di Carlo Benedetti

MOSCA. Due definizioni circolano con insistenza nel mondo della politologia  di questa Russia d'inizio d’anno. La prima - “Il Partito non è un circolo di discussioni” - è di Stalin, che non era certo un fautore del pluripartitismo... La seconda - “Un partito al potere e tutti gli altri in prigione” - è di Tomski, il sindacalista rivoluzionario russo degli anni ’30. E c’è poi chi, sempre in questo contesto di citazioni e di rimandi storici ed ideologici, si rifà a Simone Weil, che paragonava i partiti ad una lebbra che uccide, chiedendone, di conseguenza, la soppressione. Ma è chiaro che in un paese come la Russia, che ha alle spalle quell’Unione Sovietica a partito unico, il tema della nascita di nuove formazioni è sempre attuale.

Sulla scena ci sono i partiti nati dal crollo del 1991: “Russia unita”, “Russia giusta”, “Liberal-democratici”, “Partito “Nazional-bolscevico”, “Russia che lavora”, “Comunisti della Federazione russa”... ed ora si delinea sempre più all’orizzonte il “Partito della Libertà Popolare”. Il quale, anche sull’onda del riconoscimento fatto da Medvedev nei giorni scorsi a determinati suoi esponenti, alza la testa e scende nelle piazze come avvenuto domenica scorsa a Mosca.

Ed ecco che si torna a parlare di esponenti che sembravano dimenticati. A cominciare da quel Michail Michajlovic  Kassianov (classe 1975), personaggio molto discusso che iniziò la sua carriera nelle strutture economiche dell’Urss e che fu, nel 2000, alla guida del governo russo. Le malelingue lo ricordano solo come un corrotto pronto a prendere il 2% su ogni transazione (Non a caso era chiamato, in russo, “Miscia dva per zenta”). Altro nome ora riesumato da Medvedev è quello di Boris Efimovic Nemtsov (1959). Un ingegnere che fu esponente di spicco nei movimenti che scaturirono dal crollo dell’Urss. Seguace di Eltsin e del riformista Gajdar è stato anche vice premier della Russia.

Segue a ruota - sempre nell’elenco di Medvedev - Vladimir Aleksandrovic Rigkov (1966), uno storico che fu negli anni ’80 l’organizzatore del movimento democratico nella regione siberiana degli Altai. Deputato alla Duma nel 1993 è divenuto un personaggio di primo piano nella scena politico-amministrativa del Paese.

C’è poi lo scacchista campione del mondo, Garri Klimovic Kasparov (1963), che nel 2000 scelse la strada della vita politica divenendo uno dei maggiori leader dell’opposizione. Ultimo in questa lista di Medvedev è lo scrittore Edmund Vladimirovic Limonov (1943). Un intellettuale notoriamente scomodo per il Cremlino di Putin. Si deve a lui la fondazione del “Partito nazional-bolscevico”. Numerose le sue contestazioni alla testa di rivolte di strada e le sue gesta di combattente, al fianco dei serbi nella guerra jugoslava del 1991-1993.

Ed ecco ora, sullo sfondo di questi nomi, che i rappresentanti dell’opposizione liberale intendono far registrare il nuovo partito politico ed andare alle elezioni  alla Duma nel 2011. Ed entro il 2012, anno in cui sono in programma le elezioni presidenziali, si propongono di avanzare un candidato comune. Ma secondo il direttore generale del “Centro per lo studio della congiuntura politica” Serghej Mikheev la nuova formazione non dovrfebbe avere prospettive: “Sono convinto - dice - che questo partito non è in grado di superare la barriera di accesso al Parlamento poiché il suo indice di gradimento è estremamente basso. Tutta questa gente si era screditata ancora negli anni ‘90. Personalmente, quindi, non vedo nessuna prospettiva per questo partito”.

Stesso giudizio viene espresso da altri politologi russi. E così, pur se si apprezzando gli impegni di questa nuova formazione in merito alla salvaguardia dell’ambiente, la libera iniziativa, la lotta contro i monopoli e la lotta contro la corruzione, non vi dovrebbero essere spazi di successo. Proprio per il fatto - dice ancora Mikheev - che “questo  nuovo Partito ha adottato gli slogan di cui oggi parlano tutti. È chiaro che tutti questi problemi vanno risolti. Il Partito auspicato se offrisse qualche cosa di nuovo, avrebbe una possibilità di essere sentito dagli elettori. In realtà, invece, duplica l’attuale ordine del giorno, tentando di riferire tutte le iniziative in questo campo a sé stesso”.

E anche qui non va tutto liscio. È ingenuo pensare che i russi hanno dimenticato i nomi di coloro che erano stati al potere all’inizio degli anni 90 - ricorda l’esperto: “Francamente Nemtsov, Kassianov e compagnia, che  in quel periodo ricoprivano alte cariche in seno al governo, furono alle origini dell’attuale imperversare della corruzione e della burocrazia che ora ci troviamo ad affrontare. Sono autori del sistema che ora ci impedisce di vivere una vita normale. In buona parte è una manipolazione dell’opinione pubblica nella speranza che il popolo ha già dimenticato chi era tutta questa gente in un recente passato”.

Molti analisti di Mosca concludono ora che l’obiettivo principale del nuovo partito e dei suoi fondatori - in un mondo fatto di gesti - è quello di ricordare sé stessi, di tornare alla grande politica, di fare un altro tentativo per rientrare nell’arena del potere. Quell’arena che oggi è dominata da Putin e da Medvedev. Ma che, viste le ultime sortite, potrebbe far registrare diverse crepe nelle pur forti mura del Cremlino.

di Fabrizio Casari

Emine Demir, ex redattrice del quotidiano curdo Azadiya Welat (che in curdo significa “L’indipendenza dalla madre patria”), è stata condannata da un tribunale di Diyarbakir, la principale città della Turchia sud-orientale, a maggioranza curda, a ben 138 anni di carcere per “propaganda in favore dei ribelli curdi”. Non é una novità assoluta la sorte di Emine, anzi é al secondo posto sul podio dell’ignominia turca contro l'informazione. A maggio era infatti toccato al caporedattore (sempre del medesimo quotidiano) Vedat Kursum, 36 anni, giornalista nonché editore del quotidiano. A lui, per gli stessi reati, erano stati inflitti 166 anni di carcere. Più fortunato Ozan Kilinc, ex direttore del quotidiano, condannato dieci mesi fa a “soli” 21 anni di prigione.

Non aspettatevi adesso editoriali grondanti indignazioni sui principali media internazionali. Emine Demir, purtroppo per lei, non è cubana. Fosse stata cubana, l’appellativo di “dissidente” gli sarebbe valso l’immediata protesta degli Stati Uniti, che ne avrebbero chiesto l’immediata liberazione. Fosse stata cubana l’Unione Europea avrebbe lanciato sdegnati comunicati contro la “brutale repressione del regime” e Reporter Sans Frontieres avrebbe lanciato raccolte di firme, convegni e proteste d’ogni tipo sostenute dallo stesso conto corrente, cui avrebbe fatto seguito la nascita, nel più breve tempo possibile, di una candidatura vittoriosa al Nobel per la pace.

Ma, purtroppo per lei, Emine non è cubana. E’ curda lei e turco il tribunale che l’ha condannata. Turco, non cubano. Di quel paese cioè che si autodefinisce democratico e laico e che aspira ad entrare in Europa, spinto proprio dagli stessi paesi della Ue che condannano Cuba per una presunta e mai dimostrata violazione dei diritti umani. D’altra parte, aver sterminato gli Armeni prima e i curdi poi non sarà poi cosa più ignobile che definirsi socialisti a 90 miglia da Miami, no?

Emine Demir potrà ricorrere in appello, facoltà attribuita ai vivi. Questo perché non è nemmeno honduregna, altrimenti invece che essere condannata a 138 anni di carcere per aver espresso delle opinioni sarebbe semplicemente morta, come morti sono i dieci giornalisti honduregni che denunciavano in questi mesi l’orrenda repressione a seguito del Colpo di Stato a Tegucigalpa, che ha deposto Manuel Zelaya, legittimo Presidente dell’Honduras.

Dieci giornalisti uccisi da grandinate di proiettili. L’ultimo è stato Henry Suazo, corrispondente di Radio HNR di Tegucigalpa. Prima di lui, a cadere sotto il piombo dei giganti della democrazia e del libero mercato è toccato a Joseph Ochoa, di Canale 51; David Meza, di Radio El Patio; José Bayardo Mairena e Víctor Manuel Juárez, di Radio Super 10; Nahum Palacios, della Televisione del Aguán e Luis Chévez, dell’emittente W105. Si aggiungono a Georgino Orellana, di un canale di San Pedro Sula; Nicolás Asfura, giornalista radiofonico e Luis Arturo Mondragón, direttore del notiziario del Canale 19 della città di El Paraíso. Tutti assassinati nel corso di quest’anno.

Dieci colleghi sfortunati, perché nati nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata. Fossero stati cubani sarebbero vivi e nei pensieri della signora Clinton, ma l’Honduras è la più grande base militare Usa fuori dai confini statunitensi e dunque davanti a tanta magnitudine cosa volete che siano dieci morti, per di più giornalisti?

E non parliamo di giornalisti diventati tali solo aver mai pubblicato niente, come succede a Cuba; questi erano giornalisti veri, che scrivevano, parlavano e raccontavano. Non fondavano partiti, non erano stipendiati dalla locale ambasciata Usa; facevano il loro mestiere per due soldi, spacciavano racconti di corruzione, repressione e narcotraffico.

In fondo, però, poca roba, confronto ai 14 giornalisti assassinati in Messico nel 2010, perché anche il Messico, va precisato, è una grande democrazia. Il fatto che sia un narco-stato, il pusher prediletto per gli Stati Uniti, cioé il più grande consumatore di droghe al mondo, non può far velo al merito di rappresentare pienamente gli interessi petroliferi del Big Brother confinante.

Per non parlare del Guatemala, dove ormai i giornalisti uccisi rasentano il numero di quelli in attività. Ma anche qui bisogna andarci cauti: essere il bastione dell’anticomunismo per tanti anni può legittimamente determinare alcuni eccessi e risulterebbe oltremodo pignolo e pernicioso stendere la contabilità dei danni collaterali nel corso di una guerra santa. La stessa che si combatte in Colombia, dove i quattro giornalisti uccisi quest'anno rappresentano la percentuale infinitesimale di quanti vengono minacciati dagli squadroni della morte del narcostato di José Santos.

Nel corso del 2010 i giornalisti uccisi sono 106, secondo le stime di Suize Press. Oltre a quelli già citati, dieci sono stati assassinati in Pakistan, otto in Irak, sei nelle Filippine, quattro in Russia, Brasile e Nigeria. Sembra che sia l'America Latina il luogo più pericoloso nel quale svolgere la professione, mentre gli Stati Uniti sono quello più remunerativo.

Pare che tra il libero mercato e le libere opinioni sia ormai difficile mediare: il primo prevede che le seconde siano docili o detenute, le seconde prevedono che il primo le lasci circolare impunemente soprattutto se contrarie. Dev’essere questo il nuovo modello di relazione tra affari e opinioni: più il mercato é libero, più l'edilizia carceraria e le imprese funerarie prosperano.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Ti svegli alle sette meno un quarto nella tua casa di periferia. Comprata con un mutuo subprime a tasso variabile, non è più tua ma appartiene a Bank of America, che ha aumentato gli interessi mandandoti in bancarotta e si appresta a sfrattarti. Prendi la macchina, comprata con un finanziamento agevolato, che dovrai pagare per altri vent'anni, esci di casa e prendi l'autostrada per andare al lavoro. Il pedaggio autostradale, raddoppiato nell'ultimo anno, lo paghi al fondo sovrano di oligarchi russi. Hanno acquistato l'autostrada dallo Stato dell'Illinois, i cui conti sono in rosso a causa della crisi finanziaria e del crollo delle entrate fiscali.

Arrivi a Chicago e parcheggi davanti a McDonalds. Metti i soldi nel parchimetro e ti accorgi che ora la sosta a pagamento non finisce più alle sei ma dura ventiquattro ore e il costo del parcheggio é raddoppiato. Un fondo sovrano riconducibile alla famiglia reale saudita, ha comprato tutti i parcheggi della città in saldo e poi ha aumentato le tariffe senza consultare il sindaco. “Ti ricordi che avevi un lavoro, una casa, una macchina, una famiglia e c'era sempre cibo nel frigo e adesso ti trovi da sei mesi con problemi di droga e ogni mattina porti fuori in giardino TV e tostapane e li metti in vendita per quattro spiccioli e pagarti un panino a mezzogiorno.”

Secondo Matt Taibbi questo è lo stato attuale dell'economia americana. Nella sua ultima imperdibile opera “Griftopia,” che potremmo tradurre come “Furtopìa,” il giornalista americano scava a fondo nel cuore della recente crisi finanziaria. E svela come il sistema finanziario americano abbia realizzato una vera e propria utopia al rovescio, in cui le banche d'affari mettono le mani nelle tasche dei cittadini e allo stesso tempo svendono persone, cose e infrastrutture a fondi d'investimento stranieri che riciclano proventi del petrolio. Il tutto in cambio di una piccola commissione, che permette ai top manager di intascare bonus da centinaia di milioni di dollari.

Breve riassunto delle puntate precedenti. L'euforia della New Economy dei formidabili anni novanta aveva portato i risparmiatori americani a giocare tutti i loro soldi in borsa. La bolla è scoppiata nel 2001 e ha spazzato via tutti i risparmi di una generazione, che si è trovata senza più soldi in tasca per la pensione. Ma, come incalliti giocatori di poker, i consumatori americani hanno subito cominciato a prendere denaro a prestito per speculare sul mercato immobiliare, che secondo Alan Greenspan, capo della Federal Reserve, era destinato ad una crescita eterna.

Le magnifiche sorti e progressive erano ovviamente destinate a naufragare. La bolla immobiliare scoppiata nel 2008 lascia i poveri consumatori americani cornuti e mazziati: non solo senza più soldi, ma anzi pieni di debiti da ripianare. Con il crollo verticale delle entrate fiscali e i bilanci in rosso, le amministrazioni alla canna del gas hanno deciso di svendere tutti i beni pubblici per quattro soldi al primo che passa.

Il caso vuole che si tratti quasi sempre di Goldman Sachs, Morgan Stanley o qualche altra delle banche d'affari “troppo grandi per fallire.” Che dopo aver ripulito le casse del Tesoro americano con una vera e propria rapina a mano armata (altrimenti nota come “piano di salvataggio finanziario”) si apprestano ora a vendere in saldo il resto del Paese.

Chi possiede liquidità per miliardi di dollari, tali le cifre necessarie per affittare per cento anni autostrade, parcheggi, laghi, fabbriche in bancarotta? Qui entra in gioco il genio puro delle banche d'investimento, artefici di un trucco da manuale. Esistono sul mercato finanziario enormi fondi d'investimento, di proprietà oscure ma riconducibili all'OPEC, sceicchi arabi e Russia in testa, alla caccia perenne di affari gustosi. Con il crollo del settore immobiliare nel 2008, che ha trascinato con sé le borse di tutto il mondo, questi fondi si sono trovati con un sacco di liquidità e nessun posto in cui investire.

Goldman Sachs allora inventa il mercato dei futures dei beni di consumo. Ovvero inizia a vendere una quantità smisurata di contratti al rialzo su acquisti futuri, creando un'impennata nei prezzi di petrolio e grano come non si era mai vista. Da un lato, il picco nel prezzo del grano ha portato alla fame metà del pianeta. Dall'altra, il record mondiale di 149 dollari al barile toccato dal petrolio nell'estate del 2008 ha trascinato in su tutti i prezzi al dettaglio, nel pieno della crisi economica. Grazie alla finanza creativa dei futures, Goldman ha fatto realizzare profitti impressionanti ai fondi sovrani arabi e russi. Che dopo questo giochetto si sono trovati ad essere i più potenti assets del mercato globale.

E infine l'ultimo tassello del crimine perfetto: le banche, quasi curatrici di un'asta fallimentare, impacchettano e vendono i beni pubblici in saldo ai fondi sovrani. In ognuna di queste transazioni, le banche guadagnano una certa percentuale che si trasforma in bonus dorati di tre mesi in tre mesi. Grazie a questa strategia, in pochi anni gli Stati Uniti si sono trasformati in una landa desolata, percorsa da fondi sovrani alla ricerca degli ultimi ossi da spolpare, guidati dai segugi infaticabili di Goldman Sachs, che si accontentano di qualche decina di miliardi di dollari di briciole.

Senza saperlo, i cittadini americani si sono un giorno svegliati all'interno di The Matrix, dove tutto quello che li circonda, il paesaggio attorno a loro, strade, case, stadi, parcheggi, automobili, montagne, fiumi e laghi, è stato venduto a qualche entità dagli assetti proprietari oscuri. Le amministrazioni locali, venduto il vendibile, non hanno più alcuna voce in capitolo nella gestione della cosa pubblica: perché la cosa pubblica non esiste più. La politica è svuotata di qualsiasi potere reale.

Ci resta da aspettare che le banche spolpino l'osso per bene e lascino gli Stati Uniti ad agonizzare, volgendo lo sguardoverso nuovi orizzonti di profitti. Che probabilmente, come abbiamo visto nell'anteprima greca, si chiamano debiti statali dei paesi europei. E a quel punto si salvi chi può. Per chi vuol saperne di più, consigliamo di leggere Taibbi, per ora disponibile solo nella versione inglese.

di Carlo Musilli

Si chiamava "Dream Act" ed è rimasto un sogno. Il Senato degli Stati Uniti ha respinto la proposta di legge più progressista degli ultimi anni in tema d’immigrazione. L'obiettivo era di concedere la cittadinanza americana a quei clandestini che, arrivati negli Usa ancora in fasce, hanno ormai portato a termine il servizio militare o almeno due anni di college.

Si trattava di regolarizzare centinaia di migliaia di persone, per lo più studenti, che da tutta la vita negli Stati Uniti si sentono a casa. Molti di loro scoprono di essere immigrati illegali soltanto quando fanno richiesta di ammissione all'università. Per avere un'idea: ogni anno nei licei americani si diplomano circa 65.000 immigrati illegali. Tirano anche il cappello in cielo.

Ma naturalmente tutto questo ai senatori non interessa. In 55 hanno votato a favore, 41 i contrari. Peccato che per far andare avanti la legge servissero almeno 60 voti. Peccato davvero, soprattutto perché 5 Democratici hanno votato con i Repubblicani.

Il "Dream Act" non era positivo "solo per i giovani che vogliono servire un paese a cui sentono di appartenere - ha commentato Obama - ma anche per gli Stati Uniti, che traggono profitto dai loro successi" sotto il profilo della "competitività economica e militare". Purtroppo, ai conservatori la legge è sembrata un'amnistia inaccettabile. Secondo Jeff Sessions, senatore dell'Alabama e leader della fazione contraria al provvedimento, approvare il "Dram Act" sarebbe stato come "premiare l'immigrazione clandestina", "incoraggiando così una pratica illegale".

L'amministrazione Obama si ritrova così impantanata su un nuovo, delicatissimo fronte. I Democratici ripetono di voler tornare nei prossimi mesi sul tema "prioritario" dell'immigrazione, ma sanno benissimo che quella appena sfuggita era l'ultima occasione. Da gennaio, infatti, in virtù dei risultati delle elezioni di medio termine, il Congresso passerà in mano ai Repubblicani. E allora non solo sarà impensabile rispolverare il povero "Dream Act", ma ci si ritroverà a discutere se approvare o meno leggi da età della pietra. Per fare solo un esempio, i conservatori hanno in mente di abrogare la legge che, a oggi, concede la cittadinanza automatica ai bambini nati su suolo americano da genitori clandestini. In poche settimane si tornerà indietro di decenni.

Era proprio quello che Obama voleva evitare. Per tutto il 2010 la sua amministrazione ha fatto il gioco del bastone e della carota con i Repubblicani: controlli più rigidi hanno portato al record di 390mila espulsioni in 12 mesi, nella speranza che questo ammorbidisse l'opposizione in sede legislativa. Nella mente utopica degli obamiani, infatti, il "Dream Act" doveva essere solo la parte più indolore di una riforma generale che avrebbe portato a regolarizzare la situazione di 11 milioni di immigrati illegali.

Ma qualcosa è andato storto e, per il momento, Obama si ritrova ad essere solo il presidente che detiene il record d'espulsioni. Un problema bello grosso, perché si gioca sul fronte elettorale. Sono in ballo milioni di voti per le elezioni presidenziali del 2012. Le comunità d'immigrati, soprattutto ispanici (i "Latinos"), stanno col fiato sul collo del Presidente. Proprio loro, gli stessi che hanno salvato i Democratici alle ultime consultazioni di medio termine, evitando che finissero in minoranza anche al Senato.  I "Latinos" hanno già attaccato Obama per non aver affrontato il problema dell'immigrazione in estate, come aveva promesso. Non accetterebbero di essere dimenticati ancora.

Certo, ormai gli spazi di manovra per i Democratici sono più che limitati. Alla prossima riunione del Congresso saranno presenti diverse new-entry elette proprio sulla base di programmi anti-immigrazione. Un paio di nomi: Lamar Smith e Steve King, due repubblicani purosangue che con ogni probabilità siederanno rispettivamente sulle poltrone della Commissione Giustizia e della Sottocommissione per l'Immigrazione.

A questo punto gli scenari possibili sono diversi. I Democratici saranno costretti a tentare di nuovo con il "Dream Act" ("approvarlo è il minimo che possiamo fare", ha detto l'ottimista Obama), ma è probabile che nel lungo periodo sceglieranno di proporre una legge più generale e light rispetto a quella concepita in origine, per evitare di mettere sul tavolo le questioni più controverse ed essere nuovamente umiliati al momento del voto.

D'altra parte, nonostante tra le loro fila trovino posto quegli xenofobi scalmanati del Tea Party, nemmeno ai Repubblicani farebbe comodo inimicarsi l'elettorato ispanico. E' quindi verosimile che alla fine decidano di mettere la museruola ai soggetti più agguerriti (alcuni provengono dai movimenti suprematisti bianchi) e ridimensionare le proposte più rischiose, come quella sulla cittadinanza ai bambini.

Per non scontentare l'elettore medio-bigotto, potrebbero comunque proporre le leggi dall'impatto emotivo più debole, come quella con cui si vorrebbe obbligare i datori di lavoro a verificare la condizione amministrativa dei propri dipendenti per via telematica, invece della solita carta ingiallita.

Comunque vadano le cose, è certo che a gennaio negli Stati Uniti si parlerà ancora d’immigrazione. Entrambi gli schieramenti dovranno tener presente che "la bocciatura del 'Dream Act' non sarà dimenticata dalla comunità dei Latinos - come ha sottolineato Robert Mendez, senatore del New Jersey dal cognome non propriamente anglosassone - una comunità che sta crescendo non solo nelle dimensioni, ma anche sotto il profilo del potere e della coscienza politica".

 

di Michele Paris

Tra i documenti pubblicati a getto continuo da Wikileaks, negli ultimi giorni spiccano alcuni cablo redatti tra il 2005 e il 2007 dall’ambasciata statunitense a Nuova Delhi, che descrivono la condizione dei diritti umani in Kashmir. I resoconti in questione parlano apertamente di torture e abusi, eseguiti impunemente dalle forze di sicurezza operanti nell’unico stato indiano a maggioranza musulmana con la connivenza del governo centrale. Perfettamente a conoscenza dei fatti, gli Stati Uniti hanno tuttavia deciso di tacere su questi crimini, continuando a perseguire una politica di avvicinamento verso l’importantissimo alleato asiatico.

Nel primo cablo riservato, inviato dall’allora ambasciatore David C. Mulford al Dipartimento di Stato americano nell’aprile del 2005, si fa riferimento a un rapporto confidenziale del Comitato Internazionale della Croce Rossa consegnato ad alti funzionari dell’ambasciata. In esso vengono descritte le “gravi e diffuse torture nelle prigioni indiane del Kashmir tra il 2002 e il 2004”. Nonostante il consolidato dialogo tra l’istituzione umanitaria e il governo indiano, prosegue l’ambasciatore, “il persistente abuso dei detenuti ha spinto la Croce Rossa a concludere che Nuova Delhi approva la tortura”.

Secondo quanto riferito ai diplomatici americani dalla Croce Rossa, ad essere sottoposti ai metodi di tortura non sono tanto i militanti anti-indiani (i quali generalmente vengono giustiziati sommariamente dalle forze di sicurezza) quanto piuttosto cittadini comuni accusati o sospettati di aver fornito assistenza agli stessi attivisti, oppure di possedere preziose informazioni su di essi.

Lo stato indiano di Jammu e Kashmir è situato all’estremo nord del paese ed è conteso tra India e Pakistan (e in parte dalla Cina), i quali hanno combattuto almeno tre conflitti a partire dalla partizione dell’India britannica nel 1947. Dopo le contestate elezioni del 1987, nella regione si crearono vari gruppi militanti, che condussero ben presto alla nascita di un movimento di resistenza armato contro il dominio indiano.

Il rapporto diffuso da Wikileaks continua poi con il riassunto da parte dell’ambasciatore americano a Nuova Delhi dei dati forniti dalla Croce Rossa nella sua attività tra i centri di detenzione del Kashmir. L’indagine coinvolge 177 carceri con 1.491 interviste a detenuti. Di questi, ben 852 hanno subito una qualche forma di abuso, come elettro-shock, percosse e fratture, simulazione di annegamento e abusi sessuali. Delle torture, sottolinea la Croce Rossa, si sono resti protagonisti indistintamente tutti i reparti delle forze di sicurezza indiane.

Del trattamento riservato al Kashmir dai governi della cosiddetta più grande democrazia del pianeta, rendono conto in realtà da tempo svariate organizzazioni a difesa dei diritti umani. La pubblicazione dei documenti da parte di Wikileaks testimonia tuttavia in maniera inequivocabile di questi orrori, grazie all’accesso diretto garantito alla Croce Rossa nelle carceri indiane. Tale concessione viene infatti riservata dai governi all’associazione con sede a Ginevra, in seguito alla tradizionale politica di non divulgare pubblicamente i risultati dei sopralluoghi effettuati, così da rimanere neutrale e conservare appunto la possibilità di accedere alle strutture detentive per svolgere la propria attività umanitaria.

Nel caso del Kashmir, però, al Comitato Internazionale della Croce Rossa la situazione appariva talmente seria da dover informare gli americani. Il ricorso ad abusi e torture durante gli interrogatori dei detenuti - ribadisce la Croce Rossa - era stato segnalato al governo indiano da almeno dieci anni, senza che tali pratiche fossero state interrotte.

La consegna del rapporto all’ambasciata USA a Nuova Delhi, coerentemente con la retorica di un governo come quello di Washington che si proclama difensore dei diritti umani in tutto il pianeta, nelle intenzioni della Croce Rossa doveva verosimilmente spingere le autorità americane a denunciare pubblicamente gli abusi, ma il rapporto sul Kashmir è caduto invece nel vuoto.

L’attività repressiva in Kashmir, nonostante tutto, appariva a metà di questo decennio relativamente attenuata rispetto agli anni Novanta del secolo scorso, quando ad esempio i militari indiani erano soliti invadere villaggi nelle ore notturne, arrestando arbitrariamente centinaia di persone. Questo giudizio della Croce Rossa, in ogni caso, deve tener conto del fatto che non le fu mai concesso di visitare il cosiddetto “Cargo Building”, cioè il più famigerato carcere del Kashmir, situato nella capitale dello stato, Srinagar.

Il divieto imposto dalle autorità centrali indiane faceva parte di una strategia mirata a restringere le attività della Croce Rossa stessa, secondo la quale “il Ministero dei Affari Esteri si era lamentato della presenza del Comitato Internazionale della Croce Rossa a Srinagar”, chiedendo “la conclusione delle sue operazioni e mettendo in guardia da contatti non autorizzati con elementi separatisti”.

L’assenso alla repressione in Kashmir anche da parte della politica locale è confermato da un secondo cablo reso noto da Wikileaks e datato 2007. In esso, l’ambasciata americana riferiva a Washington di un deputato del Parlamento del Jammu e Kashmir, Usman Abdul Majid, definito il leader di una milizia filo-indiana, “nota per l’impiego di metodi di tortura, uccisioni extra-giudiziali, stupri ed estorsioni ai danni di civili sospettati di proteggere o assistere terroristi”.

Se anche a Washington si era ben consapevoli delle gravissime violazioni dei diritti umani in Kashmir, nulla è stato fatto per richiamare il governo indiano. Anzi, dagli Stati Uniti si è continuato ad esaltare pubblicamente le solide fondamenta democratiche dell’India, anche per questo un naturale alleato degli Stati Uniti in Asia. L’amministrazione Bush, addirittura, nel 2008 premiò Nuova Delhi con la stipula di un accordo del tutto eccezionale per l’accesso al nucleare civile, nonostante l’India non avesse mai ratificato il Trattato di Non Proliferazione.

Allo stesso modo, Barack Obama ha recentemente ribadito l’importanza strategica della partnership indo-americana. Nel corso della sua visita lo scorso novembre, il presidente democratico ha anche appoggiato pubblicamente l’assegnazione all’India di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mentre ha accuratamente tralasciato qualsiasi riferimento alla situazione in Kashmir.

Le rivelazioni di Wikileaks rendono così ancora una volta giustizia di una diplomazia americana interamente contraddistinta dalla doppiezza e dall’ipocrisia, indipendentemente dal partito e dal presidente al potere. Se condanne esplicite per la violazione dei diritti umani vengono emesse di frequente dal Dipartimento di Stato e dalla Casa Bianca - cui fa seguito una puntuale campagna mediatica - esse sono rigorosamente risparmiate ai paesi alleati.

La difesa dei diritti umani nel mondo da parte degli USA è del tutto subordinata alla difesa dei propri interessi strategici, come dimostra la questione del Kashmir. L’India risulta infatti sempre più un partner fondamentale per il contenimento dell’espansionismo cinese nel continente asiatico.

I documenti appena diffusi sul Kashmir dal sito fondato da Julian Assange, infine, non hanno sollevato particolari polemiche sui media indiani, né reazioni troppo spazientite nel mondo politico. Le autorità locali si sono più che altro rimbalzate le responsabilità per abusi che continueranno a rimanere impuniti.

L’attuale partito al governo nella regione ha accusato per le torture commesse nel recente passato l’opposizione. Quest’ultima ha ribadito a sua volta di non volere accettare lezioni sui diritti umani. Non più tardi dell’estate scorsa, d’altra parte, le forze di sicurezza hanno represso nel sangue le dimostrazioni spontanee degli abitanti del Kashmir, scoppiate in seguito all’assassinio di un ragazzo da parte della polizia indiana, provocando oltre un centinaio di morti.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy