizzando le opinioni di alcuni personaggi della politica israeliana presente e passata, Jeffrey Goldberg, giornalista americano del The Atlantic, afferma che ci sono più del 50% di probabilità che lo Stato ebraico lanci un raid entro il prossimo luglio.
Una possibilità confermata dalle crescenti quantità di materiale militare approvvigionato nelle ultime settimane - tra cui i 284 milioni di galloni di JP-8 (carburante aeronautico) e i 160 milioni di galloni di gasolio e benzina per auto-trazione arrivati direttamente dagli Stati Uniti - e dalla nomina a nuovo Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane di un personaggio inquieto quale è il Generale Yoav Galant. Ex comandante dell’unità di elite Flottiglia 13, che nella sua brillante carriera ha registrato ben poche esitazioni e che i palestinesi considerano come uno dei maggiori responsabili dei massacri ordinati durante l’Operazione Piombo Fuso.