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di Carlo Benedetti
MOSCA. Personaggio manzoniano, simile all’Innominato. E’ una delle figure più complesse ed anche tragicamente più interessanti nell’arena post-sovietica. Viene presentato dai suoi nemici come uomo malvagio: più che ripugnanza, incute rispetto e timore. E’ descritto come un despota che s’ispira all’Urss; neri i pochi capelli che gli restano segnati dal riporto; faccia tirata; a prima vista, gli si possono dare circa sessant'anni, ma il contegno, le mosse, la durezza risentita dei lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicano una forza di corpo e d'animo.
Da un punto di vista psicologico, con gli occhi che riflettono molta diffidenza e poca meraviglia, appare subito come una figura misteriosa: temperamento volitivo da vero campagnolo, Innominato fin dall'adolescenza, con l'ansia di esser superiore a tutti d'ardore e di costanza; le parole e le frasi che ne ritraggono l'esistenza hanno tutte una forza e un colorito fantastico particolare. Ha parecchi uomini di fiducia, grazie ai quali tutti i potenti locali sono costretti a scendere a patti con lui.
E lui è il (rieletto) Presidente della Repubblica Belarus, Aleksandr Grigor'evich Lukashenko, sposato (due figli Viktor e Dmitrij), nato il 30 agosto del 1954 nel villaggio di Kopyc’, provincia di Orsha, nella regione di Vitebsk (quella che diede i natali a Chagall...). Cresciuto ed educato senza il padre, fin dall’adolescenza ha dovuto portare sulle proprie spalle una parte significativa nella cura della famiglia.
Due lauree: nel 1975 presso l’Università Statale di Mogilev “A.A. Kuleshova” e nel 1985 presso l’Accademia Bielorussa di Agricoltura. Storico ed Economista. Negli anni 1975-77 e dopo nel 1980-82 ha svolto il servizio militare nelle guardie di frontiera (Kgb) e nell’esercito sovietico. Nel 1978-79 e dopo il 1982 lavora in vari organismi, quindi entra nella sfera dell'attività economica occupando varie posizioni in imprese dell’industria dei materiali da costruzione e del complesso agro-industriale della Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia.
Nel 1990 diviene deputato e viene eletto al Soviet Supremo della Repubblica. L’incarico di Presidente della Commissione del Soviet Supremo per la lotta alla corruzione, svolto in maniera autorevole dall’aprile 1993 al luglio 1994 lo rende noto al grande pubblico. Il 10 luglio 1994, dopo una dura battaglia elettorale con altri 5 candidati rappresentanti di tutto lo spettro delle forze politiche del Paese, è eletto Presidente della Repubblica con oltre l’80% dei voti.
Il suo obiettivo - stando a pubbliche dichiarazioni - consisterà nel dare forma al nuovo Stato nazionale, a riorganizzare e riformare gli elementi fondamentali che caratterizzano un moderno stato democratico e, infine, affrontare i vari problemi socio-economici del paese. E’ poi noto che con i referendum del 1995 e del 1996 è stata approvata la Costituzione, si sono decisi i problemi linguistici (con l’introduzione di due lingue statali: il russo e il bielorusso), sono stati ratificati i simboli statali (viene introdotta l’attuale bandiera rosso-verde con la decorazione verticale sul lato sinistro, riprendendo quindi, la bandiera dei tempi della repubblica sovietica, e viene introdotto l’attuale stemma della Repubblica), è stato poi dato un inequivocabile parere favorevole all’unione con la Russia.
Il 7 settembre del 2001, al primo turno delle elezioni presidenziali, Lukashenko è rieletto per la seconda volta Presidente della Repubblica con il 75.65% dei voti. Andando ad occupare, ancora una volta, gli incarichi di “Comandante Supremo delle Forze Armate della Repubblica Belarus”, di presidente del "Consiglio di Difesa della Repubblica Belarus", e del “Consiglio Statale Supremo dell’Unione degli Stati di Belarus e Russia". E, di elezione in elezione, si è ritrovato ancora una volta a comandare sull’intero paese.
Si caratterizza con una gestione personale ed autoritaria. Reprime il dissenso e non lascia spazio agli oppositori politici. Segue una politica “sovietica” e si caratterizza per un nazionalismo sfrenato. Mostra evidente l’orgoglio di una nazione che durante gli anni dell’Unione Sovietica veniva coniderata come una filiale di Mosca. Ed oggi - tra scontri ed aperte contestazioni - ottiene l’investitura ufficiale, pur se gli ambasciatori dei paesi accreditati a Minsk non assistono alla cerimonia e lasciano il Paese in segno di protesta contro le repressioni.
Ed è boicottaggio anche da parte dell'ambasciatore Usa, che non è presente all’investitura e sceglie una visita di piacere in una città della Bielorussia occidentale. Mentre la Russia mostra un basso profilo mandando solo il suo ambasciatore Aleksandr Surikov ad ossequiare il nuovo presidente.
Ora agli osservatori diplomatici non resta che tirare le somme di questa partita geopolitica che si gioca nel cuore di una Europa dove vige il dogma del potere assoluto. E mentre le orchestre del sistema suonano le fanfare che annunciano l’insediamento nel tavolo della presidenza bielorussa si accumulano i dossier negativi.
Dal Parlamento Europeo arriva infatti una risoluzione che esorta all’immediata introduzione di sanzioni contro i massimi dirigenti di Minsk. Al Consiglio d’Europa si raccomanda, in particolare, di negare il visto d’ingresso e congelare gli averi dei massimi dirigenti bielorussi nei paesi comunitari. Ciò riguarda funzionari, collaboratori degli organi giudiziari e degli organi di pubblica sicurezza che, secondo l’Ue, portano la responsabilità per la falsificazione dei risultati delle elezioni presidenziali di dicembre nonché per le repressioni nei confronti dell’opposizione.
Mosca, in tale contesto, si trova ad operare in una zona incerta e pericolosa: cerca di attenuare i vari aspetti della crisi. Come sempre punta a non isolare un paese che, tutto sommato, è amico e vicino al Cremlino. Di conseguenza la direzione russa risparmia alla Bielorussia l'isolamento internazionale: con Putin che torna a far sapere che concederà ai "cugini" bielorussi sussidi per il settore petrolifero per 4,124 miliardi di dollari e con Medvedev che ribadisce che per la Russia la Bielorussia è sempre uno dei paesi più vicini, culturalmente e storicamente, chiunque sia alla sua guida.
In questo quadro generale Lukashenko avvia la sua nuova era presidenziale rifacendosi alla procedura del “silenzio-assenso”. Si rivela sempre più come un personaggio dinamico, un Innominato che non mostra paura: cambia pelle, passa da una sponda all’altra. E all’opposizione, che viene regolarmente repressa, non resta che fare il bilancio con i suoi tre candidati - Sannikov, Statkevic, Kostusev - arrestati. Mentre si parla già del possibile scioglimento di alcune strutture politiche e mediatiche - “Combattenti per i diritti e la liberta” e “Carta ’97” - ostili alla presidenza attuale.
Gli Usa, intanto, continuano la loro guerra diplomatica e mediatica contro il potere di Minsk. Il Dipartimento di Stato definisce Lukashenko “l’ultimo dittatore d’Europa” collocando la Bielorussia tra gli “avamposti della tirannia”. Per il portavoce della Casa Bianca, Scott McClellan, il voto bielorusso è segnato da “un clima di paura”. Duro anche il giudizio dell’Ocse, che per bocca del presidente della sua Assemblea parlamentare, Alcee L. Hastings, definisce ufficialmente la consultazione bielorussa “non in linea con i criteri internazionali richiesti per elezioni libere e giuste”. E su tutto questo c’è sempre quella Condoleeza Rice che definì la Bielorussia di Lukashenko un “avamposto di tirannia”.
Dal canto suo il ministro degli Esteri austriaco Ursula Plassnik a nome della Presidenza europea ha parlato di “clima di intimidazione”. E il commissario alle Relazioni estere della stessa Unione Europea, Benita Ferrero-Waldner, annuncia sanzioni, pur rassicurando che non s’intende “fare del male al popolo bielorusso”.
Intanto lui, l’Innominato di Minsk, vive i giorni del trionfo. Ottenuti mettendo a ferro e fuoco gli oppositori e una parte dell’intellighentsia. Punta a farsi forte con i suoi contadini ed operai che vedono in lui il continuatore di una politica di stabilità tipica degli anni della “stagnazione” brezneviana e sempre segnata da comportamenti pomposi, ottusi ed arroganti.
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di Michele Paris
Nonostante gli onori della visita di stato riservati al presidente cinese Hu Jintao e le amichevoli dichiarazioni di circostanza, il summit di Washington tra i vertici delle due principali potenze economiche del pianeta poco o nulla ha fatto per risolvere le tensioni e i nodi irrisolti nei loro rapporti. E non poteva essere diversamente, viste le provocazioni americane degli ultimi mesi nei confronti di Pechino e i crescenti conflitti tra i rispettivi interessi che stanno accompagnando l’inesorabile avanzata dell’influenza cinese su scala planetaria e il conseguente declino degli Stati Uniti.
A fissare gli argomenti dell’ottavo faccia a faccia in due anni tra il presidente americano e Hu Jintao erano state, nei giorni precedenti, una serie di dichiarazioni minacciose da parte dei tre più influenti membri dell’amministrazione Obama. Nel suo tour in estremo oriente il numero uno del Pentagono, Robert Gates, poco prima di visitare proprio il leader cinese aveva avvertito come gli USA siano intenzionati a contrastare il rafforzamento militare di Pechino nell’Oceano Pacifico incrementando a loro volta gli investimenti in questo ambito.
Alla questioni del confronto militare e del sovrapporsi delle sfere di influenza nel Pacifico hanno fatto seguito poi quelle legate all’economia e ai diritti umani. Il Segretario al Tesoro, Tim Geithner, ha così ribadito il ritornello della necessità del rafforzamento della moneta cinese, il renminbi, per favorire le esportazioni americane, mentre dal Dipartimento di Stato, Hillary Clinton ha criticato apertamente la Cina per il trattamento del dissidente e recente premio Nobel per la Pace - nonché fermo sostenitore di una totale apertura al libero mercato del proprio paese - Liu Xiaobo.
Su questi e altri temi simili è quindi consistito l’incontro che il consigliere per la sicurezza nazionale dell’ex Presidente Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, ha definito come il più importante per le due potenze dal 1978, quando Deng Xiaoping fece visita proprio all’allora presidente democratico. Se le aspettative erano molte, i risultati sono stati però decisamente modesti. Le richieste di Obama ad un Hu Jintao che si appresta entro poco più di un anno a passare il testimone all’interno del Partito Comunista Cinese, pare abbiano strappato almeno qualche promessa, almeno a parole, sul fronte del rispetto della proprietà intellettuale dei prodotti tecnologici e dell’apertura del mercato cinese alle aziende americane.
Nel consueto clima cordiale della conferenza stampa che mercoledì ha seguito l’incontro ufficiale tra i due presidenti, tuttavia, si sono intravisti alcuni dei punti di scontro che rimangono difficilmente superabili. Tra di essi spiccano la contesa attorno alla Corea del Nord e al riassestamento degli equilibri di potere in Asia orientale, il nucleare iraniano, il Tibet, i rapporti con Taiwan e le già accennate questioni riguardanti il commercio e l’economia che interessano soprattutto le corporation americane.
Se la stampa istituzionale d’oltreoceano in questi giorni ha ripetutamente insistito nel dipingere la Cina come un crescente pericolo, per gli USA e per l’intero occidente “democratico”, a causa del suo comportamento teso a destabilizzare l’ordine mondiale, è in realtà da Washington che sono giunte le provocazioni che in questi mesi hanno inasprito le divergenze tra i due paesi.
Ad esempio, l’aggressività dell’amministrazione democratica in estremo oriente si è manifestata esemplarmente nel conflitto sfiorato con la Corea del Nord. L’affondamento di una nave da guerra sud-coreana nel marzo 2010 e il più recente bombardamento da parte di Pyongyang di un’isola appartenente al vicino meridionale sono stati sfruttati senza scrupoli dagli Stati Uniti.
Le ostilità tra le due Coree hanno rischiato di trasformarsi in guerra aperta dopo che Washington ha condotto una serie di provocatorie esercitazioni militari in acque contese. Allo stesso modo questi stessi episodi hanno spinto gli Stati Uniti a promuovere una storica collaborazione militare tra la Corea del Sud e il Giappone. Il tutto con l’intenzione di accerchiare la Cina e cercare di limitarne la sfera d’influenza in un’area ovviamente vitale per i suoi interessi strategici.
Parallelamente, l’ipocrisia americana è apparsa evidente anche nell’insistente campagna orchestrata sui media occidentali per spingere Pechino a far lievitare il valore della propria moneta. Secondo il Tesoro USA le pratiche manipolative della Cina terrebbero artificialmente basso il cambio del renminbi, dando al suo export un vantaggio sleale. La pretesa degli Stati Uniti tuttavia tralascia di ricordare come la politica della Fed dopo la crisi del 2008 sia stata indirizzata precisamente alla svalutazione del dollaro, come confermano le più o meno sommesse critiche lanciate da quegli alleati-competitori le cui economie si basano sulle esportazioni, come Germania e Giappone.
Anche gli stessi richiami a un’apertura democratica e al rispetto dei diritti umani suonano vuoti. A molti in occidente, tra cui i giornalisti americani che alla Casa Bianca hanno incalzato Hu Jintao sulla continua repressione dei diritti civili in Cina, sfugge infatti come questa amministrazione sia responsabile di comportamenti anti-democratici, per non dire criminali, come l’uccisione di centinaia di civili innocenti in Afghanistan, Pakistan e Yemen, la detenzione indefinita di presunti terroristi senza prove né processo, l’approvazione di metodi di tortura negli interrogatori e delle cosiddette “extraordinary renditions” o l’espansione di programmi domestici di sorveglianza destinati al controllo dei cittadini e delle loro attività.
I frutti maggiori nelle relazioni sino-americane si sono visti piuttosto nell’ambito degli affari. Per quanti timori gli Stati Uniti possano nutrire nei confronti del gigante asiatico, quest’ultimo rappresenta pur sempre un mercato potenzialmente enorme per le aziende americane. Tanto più che la bilancia commerciale risulta ancora sbilanciata a favore della Cina per un totale annuo di qualcosa come 275 miliardi di dollari.
Prima di recarsi a Chicago per incontrare una delegazione di imprenditori cinesi attivi in territorio americano, Hu Jintao e il suo seguito hanno siglato contratti di fornitura per il valore di 45 miliardi di dollari. A beneficiarne saranno colossi come Caterpillar, Honeywell, Westinghouse Electric e, soprattutto, Boeing, la quale grazie alla mediazione dell’amministrazione Obama ha ottenuto una commessa di 19 miliardi per la realizzazione di duecento velivoli da consegnare alla Cina tra il 2011 e il 2013.
Sul fronte dei rapporti diplomatici, in definitiva, i sia pure modesti progressi proclamati da quasi tutti i giornali americani sono stati pressoché inesistenti. Nel prossimo futuro, anzi, la tensione rischia di aumentare ulteriormente, come dimostra il provvedimento presentato da alcuni senatori democratici e repubblicani in occasione della visita di Hu Jintao e che prevede tariffe doganali punitive per quei paesi accusati di manipolare la propria valuta.
Con una Cina ben decisa a proseguire un percorso di crescita impetuoso, che l’ha già proiettata al secondo posto tra le potenze economiche del pianeta, pronta a giocare un ruolo di primo piano nelle questioni internazionali, e un’America determinata all’impiego della propria superiorità militare per difendere uno status declinante nello scacchiere mondiale, un’ulteriore escalation della rivalità tra Washington e Pechino è tutt’altro che da escludere. E a frenarla, di certo, non saranno i pur buoni rapporti personali che Obama e Hu Jintao hanno mostrato di aver stabilito in questi due anni.
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di Michele Paris
Nel corso delle festività appena trascorse, Barack Obama ha provveduto a rimpiazzare alcuni esponenti di spicco della sua amministrazione che hanno lasciato la Casa Bianca dopo i primi due logoranti anni del mandato presidenziale. Come già si era intravisto nelle ultime settimane del 2010, anche nell’assegnazione dei nuovi incarichi Obama ha confermato il pericoloso spostamento a destra che prenderà la sua azione politica nei mesi a venire. Una svolta annunciata che prefigura ulteriori benefici per i grandi interessi economico-finanziari americani, mentre nuovi sacrifici attendono i ceti più disagiati, poco o per nulla sollevati dalle difficoltà di una crisi tuttora in corso.
La posizione più importante da coprire era senza dubbio quella del capo di gabinetto (“chief of staff”), resa vacante dall’addio dell’ex leader di maggioranza alla Camera, Rahm Emanuel, dimessosi lo scorso ottobre per correre alla carica di sindaco di Chicago. In un intreccio tra i prodotti della macchina politica democratica della metropoli dell’Illinois, Emanuel sarà sostituito da William Daley, fratello del sindaco uscente della stessa Chicago dopo ben sei mandati. Negli ultimi tre mesi, le mansioni di Emanuel erano state svolte da un capo di gabinetto ad interim, Pete Rouse, uno dei più stretti collaboratori di Obama.
Milionario e uomo d’affari, Daley personifica alla perfezione la simbiosi esistente tra l’America dei poteri forti e gli ambienti politici di Washington. Negli anni Novanta, come molti altri veterani democratici riciclati da Obama, Daley ha lavorato per l’amministrazione Clinton con l’incarico di consigliere speciale del presidente. In tale veste ha contribuito in maniera decisiva alle negoziazioni e all’approvazione del famigerato trattato di libero scambio nordamericano (NAFTA) tra Stati Uniti, Canada e Messico, per essere poi promosso segretario al Commercio.
Con il cambio della guardia alla Casa Bianca a inizio secolo, “Bill” Daley ha seguito poi le orme di una schiera di politici democratici e repubblicani che hanno sfruttato l’esperienza e i contatti ad alto livello stabiliti nella capitale per intraprendere una ben più redditizia carriera nel settore privato. Nel mondo degli affari, il neo “chief of staff” di Obama ha debuttato nel settore delle telecomunicazioni per approdare poco più tardi ad una delle più grandi banche d’investimento americane, JPMorgan. Per il colosso finanziario di Wall Street, fino al 2007 Daley ha gestito le operazioni nel Midwest, prima di passare al cosiddetto Ufficio per la Responsabilità Sociale d’Impresa, in realtà nient’altro che la sezione incaricata di gestire le attività di lobby a Washington.
Proprio in questa veste, il prossimo braccio destro del presidente si è adoperato per ostacolare la riforma finanziaria approvata lo scorso anno dal Congresso, opponendosi strenuamente anche alla creazione di una commissione per la protezione degli investitori. Le sue connessioni a Washington gli hanno permesso di mantenere rapporti continui non solo con i legislatori, ma anche con quello che sarebbe diventato il suo predecessore, Rahm Emanuel, e con una delle più influenti voci all’interno dell’amministrazione Obama, la consigliera Valerie Jarrett. Per i suoi servizi a JPMorgan, nonostante la mancanza di cifre ufficiali, pare sia stato pagato tra i 3 e i 5 milioni di dollari l’anno, mentre ora dovrà accontentarsi dei 170 mila dollari previsti per la carica di capo di gabinetto.
Il primo evidente conflitto d’interessi che riguarda l’imminente nuova pagina della carriera di William Daley avrà dunque a che fare con il suo ruolo nella stesura delle regolamentazioni definitive all’interno della riforma del sistema finanziario. La sua presenza nel consiglio di amministrazione di almeno altre due corporation con in gioco interessi miliardari a Washington - Boeing e il gigante farmaceutico Abbott Laboratories - rendono poi ancora più discutibile la scelta di Obama.
Difficile ad esempio pensare che l’opinione tutt’altro che disinteressata di Daley possa risultare ininfluente sull’assegnazione di un colossale appalto di fornitura di aerocisterne all’aviazione USA, per il quale sono in corsa Boeing e l’europea EADS. Oppure, sull’eventuale applicazione di una tassa a carico dei produttori di equipaggiamenti medici prevista dalla riforma sanitaria e che potrebbe costare ad Abbott Laboratories qualcosa come venti miliardi di dollari nel prossimo decennio.
La nomina di William Daley è stata accolta ovviamente con grande piacere dalle associazioni imprenditoriali statunitensi. L’ennesimo segnale di sottomissione al business a stelle e strisce lanciato da Obama ha fatto seguito ad altre iniziative dettate dalla sconfitta democratica nelle elezioni di medio termine, come il prolungamento dei tagli alle tasse volute un decennio fa da George W. Bush per i redditi più alti e il solenne incontro del presidente con i venti principali leader delle corporation americane a Washington lo scorso mese di dicembre.
Il presunto disgelo con i poteri forti di un’amministrazione che nei primi due anni non ha in realtà fatto altro che perseguire una politica pressoché esclusivamente “business-friendly”, sarebbe così il rimedio necessario ad un atteggiamento troppo “liberal” da parte della Casa Bianca e della maggioranza democratica al Congresso. Come aveva dichiarato alla stampa lo stesso Daley dopo il tracollo elettorale dell’autunno scorso, i democratici sono stati puniti perché hanno erroneamente visto uno spostamento a sinistra dell’elettorato americano. Nel 2008, a suo dire, il voto per il cambiamento avrebbe indicato piuttosto un movimento verso il “centro-sinistra” dopo otto anni di presidenza Bush.
Queste posizioni di esponenti democratici definiti generalmente “liberal” dalla stampa istituzionale indicano a sufficienza lo spostamento a destra del quadro politico d’oltreoceano negli ultimi anni. La propagandata necessità di politiche moderate e l’approvazione incondizionata di soluzioni legislative bipartisan da parte dell’intellighenzia pseudo-progressista e degli stessi politici ritenuti di “sinistra” nasconde a malapena un sostegno diffuso, se non un aperto incoraggiamento, per nuove iniziative pro-business. Il tutto, immancabilmente, accompagnato da tagli alla spesa pubblica per contenere il deficit e da un’ulteriore compressione dei diritti del lavoro per aumentare la competitività delle aziende.
Nelle prossime settimane, infine, Obama dovrà sostituire altri pezzi importanti del suo staff, come il vice-capo di gabinetto Jim Messina e il portavoce Robert Gibbs. Scelto invece il successore del discusso Larry Summers, già segretario al Tesoro di Bill Clinton e ormai ex direttore del Consiglio Economico Nazionale (NEC), destinato a tornare alla carriera accademica ad Harvard. A capo dell’organo esecutivo incaricato di coordinare la politica economica e fiscale arriverà al suo posto Gene Sperling, anch’egli con un curriculum appropriato alla svolta decisa dalla Casa Bianca.
Ex consulente di Goldman Sachs e fino a pochi giorni fa consigliere del segretario al Tesoro Tim Geithner, Sperling ha appena svolto un ruolo decisivo nell’accordo con i repubblicani per il prolungamento dei tagli alle tasse. Come se non bastasse, negli anni Novanta, già alla guida del NEC nell’amministrazione Clinton, fu anche protagonista e promotore dello smantellamento delle regolamentazioni del settore finanziario risalenti al New Deal che ha condotto sull’orlo del collasso l’intero sistema poco più di due anni fa.
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di Giuliano Luongo
Ad ormai più di due settimane dall’attentato di Alessandria ed ancora memori del più recente attentato ai danni di alcuni copti a bordo di un treno, la questione dei cristiani d’Egitto pare aver ripreso il posto che da sempre i media internazionali le concedono: uno spazioso loft nel dimenticatoio. Probabilmente il silenzio stampa si protrarrà fino ai prossimi due “eventi” legati al caso, ossia la riunione a livello europeo dei Ministri degli Esteri, per decidere se e come implementare le ideone di Frattini e Sarkò su come organizzare le nuove crociate e soprattutto il prossimo vis-à-vis tra Berlusconi e Hosni Mubarak.
Uno dei problemi principali del come sia stata affrontata tale situazione dall’Occidente è proprio il punto di vista miope e limitato solo ad un eventuale problema che potrebbe colpire anche gli europei, quello della responsabilità di Al Qaida (per nulla confermata, anzi). L’attentato di Alessandria ha suscitato con tutta probabilità forti reazioni solo perché inquadrato nella “guerra al terrorismo” dai sempre più labili confini e nella serie di attacchi ai cristiani organizzati in varie parti del mondo da gruppi fondamentalisti islamici.
Quello che non è stato minimamente toccato o ricordato è il fatto che un tale attentato rientra in uno schema ben preciso di atti di violenza effettuati ai danni dei copti per indebolirne la comunità: questo avviene da tempo immemore, ma accade con forza rinnovata proprio da quando è iniziata la presidenza Mubarak, che pure ha avuto forti basi giuridiche ed istituzionali per contribuire a creare una situazione di grave discriminazione.
Ma quali sono i punti chiave dell’istituzionalizzazione della religione come punto di riferimento per cittadini ed enti statali? Tutto iniziò con la legge 462 del 1955, che portava all’abolizione delle corti confessionali e conformava la legge sullo statuto personale alla legge islamica. Tale legge riconosce ufficialmente tre religioni, islam, cristianesimo (diviso in tre riti, a loro volta classificati in tre sette) ed ebraismo; tutte le religioni (o riti o sette) che non sono incluse in quest'elenco non hanno alcun riconoscimento, e sono previste conseguenze legali per chi dovesse seguire un culto “non autorizzato”.
Se si pensava che uno Stato presente per molto tempo nell’orbita dell’Unione Sovietica fosse lontano da gravi derive religiose, ci si sbagliava alla grande: la modifica del 22 maggio 1980 all’art. 2 della costituzione pone la Shari'a come “fonte principale della legislazione”. Tradotto in fatti, ciò significa che la legge di origine parlamentare viene abolita nel caso dovesse trovarsi in contraddizione con l'islam.
Non va dimenticato che la Shari'a è una legge personale, non territoriale, pertanto renderla territoriale significa considerare il territorio a tutti gli effetti islamico. Questa modifica alla Costituzione ribalta completamente la dimensione della cittadinanza dei non-musulmani ed ha infiniti effetti sulla legislazione, che ora deve aggiornare di volta in volta le normative in contraddizione con l’articolo 2. Numerosi sono i casi che ancora chiedono una sentenza definitiva presso l'Alta Corte costituzionale circa l’articolo 2 o l’art. 46 sulla libertà religiosa, casi di reati considerati come gravi, tipo apostasia o omosessualità.
Sì, l’apostasia, ossia il “rinnegare” la religione islamica per un’altra (una qualsiasi, da quelle “autorizzate” come il Cristianesimo e fino al Voodoo) è considerato atto illegale. Essa viene punita come reato dalla Corte di Cassazione sulla base della legge generale, come reato contro l'ordine pubblico e in base al famigerato articolo 2 di cui sopra. Per intensificare il peggioramento della situazione, una sentenza del gennaio 2008 ha interpretato il diritto alla libertà religiosa come inapplicabile per i cittadini che abbandonano l'Islam, un’antinomia che conferma il cretinismo giuridico fazioso di chi sta agli scranni di governo.
Se, dunque, da una parte è impossibile abbandonare l'Islam, abbracciarlo è estremamente facile, con la conversione che ha effetto immediato. In più, i figli di coppie miste devono seguire “la religione migliore dei genitori” affermando la superiorità dell'islam sulle altre confessioni. Questo vale anche in caso di conversione: i figli seguono la religione del genitore convertito all'Islam, senza ulteriori fronzoli superflui, come il lasciare libera scelta sul tema.
Ma le meraviglie del sistema non finiscono qui: esiste un gruppo di avvocati e giudici, noto come “shaykh al-takfir” (takfir = accusa di apostasia) o “gruppo della hisba”, con l’abitudine del ricorso alla via legale della hisba, una sorta di azione popolare volta alla difesa dell'islam. E' grazie al tale istituto che, ad esempio, sono coinvolti i tribunali affinché applichino gli effetti civili dell'apostasia.
Negli ultimi anni è evidente un trend di statalizzazione di numerose istituzioni musulmane, tra cui Al-Azhar, noto centro religioso dell’Islam sunnita. Il gran Muftì viene nominato dal governo e le più alte cariche musulmane vengono inglobate a tutti gli effetti nell’organico dei funzionari di stato, portando di fatto l’ordinamento amministrativo e di governo ad uno specchio di quello della linea di comando della comunità religiosa islamica. Tutto questo stupisce meno, se si pensa che per legge il capo dello stato dev’essere di fede islamica. A margine, si deve ricordare che al governo - come agli alti livelli della pubblica amministrazione - non c’è alcun copto.
Va poi rammentata una nota sulla cittadinanza: nel 2007, durante un progetto di revisione costituzionale, Rif’at al-Sa’id, segretario generale dello Hizb al-tagammu’ (partito di opposizione di sinistra) propose di ridefinire la voce “cittadinanza” presente nella Costituzione con l'inciso “totale uguaglianza tra i cittadini a prescindere da sesso, religione o provenienza sociale”. Cosa successe? Che la proposta fu respinta clamorosamente.
Queste sono solo alcune note sul come l’intellighenzia egiziana lasci funzionare il paese, mandando allo sbando i copti e le altre minoranze, fomentando gli integralismi e lasciando atterrita la stragrande maggioranza della popolazione, vicina ai propri fratelli di credo diverso ma incapace di opporsi ai subdoli eccessi di una leadership accentratrice.
A rendere ancora più ridicola la situazione, c’è il fatto che non solo l’Egitto è dietro solo ad Israele per finanziamenti dagli USA per “promuovere sviluppo e democratizzazione”, ma è anche legato alla nostra cara UE con un accordo programmatico del 2005, nel quale si parla non solo di cooperazione economica, ma anche di partnership per la promozione dello stato di diritto e della democrazia. Senza contare il vincolo attivo e passivo in termini di “law enforcement”, che, come visto dopo gli attentati alle minoranze - e gli attacchi di squali - é fuffa.
I nostri cari ministri, pertanto, dovrebbero decidersi, una volta incontratisi sia a Bruxelles che con Mubarak, a forzare per una buona volta verso una vera legittimazione dello Stato secondo il principio di cittadinanza e non lasciare correre il tutto verso un baratro di delirio autocratico dietro la facciata della legittimazione religiosa.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. L’hanno ucciso di notte a colpi di coltello, lasciandolo nella neve del periferico parco moscovita di Ostankino, tra il boschetto di betulle e il lago della villa dei conti Sceremetiev. Una zona tranquilla, dominata dall’enorme complesso degli studi tv. Roman Nikiforov (25 anni), ha concluso così la bella carriera di giornalista. Era andato a lavorare negli studi televisivi per montare un servizio della sua società di produzione - la “Red Media” una delle più grandi della Russia - così come faceva regolarmente ogni giorno. Al momento le indagini si limitano alla ricostruzione della dinamica del delitto. Non si hanno notizie di testimoni e la polizia - come dichiara la portavoce dei servizi di sicurezza, Viktorja Zyplenkova - mantiene un assoluto riserbo.
Si fanno comunque varie ipotesi. Tra queste c’é il fatto che il gruppo privato “Red Media” in questi ultimi tempi, estendendo notevolmente il raggio delle sue attività (“Interesnoje tv”, “Kuknia tv”, “Tv boulevard”, “355dnej tv”, “Avtoplus tv”, “India tv”, “Komedja tv”), è divenuta una holding capace di monopolizzare l’arco televisivo della Russia. La compagnia, infatti, è specializzata nella creazione e vendita di format di “basso” contenuto per televisioni satellitari e via cavo. All'attivo dell'azienda finora ci sono tredici progetti che vanno dai canali specializzati in cinema indiano alla creazione del primo canale erotico russo. Entrano quindi in gioco anche questioni di pubblicità e di concorrenza diretta con le reti pubbliche.
Un fatto è comunque certo: nella capitale russa la professione di giornalista sta divenendo sempre più rischiosa. E non è un caso se la memoria collettiva torna all’uccisione di Anna Politovskaja e a tutte le relazioni politiche connesse a quel caso, tra l’altro segnato ancora da tinte nere. Si può quindi dire che giornalisti e informazione sono veramente al livello di guardia.
E proprio un fatto dei giorni scorsi aveva contribuito ad alzare l’allarme. Quando cioè un corrispondente russo del quotidiano Kommersant (un quotidiano che non teme di riferire sulle lotte di potere al Cremlino) era stato aggredito da alcuni sconosciuti, bastonato a sangue e mandato in ospedale. Il giornalista - Oleg Kashin - a quanto sembra si era occupato di alcune manifestazioni svoltesi a Mosca e tutte di segno contrario a Putin.
Commentando l’avvenuto il direttore del Kommersant, Michail Michailin, non aveva avuto dubbi nel sostenere che “gli aggressori non amano quello che si dice e si scrive”. Tra l’altro Kashin si era occupato anche di una nota vicenda relativa ad interessi economici legati ad un progetto di costruzione di una arteria che dovrebbe distruggere uno dei maggiori boschi di Kimki, quello che circonda Mosca.
E c’è, sempre in merito a quest’ultima aggressione, anche il caso di Mikhail Beketov, un giornalista aggredito due anni fa, che si occupava del sistema di appalti e corruzione legati sempre alla costruzione dell’arteria. A lungo in coma, ora vive da invalido su una carrozzella: citato in giudizio per diffamazione dal sindaco di Kimki, Beketov è stato condannato a una multa di 5mila rubli.
Intanto in tutta la Russia si segnalano manifestazioni di protesta e conferenze sul tema della libertà di stampa. Il Cremlino di Putin e Medvedev, in un certo senso, si sente assediato da questa campagna che va assumendo sempre più un carattere politico e sociale. E così nella capitale si comincia a scendere in piazza nonostante l’ondata di freddo che non accenna a diminuire.
Un gruppo di giornalisti e blogger si sono radunati davanti al quartier generale della polizia dando vita a una manifestazione spontanea nata da un tam-tam per chiedere che sia condotta un'accurata inchiesta per trovare esecutori e mandanti dell’uccisione del redattore di “Red media” e dell’aggressione del giornalista di “Kommersant”.
Nascono intanto le statistiche di questa escalation del terrore contro la stampa. Risulta che sono almeno 35 i giornalisti assassinati tra il 2000 e il 2009 e l'International Press Institute mette il Paese al quinto posto tra i più pericolosi per i giornalisti, dopo Iraq, Filippine, Colombia e Messico. Si può proprio dire che in Russia la stampa si sta tingendo sempre più di giallo. E di rosso sangue.