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di Ilvio Pannullo
La Blackwater non lascia, anzi raddoppia. La notizia, recentemente accreditata da una serie di articoli del New York Times, riguarda la mancata dissoluzione della Blackwater Worldwide, l’azienda fondata nel 1998 da ex membri della Navy Seals - United States Navy SEa, Air and Land forces (SEAL); cioè da ex membri delle forze speciali d'élite della U.S. Navy, impiegate dal governo degli Stati Uniti d'America in conflitti e guerre non convenzionali, difesa interna, azione diretta, azioni anti-terrorismo ed in missioni speciali di ricognizione, in ambienti operativi prevalentemente marittimi e costieri.
La Blackwater Worldwide che in più occasioni non ha fatto segreto di aver preparato decine di migliaia di agenti di sicurezza, specializzati per lavorare in zone calde del mondo, ha creato recentemente notevoli imbarazzi alle amministrazioni americane, dimostrando in più occasioni di non aver rispetto per nulla che non sia il fiume di denaro derivante dai contratti con il Pentagono ed il dipartimento di Stato americano.
La sua triste fama è dovuta ai numerosi scandali che hanno recentemente interessato i conflitti, post 11 settembre, in Afghanistan e in Iraq. Se, infatti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale furono gli americani a mostrare al mondo i tesori artistici recuperati dalla residenza di Herman Goering (che aveva depredato sistematicamente tutti i migliori musei delle città europee conquistate), nel 2003 sono stati gli iracheni a mostrare al mondo quel poco che rimaneva del loro immenso tesoro culturale ed artistico, distrutto e trafugato dalle truppe occupanti dopo la conquista di Baghdad. Scoppiato lo scandalo, il dito dell’accusa fu immediatamente puntato sui “contractors” - quei soggetti cioè che forniscono consulenze o servizi specialistici di natura militare, talora assimilabili alle prestazioni dei mercenari – e, tra tutti, proprio su quelli della Blackwater Worldwide.
Quando ancora i soccorsi umanitari non potevano accedere alle zone più disastrate del paese, pare che gli antiquari e i commercianti d’arte in amicizia con il Pentagono avessero totale libertà di transito nel paese. Oggetti preziosi e insostituibili risalenti all’antica civiltà dei sumeri sono stati distrutti o sono scomparsi. Intere biblioteche sono state svuotate e quello che non veniva portato via veniva distrutto con speciali composti chimici, come documentato da tutta una serie di copiosi servizi realizzati da giornalisti indipendenti.
Sembrava quasi che si volesse togliere alla nazione ogni possibilità di rinascita, negando alle nuove generazioni l’accesso all’immenso patrimonio culturale del paese. Anche i più noti scavi archeologici venivano selvaggiamente distrutti senza alcun motivo apparente. Ad organizzare il tutto erano gli unici soggetti che avevano un diretto interesse economico nella gestione di simili traffici: non certo l’esercito regolare né i marines né qualsivoglia altro soggetto a vario titolo inseribile nell’organigramma gerarchico statunitense, quanto piuttosto quelle truppe di mercenari pagate per eseguire il lavoro sporco, quelle “pratiche” troppo lerce per portare ufficialmente la firma dello Zio Sam, ma che comunque dovevano essere sbrigate.
Nel frattempo, con la promessa di accelerare la ricostruzione dell’Iraq, gli uomini dell’amministrazione Bush convinsero il Congresso ad autorizzare la stampa straordinaria di 20 miliardi di dollari in contanti. “Li aiuteremo a rimettere in piedi i servizi primari - affermava il Bush in diretta televisiva - come l’elettricità e l’acqua e a costruire nuove scuole, strade e ospedali”. Fu così che 360 tonnellate di banconote da 100 dollari l’una vennero trasferite in Iraq in pacchi molto simili alla carta fotocopiatrice, ma del valore di svariati milioni di dollari ciascuno. Una volta giunte a destinazione le banconote venivano stipate nei sotterranei della ex residenza di Saddam Hussein.
I soldi erano ufficialmente sotto la responsabilità della coalizione internazionale, ma nella realtà a gestirli era il Pentagono nella persona del Proconsole americano, Paul Bremer. Costui, dopo essersi insediato a Baghdad, dichiarò che l’Iraq non era più un territorio dove vigeva la legge irachena. Purtroppo per l’Iraq non vigeva neanche quella americana. Nel vuoto di potere lasciato dalla deposizione di Saddam, si creava così una terra di nessuno nella quale l’unica legge in vigore era quella del più forte.
E infatti, chiunque si presentasse a nome di una società americana con in mano qualunque progetto di ricostruzione, veniva immediatamente finanziato senza particolari verifiche e, spesso, senza neanche rilasciare ricevute. Tutti gli appalti più sostanziosi sono così finiti nelle mani della Halliburton o delle sue società ausiliarie, che erano che erano le uniche stranamente autorizzate alle aste. Quando, infatti, il vice-Presidente degli Stati Uniti è anche il tuo ex direttore generale, ti si aprono strade che altri non riuscirebbero neanche a immaginare.
Ma non basta: i soldi sono tutti scomparsi letteralmente nell’arco di pochi mesi, senza che una sola autostrada, un solo ponte o un solo ospedale siano mai stati ricostruiti. In questo modo si realizzava un mostruoso paradosso nel quale le stesse persone che avevano appena finito di distruggere il paese, il vice-Presidente e il ministro della Difesa, gestivano e ricevevano i lucrosi appalti per ricostruirlo. Pare, infatti, che non sia una coincidenza che la ex società del vice-Presidente Cheney abbia avuto un mastodontico appalto per la ricostruzione dell’Iraq. La rivista TIME sostenne, infatti, di essere in possesso di una e-mail del Pentagono in cui si affermava che è stato proprio l’ufficio di Cheney a coordinare il contratto plurimiliardario della Halliburton. Non male come conflitto d’interessi.
Questo il contesto in cui la Blackwater, ora nota come Xe Services, ha operato con il pieno appoggio della stessa Halliburton e della sua controllata KBR. Il comportamento della società è stato oggetto di severe critiche per quello che gli iracheni hanno descritto come un comportamento sconsiderato da parte delle sue guardie di sicurezza. Tanto che, nel 2009, la compagnia ha perso il suo lucroso contratto con il Dipartimento di Stato per garantire la sicurezza diplomatica dell’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad, dopo che fu accertato dalla giurisdizione americana che, nel 2007, proprio la Blackwater si era resa responsabile di una sparatoria dove morirono 17 civili iracheni.
Nel dicembre del 2009, fu sempre il New York Times a denunciare che le guardie di sicurezza private della Blackwater avevano partecipato ad alcune tra le attività più delicate della CIA, tra cui incursioni clandestine al fianco di ufficiali dell’agenzia nei confronti di persone anche solo sospettate di essere insorti, in Iraq e in Afghanistan, oltre al trasporto dei detenuti e dei “resistenti belligeranti” presso luoghi idonei ad estorcergli confessioni non certo spontanee. Questo secondo quanto riferito da alcuni ex dipendenti della società e da alcuni funzionari dell’intelligence, in seguito alla fuga di notizie sui metodi di interrogatorio praticati nelle carceri ed avallati dall’allora Sottosegretario alla Difesa Rumsfeld e dal vice-Presidente Cheney. Su tutti si ricorderà di certo il caso Abu Ghraib.
Dopo che la società venne duramente condannata per il suo comportamento in Iraq, gli oscuri personaggi che muovo i fili della Blackwater hanno pensato bene di spegnere i riflettori e darsi alla macchia, attraverso la creazione di una rete di più di 30 società simulate, per continuare ad ottenere milioni di dollari in contratti con il governo americano, sempre secondo quanto puntualmente verificato dagli investigatori del Congresso anche in seguito alle rivelazioni di alcuni ex funzionari della Blackwater.
Mentre non è chiaro quante di queste imprese abbiano vinto appalti, almeno tre di queste vantano ad oggi contratti con l’esercito degli Stati Uniti o con la CIA. Dal 2001, l'agenzia d’intelligence ha infatti assegnato fino a 600 milioni di dollari in contratti classificati in favore della Blackwater e delle sue affiliate, secondo quanto affermato da un funzionario del governo degli Stati Uniti e riportato in una inchiesta del NYT.
La rete di società – molte delle quali allocate in paradisi fiscali off-shore - ha consentito ai mercenari della Blackwater di oscurare il loro coinvolgimento nei lavori sporchi appaltati dal governo americano e di assicurare un basso profilo per ogni forma di attività classificate. Ragione del loro grande successo e del perché tra le fila della società siedano tanti ex alti ufficiali dell’esercito e dei marines oramai in pensione. Per questo motivo il senatore democratico del Michigan, Carl Levin, Presidente del Comitato per il controllo delle Forze Armate, ha chiesto ufficialmente che il Dipartimento della Giustizia verifichi la possibilità che gli agenti della Blackwater abbiano ingannato il governo attraverso l’interposizione di false società affiliate per sollecitare la stipula di contratti milionari.
A tutto questo ha fatto seguito, nell’agosto 2010, un accordo che la Blackwater ha firmato con il Dipartimento di Stato che costringeva l’azienda - a titolo di transazione - a pagare 42 milioni dollari in multe per le centinaia di violazioni delle norme di controllo delle esportazioni degli Stati Uniti. Un modo forse per evitare di indagare ulteriormente su legami troppo solidi e troppo importanti per poter essere sciolti da un semplice cambio politico alla guida di quello che dovrebbe essere il paese della democrazia e della libertà.
Tra le violazioni contestate ed incluse nell’accordo vi sono infatti le esportazioni illegali di armi in Afghanistan, la formazione di truppe di belligeranti non autorizzate nel Sud del Sudan e l’addestramento di cecchini per gli agenti di polizia di Taiwan. L'insediamento della nuova presidenza, lungi dal portare una ventata di chiarezza e giustizia sulle vicende fin qui raccontate, ha solo portato a lunghi colloqui tra la Blackwater e lo stesso Dipartimento di Stato, che ha volutamente trattato la questione come una violazione amministrativa, consentendo all'impresa di evitare accuse penali. Tale impostazione, se da una parte chiarisce la gravità della questione mettendo chiaramente in evidenza le collusioni tra alcune frange del governo federale e le compagnie di mercenari, dall’altra - per fortuna - non risolve gli altri problemi legali che ancora oggi si imputano alla Blackwater e alla sua ex dirigenza.
I raid contro i sospettati estremisti islamici in territorio straniero si sono verificati infatti quasi ogni notte durante il momento di massima intensità della rivolta irachena, tra il 2004 e il 2006, con il personale della Blackwater che, in questo scenario, ha giocato un ruolo centrale in quello che gli addetti della società denominavano " snatch and grab”, strappare e afferrare. Invece di limitarsi a garantire la sicurezza per gli ufficiali della CIA, molti ex guardie della Blackwater hanno anche riferito di aver partecipato, non di rado, a missioni per catturare o uccidere militanti in Iraq e in Afghanistan: una pratica che solleva questioni molto serie circa l'uso di armi e personale privato per conto di terzi sul campo di battaglia.
Se infatti un militare, almeno in teoria, è inserito in uno preciso organigramma gerarchico e risponde delle sue azioni ai sensi delle convenzioni internazionali e del codice militare di guerra in vigore nel suo paese, un agente di sicurezza privato è del tutto svincolato da qualsiasi vincolo giuridico di carattere pubblico, rispondendo solo agli ordini impartitigli dal suo committente. Con tutto quello che questo può comportare.
Separatamente, sempre alcuni ex dipendenti della Blackwater hanno confessato di aver contribuito ad assicurare la sicurezza su alcuni voli della CIA per il trasporto dei detenuti negli anni successivi al 2001. La società privata era dunque organica e funzionalmente preposta alla gestione di tutte quelle pratiche scomode - volute dalla CIA su ordine diretto del vice-presidente Cheney - che, se scoperte, avrebbero potuto creare più di un imbarazzo all’amministrazione Bush. Quanto sopra fa emergere e rende palese come il rapporto tra i servizi americani e società private di sicurezza sia molto più profondo rispetto a quanto i funzionari di governo avevano riconosciuto.
Va da sé che la partnership della Blackwater con la CIA è stata enormemente vantaggiosa per la società del North Carolina: un legame che è diventato ancora più solido e lucroso, per entrambi i soggetti coinvolti, dopo che alcuni alti funzionari dell'agenzia sono stati iscritti - come personale di collegamento e analisti strategici - tra le fila della Blackwater. Ovviamente dietro lauti compensi.
L'azienda ha infatti continuato a crescere attraverso gli appalti concessi dal governo, nonostante le crescenti critiche e le accuse di brutalità più volte sollevate nei confronti dei suoi metodi. Sulla base di indiscrezioni raccolte e pubblicate dal NYT, l’azienda avrebbe infatti assunto un ruolo centrale nel programma di controterrorismo più importante di Washington: l'uso di droni per uccidere i leader di Al Qaeda sparsi per il mondo.
Insomma nulla lascia sperare che qualcosa in futuro possa cambiare. Se basta cambiare nome ad una società ed inventarsi qualche piccolo artificio para-legale per far dimenticare ignobili delitti, perpetrati nel disprezzo più assoluto di qualsiasi norma giuridica nazionale ed internazionale, quale speranza si può avere? Tutto cambia affinché non cambi niente.
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di Mario Braconi
Il Papa non è il benvenuto in Gran Bretagna: la sua visita di quattro giorni nel Regno, iniziata ad Edimburgo (Scozia), è talmente imbarazzante per i politici britannici che il Washington Post racconta di un memo riservato che girava al Foreign Office nel quale anonimi funzionari burloni suggerivano di invitare ufficialmente il Pontefice ad una cerimonia di benedizione di una coppia gay e in una clinica dove si praticano aborti.
Il documento è, in tutta evidenza, una goliardata e i buontemponi hanno subìto una lavata di capo: eppure il suo contenuto rappresenta efficacemente lo stato d’animo della maggioranza dei Sudditi nei confronti della visita papale. Secondo un sondaggio pubblicato dal Guardian, solo il 14% della popolazione è favorevole al viaggio papale, mentre al 54% non va giù il conto di 30 milioni di sterline (!) che il Papa lascerà da pagare ai contribuenti britannici.
A far infuriare gli abitanti del Regno Unito sono motivazioni politiche oltre che finanziarie. Tanto per dirne una, Benedetto XVI rappresenta un’organizzazione che si oppone fieramente alla diffusione dei preservativi in Africa, un atteggiamento che è la concausa della morte per AIDS di circa due milioni di persone ogni anno. Ben Goldacre, medico e columnist del Guardian espone un’antologia di dichiarazioni di Benedetto XVI e dei suoi cardinali in materia, una più imbarazzante dell’altra. Si va dal disinvolto nonsense delle parole pronunciate dal Papa in Camerun a maggio del 2009, (“questa tragedia non può essere fermata con i preservativi, che anzi rischiano di peggiorare la situazione”) alle idiozie mistificanti con cui a più riprese diversi cardinali hanno cercato di negare una semplice verità scientifica: l’impiego del condom riduce dell’80% la possibilità di contrarre l’infezione.
Piaccia o no, la lotta contro questa malattia si conduce con l’astinenza, la monogamia e i rapporti protetti; se Ratzinger (come anche Woytila) decide deliberatamente di abbattere una delle tre colonne su cui si basa lo stop al contagio, questo significa, né più né meno, che la chiesa romana costituisce “un grave problema di sanità pubblica”. Sostenere poi che la Chiesa è l’organizzazione che gestisce il più alto numero di ospedali per la cura dell’AIDS, nota sarcasticamente Polly Toynbee, Presidente della Associazione Umanista Britannica, equivale a dire che la chiesa gestiva le migliori unità di riabilitazione dalla tortura durante il periodo dell’Inquisizione...
Grazie alle reticenze e all’inerzia puntellate dai concordati bilaterali con i vari Paesi (Italia inclusa), la chiesa di Roma, inoltre, si è resa responsabile (e continua a rendersi responsabile) di quella che Goldacre definisce una “cospirazione internazionale finalizzata alla copertura di stupri di massa ai danni di bambini”. Oltre allo scandalo degli innumerevoli casi di pedofilia riscontrati negli USA e in Europa, ad irritare i sudditi del Regno è un report recentemente pubblicato in Gran Bretagna secondo cui oltre la metà dei preti pedofili finiti in carcere continuano a mantenere il loro stato di religiosi e una gran parte di loro riceve sostegno economico da parte della Chiesa.
Peter Saunders, rappresentante di un’associazione di vittime di abusi in età infantile (la NAPAC), nella conferenza stampa di mercoledì 15 settembre, si è detto scandalizzato dalla condotta della chiesa cattolica: “Le scuse non servono a niente: quello che desideriamo è verità, giustizia e magari anche una dimostrazione di senso di responsabiltà. [...] Vogliamo che il Papa dica: “Passerò tutti i documenti in nostro possesso alle autorità competenti dei Paesi nei quali i preti pedofili si stanno attualmente nascondendo”. Inoltre, la chiesa di Benedetto XVI porta avanti un’agenda politica innegabilmente retrograda nonché fieramente avversa ai diritti civili, in particolare in materia di interruzione di gravidanza e di discriminazione nei confronti degli appartenenti alla comunità GLBT, spesso contrastando nei fatti le disposizioni di legge dei Paesi che ospitano i suoi rappresentanti.
Ce ne è abbastanza per far arrabbiare una cinquantina di intellettuali, i quali hanno scritto una lettera aperta sul Guardian chiedendo la Governo di non concedere a Benedetto XVI l’onore di una visita ufficiale nel Paese: Ratzinger è libero, ovviamente, di recarsi in Gran Bretagna, ma in qualità di Capo di Stato non dovrebbe essere onorato per ciò che ha fatto e ciò che intende fare in futuro; un principio sano, certamente, ma che si spera possa essere in futuro applicato anche a capi di stato ugualmente vergognosi e criminali.
Anche agli Anglicani il Papa cattolico non fa mancare ragioni di disappunto: prima di tutto, corteggiando, in una sorta di grottesco “chiesa-mercato”, quei vescovi anglicani scandalizzati dalla recente apertura della loro chiesa all’ordinamento di sacerdoti omosessuali: pur di condurli nel suo “ovile”, Benedetto XVI ha messo a punto una piattaforma ad hoc, che consentirebbe loro di passare sotto le bandiere della chiesa cattolica, mantenendo però liturgia e tradizione di origine. In questo modo, la Chiesa di Roma, che non ammette il matrimonio per i suoi preti, avrebbe dei cardinali regolarmente (e legittimamente) ammogliati. Quando si dice la coerenza...
Come se non bastasse, il 19 settembre a Birmingham Ratzinger beatificherà il cardinale John Henry Newman, teologo e filosofo, oppositore del liberalismo e del relativismo (perché stupirsene?), ma soprattutto, divenuto cattolico dopo essere stato prete anglicano: più schiaffo morale di così! Vale la pena annotare che di Newman si racconta che fosse gay, particolare che rende particolarmente spassoso il riconoscimento tributatogli da uno dei papi più omofobi.
In questo scenario molto delicato si inscrive la gaffe del Cardinal Kasper, che, in un’intervista a Focus ha sostenuto che la Gran Bretagna somiglia ad un Paese del Terzo Mondo, parrebbe di capire, a causa della gran varietà etniche che vi sono rappresentate. Ovviamente, sulla scia dell’ulteriore irritazione provocata nel paese ospite dall’improvvida uscita del porporato, quest’ultimo è stato costretto a rinunciare alla visita, accampando l’improvvisa quanto provvidenziale insorgenza di una forma di artrite. Eppure si tratta del cardinale che, a valle della demenziale riabilitazione del lefevbriano negazionista Richard Williamson da parte di Ratzinger, fece parlare di sé (nei corridoi del Vaticano) rilasciando un’intervista insolitamente critica verso la decisione papale.
In effetti, l’uscita di scena di Kasper - certo non una colomba, ma riconosciuto come valido negoziatore con gli Anglicani - sembra funzionale alla strategia muscolare del muro contro muro tanto gradita al Pastore tedesco ma il cui successo è tutto da verificare; poiché il diavolo è nei dettagli, è interessante notare che il religioso che prenderà il posto di Kasper non ha un inglese particolarmente fluente, il che costituisce un ostacolo non proprio da sottovalutare in un contesto di grande tensione tra le due chiese. Forse l’obiettivo vero, viene da pensare, è proprio esacerbare a dovere gli animi.
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di Rosa Ana de Santis
L’Europa bacchetta pesantemente l’Eliseo sull’espulsione indiscriminata dei rom e apre ufficialmente una procedura di infrazione. La Francia, madre del diritto europeo, si dice esterrefatta delle sterili polemiche, infastidita del fatto che la decisione politica del governo francese passi per una spietata caccia all’uomo o un’oculata epurazione etnica, simil nazista.
Ma non é cosi, assicura Sarkozy. E siccome non è così chiude la polemica con un brutale “Se li prenda a casa sua i rom”, rivolgendosi al Commissario alla Giustizia Viviane Reding. Svelando, proprio quando penserebbe di averlo smentito, la più viscerale intolleranza e soprattutto la motivazione principale della cacciata.
C’è tutto Sarkozy in questa risposta: l’arroganza e la boria di un miracolato dalla fine della politica e della “grandeur” della Francia, che ha prodotto una degenerazione senza freni in quella che fu la capitale europea del diritto. E, se da una parte c’è un ometto tronfio, marito di una più celebre donna, dal’altro c’è la difficoltà e le fierezza di essere rom.
E proprio mentre l’Europa si accorge da subito che questo atteggiamento francese apre pericolosi precedenti, proprio mentre il Vecchio Continente ricorda (per quanto ipocritamente) le clausole sociali proprie della sua unità, l’Italia in tutta fretta si schiera a difesa di Sarkozy. Berlusconi non usa mezzi termini. E come potrebbe se questo è il paese in cui il Ministro dell’Interno può giustificarsi dell’erroneo agguato alla motovedetta libica, argomentando che si pensava si trattasse di immigrati?
Come se fosse accettabile, e un po’ da mettere nel conto, che se sei naufrago o clandestino qualcuno ti sparerà. Si può fare il tiro a bersaglio con i clandestini in mezzo al mare perché c’è un accordo con la Libia di contrasto all’immigrazione illegale? Si possono caricare in massa, su treni o aerei, gli zingari? Non viene niente alla memoria?
Non a caso la Germania, che con la sua storia ha imparato a fare i conti senza reticenze, pur prendendo le distanze dai modi e dai toni del Commissario Reding, si allinea completamente con la posizione UE e con il presidente Barroso. La sola lontana ipotesi della discriminazione etnica è un male talmente grande che ogni misura preventiva deve sembrare lecita al paese che ha originato l’orrore più grande della storia. Solo a loro, a quanto pare. All’Italia meno, che pure qualche schizzo di memoria dovrebbe ancora averlo, anche solo per ricordare di essere stato il primo paese al mondo a proclamare leggi razziali.
Ma cosa si può chiedere al governo guidato da un signorotto brianzolo che definiva il confino come villeggiatura? L’Europa, però, ritiene che la guardia non vada abbassata, né sulla forma, né sulla sostanza. E non a caso l’attenzione europea sul caso nasce soprattutto dal giallo - ma poi nemmeno troppo - delle due circolari che si sono repentinamente succedute al Ministero dell’Interno francese. Sembra che la prima fosse molto meno politically correct di quella poi divenuta ufficiale. Ed è qui che l’Europa vuole vederci chiaro, come ha fatto su diverse scelte del nostro governo.
In Italia, in diverse occasioni, si è fatta sentire anche la voce della Chiesa contro alcune derive poliziesche del governo, ma per il Cavaliere ormai i voti padani sono molti di più del bottino di consensi che un tempo gli assicurava la Chiesa. E la campagna elettorale, come un’autentica campagna pubblicitaria, deve andare avanti ad ogni costo. Quello che non si possiede lo si può sempre comprare.
I rom cacciati dalla Francia, quasi tutti tornati a Bucarest, risultano partiti volontariamente, con qualche spicciolo in tasca. Stando alle dichiarazioni francesi, i casi di espulsione sarebbero stati valutati singolarmente, non c’entrerebbe nulla il dato etnico. Strano che fossero famiglie intere, donne e bambini, e che fossero tutti rom. Una finta coincidenza come quella per cui abbiamo sparato su una barca che credevamo piena d’immigrati o abbiamo chiesto ai medici di denunciare gli ammalati clandestini. Quando chiederemo di farlo con proclama governativo per un camorrista o un mafioso o un politico corrotto potremo pensare che non ci siano forme di discriminazione xenofoba. Fino a quel giorno, uno spettro si aggirerà di nuovo per l’Europa. E non è il comunismo, purtroppo.
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di Michele Paris
Dietro indicazione del già potente presidente Mahinda Rajapaksa, il Parlamento dello Sri Lanka ha approvato a larga maggioranza una serie di modifiche costituzionali che aumentano considerevolmente l’autorità del governo, e permetteranno al Capo dello Stato di farsi eleggere per un numero indefinito di mandati. L’evoluzione del quadro politico singalese in senso autoritario fa seguito alla conclusione violenta della guerra civile con la sconfitta delle Tigri Tamil nel maggio 2009 e la successiva netta affermazione elettorale dello stesso Rajapaksa lo scorso mese di gennaio.
L’iter parlamentare con cui è stato adottato il 18esimo emendamento alla Carta Costituzionale rivela già di per sé la svolta autocratica in corso nel paese asiatico. Ben poco dei contenuti del provvedimento era stato rivelato pubblicamente prima del dibattito in aula. Un dibattito che è durato un solo giorno dopo che il governo, una volta ottenuto il via libera dalla Corte Suprema, aveva presentato la legge costituzionale come provvedimento urgente da approvare in tempi rapidi.
Secondo l’ordinamento dello Sri Lanka, per approvare modifiche alla Costituzione è necessaria una maggioranza formata dai dei due terzi dei parlamentari. Nonostante il partito del presidente (Alleanza per la Libertà e l’Unità del Popolo, UPFA) disponga di 144 seggi su 225 dell’intera assemblea, la proposta di modifica ha ottenuto ben 161 voti a favore grazie ad alcune defezioni dai partiti di opposizione dopo settimane di trattative più o meno segrete.
L’attuale Costituzione singalese era stata introdotta nel 1978 ed è già caratterizzata da una forte connotazione presidenzialista. Il sistema di contrappesi del sistema politico è stato poi regolarmente indebolito dai vari presidenti che si sono succeduti negli ultimi tre decenni. Da più parti, dunque, si chiedeva addirittura l’abolizione dello stesso presidenzialismo, promessa fatta anche da più di un presidente e puntualmente disattesa una volta che il candidato otteneva la carica, poiché spesso le maggioranze parlamentari non consentivano di raggiungere i due terzi dei seggi in Parlamento.
Grazie ad una costante occupazione di tutte le sfere del potere in Sri Lanka, a Rajapaksa è riuscita invece ora l’operazione opposta, garantendo ancora maggiori poteri ad un presidente che gode già di ampie facoltà, come quelle di dissolvere il Parlamento dopo solo un anno dalle elezioni, assumere il controllo di qualsiasi ministero e dichiarare lo stato di emergenza.
Due sono stati i più importanti cambiamenti costituzionali voluti da Rajapaksa. Il primo prevede l’abolizione della sezione 31, vale a dire la soppressione del limite dei due mandati presidenziali di sei anni ciascuno. Il tetto al numero di mandati è un accorgimento diffuso nelle democrazie presidenziali per evitare che la mancanza di avvicendamento in una carica così potente possa condurre a derive autoritarie.
Il problema è particolarmente grave nello Sri Lanka, in quanto a partire dall’introduzione del presidenzialismo nessun Capo di Stato in carica alla ricerca del secondo mandato è stato sconfitto in un’elezione. Ciò perché la carica, tra l’altro, permette il controllo della macchina dello Stato per pilotare l’esito del voto. Grazie alla nuova Costituzione, così, Mahinda Rajapaksa potrà correre indefinitamente per la presidenza una volta terminato il suo secondo mandato nel 2016.
La seconda importante modifica rappresenta ancora più chiaramente un attacco a ciò che rimaneva del sistema di controllo dell’Esecutivo. Con un emendamento introdotto nel 2001, ad un Consiglio Costituzionale era stata affidata la facoltà di approvare la nomina di giudici, procuratori, membri di commissioni indipendenti e anti-corruzione, con lo scopo di limitare l’autorità presidenziale. Il 18esimo emendamento sostituisce ora il Consiglio Costituzionale con un Consiglio Parlamentare, guidato dal Presidente del Parlamento, il nuovo organismo non avrà però potere vincolante per le importanti nomine, a totale discrezione del Presidente.
Grazie a quest’ultima modifica, Rajapaksa potrà scegliere liberamente propri uomini da piazzare nella magistratura e ai vertici di delicate istituzioni, praticamente garantendosi la possibilità di politicizzare ogni istituzione democratica del paese e influendo pesantemente sull’esito delle prossime tornate elettorali.
Per il Presidente e il partito di governo i cambiamenti introdotti si sono resi necessari per garantire stabilità al sistema e sviluppo economico al paese dopo il lungo conflitto con la minoranza Tamil nel nord del paese. Una necessità particolarmente sentita in vista del crescente malcontento popolare che si annuncia con la prossima adozione di misure di austerity, come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale che ha erogato quest’estate un prestito allo Sri Lanka di 2,6 miliardi di dollari.
Per i pochi oppositori rimasti, al contrario, i provvedimenti costituzionali non servono ad altro che ad assicurare la perpetuazione del potere di Mahinda Rajapaksa e di quella che sta diventando una vera e propria dittatura familiare. Se il presidente è già direttamente responsabile di 78 istituzioni nel paese, non è infatti l’unico Rajapaksa ad occupare posizioni di potere in Sri Lanka. I fratelli Gotabhaya e Basil sono rispettivamente ministro della Difesa e dello Sviluppo Economico. Un altro fratello, Chamal, è l’attuale presidente del Parlamento, mentre il figlio di quest’ultimo, Shashindra, è il Presidente della popolosa provincia di Uva nel sud del paese.
Il consolidamento del potere di Mahinda Rajapaksa è dovuto in parte anche ad un’opposizione sempre più debole e frequentemente ben disposta verso le lusinghe del partito di governo. Metodi repressivi per spegnere ogni segnale di resistenza hanno fatto il resto, come si è reso conto il principale contendente del presidente nelle più recenti elezioni, l’ex generale e membro del Parlamento Sarath Fonseka.
Esecutore principale dell’annientamento della resistenza Tamil lo scorso anno, Fonseka si era a poco a poco allontanato da Rajapaksa fino a correre per la presidenza nelle file dell’opposizione singalese. Uscito sconfitto dal confronto elettorale, Fonseka venne arrestato, privato di tutte le sue cariche militari e sottoposto alla corte marziale con la minaccia di essere condannato alla pena capitale. Una sorte che verosimilmente verrà riservata a quanti si opporranno all’uomo forte destinato a dominare per molto tempo la scena politica dello Sri Lanka.
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di Mario Braconi
Andy Coulson, giornalista di tabloid divenuto, appena quarantenne, spin doctor del Primo Ministro britannico, sta creando qualche imbarazzo a David Cameron: secondo il quotidiano britannico Guardian, poco più la metà delle 2.000 persone interpellate per un sondaggio su YouGov tra il 6 e il 7 settembre, ritiene che Coulson dovrebbe dimettersi dall’incarico. Il caso Coulson, nel mirino per una vicenda d’intercettazioni illegali, svela l’esistenza di una fitta rete di relazioni patologiche tra industria dell’informazione, mondo politico e polizia in Gran Bretagna.
La nostra storia inizia l’8 agosto del 2006, quando gli investigatori di Scotland Yard si presentano negli uffici del settimanale News Of the World con due mandati di arresto a carico di Clive Goodman (giornalista esperto in questioni relative alla Corona britannica) e di Glenn Mulcaire (un investigatore della testata): i due sono accusati di essersi procurati illegalmente un accesso alla casella vocale dei cellulari in uso alla Casa Reale.
Secondo la dettagliata ricostruzione dei fatti del New York Times della scorsa domenica, a casa di Mulcaire la polizia trovò, registrati su bloc notes e sulle memorie di due computer, quasi tremila numeri di cellulari di persone celebri e 91 PIN delle relative segreterie telefoniche. Al capo dell’Antiterrorismo di Scotland Yard venne recapitata una lista di celebrità intercettate da Goodman e Mulcaire lunga dieci pagine, assieme alle prove che il metodo di lavoro dei due costituiva non tanto un’eccezione quanto una pratica consolidata nella redazione di News of the World.
Eppure la polizia decise di incriminare solo Goodman e Mulcaire, che vennero condannati a diversi mesi di reclusione per intercettazione illegale oltre ad essere allontantanati dal giornale. Se vi fosse qualche dubbio sull’atteggiamento non particolarmente aggressivo della polizia in questa inchiesta, un importante ufficiale della Metropolitan Police (MET) ha dichiarato al New York Times, che non vi era “alcuna intenzione di fare pulizia una volta per tutte nel settore dei media britannici”.
Ai tempi dello scandalo delle intercettazioni illegali sulla famiglia reale, Andy Coulson è il rampante direttore di News of the World di Rupert Murdoch, dove è approdato dopo essersi fatto le ossa qualche anno sulla colonna dello spettacolo di The Sun un altro tabloid popolare, sempre di Rupert Murdoch. La condanna di Goodman e Mulcaire lo obbliga a rassegnare le dimissioni: del resto, un redattore di News Of the World ha raccontanto al New York Times che Coulson parlava apertamente del ricorso alle cosiddette “arti oscure” al fine di reperire materiale utile a confezionare scoop (intercettazioni sulle segreterie telefoniche, ricorso a talpe nella polizia, presso le compagnie telefoniche, dentro gli ospedali eccetera...). Di fatto il suo stile di gestione della redazione, incline a fornire ai lettori quello che desideravano e disinvolto quanto al rispetto della legge e della deontologia, più che un limite costituiva un incoraggiamento a ricorrere a mezzi illegali.
Il primo round finisce con un happy ending: Goodman e Mulcaire fanno causa a News of the World, ottenendo un congruo rimborso monetario; il giornale è salvo, dato che le pratiche disinvolte delle sue redazioni rimangono nascoste da una cortina fumogena innalzata dalla polizia, apparentemente decisa a non andare troppo a fondo con l’inchiesta. Quanto ad Andy Coulson, dopo le dimissioni dal NoW viene assunto come capo delle comunicazioni del Partito Conservatore: la nomina di un uomo di Murdoch nella sancta sanctorum dei Conservatori è il suggello della nuova alleanza tra il partito e il magnate australiano, che alle recenti elezioni britanniche ha deciso di appoggiare i Conservatori mettendo in campo la sua artiglieria mediatica.
Ma una volta resi noti i nomi delle vittime delle intercettazioni illegali di Mulcaire, si apre il capitolo delle cause milionarie: il Guardian, testata progressista e visceralmente avversa a Murdoch, rivela a luglio del 2009 che il solo accordo extragiudiziale di NoW con Gordon Taylor (capo della Professional Footballer’s Association, vittima di un’intercettazione che avrebbe rivelato una sua presunta relazione con un’assistente) è costato al giornale circa un milione di sterline.
Con l’occasione, il Guardian propone ai suoi lettori alcune domande scomode: 1) è giusto che una persona come Coulson, nella migliore delle ipotesi moralmente responsabile di reati contro la privacy (sono stati intercettati anche parlamentari, cosa illegale in Gran Bretagna dal 1689), occupi un posto così importante? 2) è ammissibile che i manager di una delle società di Murdoch abbiano mentito alle sedute delle varie commissioni d’inchiesta che hanno indagato sullo scandalo? 3) per quale ragione la MET non ha fatto indagini approfondite sui telefoni oggetto d’intercettazione pur essendo in possesso di tutte le informazioni rilevanti dopo aver smascherato Goodman e Mulcaire?
Scrive Robert Reiner sul Guardian, che vi sono almeno un paio di insegnamenti da trarre da questa vicenda: prima di tutto emerge un rapporto tra stampa e polizia dominato dalla paura quando non da vero e proprio servilismo (specie nei confronti delle testate di Murdoch). Sembra inoltre che il potere non riesca ad apprezzare i vantaggi della trasparenza, specie se confrontati con gli effetti boomerang che si producono quando una vicenda insabbiata viene riportata alla luce come in questo caso. Infine, il fatto che il direttore di settimanale scandalistico dai modi “disinibiti” diventi responsabile comunicazione di un partito che poi vince le elezioni è eloquente del tipo di politica che “paga” ai giorni nostri - anche dall’altro lato della Manica.