- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emanuela Pessina
BERLINO. Sulla scia di Svezia, Olanda e Belgio, ora anche l'Austria sembra cercare riparo alle inefficienze della politica quotidiana nelle illusioni sventolate dai populisti di estrema destra. I risultati delle regionali di Vienna 2010 sono andati a confermare la direzione già segnata dalle legislative d'Austria 2008, quando un austriaco su tre aveva votato per le destre radicali di Heinz-Christian Strache (FPOe) e di Joerg Haider (BZOe).
E il vero vincitore di Vienna è proprio il Partito della Libertà del nazionalista Strache, che ha conquistato il 27.2% dei voti, mettendo alla berlina i socialdemocratici del sindaco Michael Haeupl (SPOe) con quasi cinque punti percentuali in meno e il Partito Popolare (OeVP), a meno sei punti. Ma Vienna è da sempre considerata la roccaforte dei socialdemocratici austriaci: dopo lo shock, ora l'SPOe deve rimboccarsi le maniche e risolvere i suoi problemi entro il 2013, la data delle prossime elezioni, per evitare la débâcle finale.
Inaspettatamente, i Socialdemocratici viennesi si sono attestati domenica al 44.5% dei voti, registrando un calo di oltre il 5% rispetto alle elezioni del 2005 (49.1%). Ciò significa che l'SPOe ha perso la maggioranza assoluta, un traguardo quasi per scontato vista la tradizione rossa della città-Stato austriaca: se si esclude una breve parentesi tra gli anni 1996 e 2001, dal Dopoguerra a questa parte i socialdemocratici di SPOe hanno governato Vienna ininterrottamente e in maggioranza assoluta. L'attuale sindaco Haeupl, da parte sua, è in carica dal lontano 1994.
Per continuare a governare la capitale austriaca, i Socialdemocratici devono quindi cercarsi degli alleati. I Verdi di Maria Vassilakou si sono già detti disponibili a un'eventuale coalizione con SPOe e, con il 12.1% dei voti, avrebbero tutte le carte in regola. L'ipotesi più plausibile, tuttavia, resta quella di una grande coalizione con l'OeVp, il Partito popolare, su modello della grossa coalizione Spoe-Oevp del cancelliere Werner Fayamann che governa il Paese. Anche se, in realtà, i conservatori del Partito Popolare si sono rivelati gli altri grandi perdenti delle elezioni viennesi: OeVP si è attestato al 13%, perdendo il 6% degli elettori. Rispetto al 2005, l'OePV si è ridotto a un piccolo partito di provincia e, in ragione di questo, la grossa coalizione non costituisce forse la scelta migliore per i Socialdemocratici.
Ma c'è anche chi non si è mostrato affatto sorpreso dagli esiti di Vienna. Si tratta degli esponenti dell'ala più estrema della destra austriaca, che non parlano assolutamente di "svolta a destra" e interpretano i risultati in maniera molto naturale. L'FPOe sarebbe semplicemente tornato agli splendori della seconda metà degli anni Novanta, quando il Partito della Libertà, sotto la guida del carismatico Joerg Haider, morto in un incidente nell'autunno 2008, era all'apogeo del suo potere in Austria.
Heinz-Christian Strache si è dimostrato come il degno successore del carismatico Haider. Grazie alle parole del leader, conosciuto per le sue facoltà retoriche, il partito ha guadagnato oltre il 12% dei voti e si è portato all'incredibile quota totale del 27.2%, vicina ai massimi mai ottenuti nella rossa Vienna.
Nessuna sorpresa, invece, per quel che riguarda le ragioni del successo del partito di Strache. Come tutti i partiti populisti di estrema destra europei, anche l'FPOe ha costruito il suo programma politico sulle preoccupazioni degli elettori per l'integrazione dei musulmani. E così, i punti centrali del programma del Partito della Libertà sono l'emigrazione e la sicurezza: gli esponenti del partito sostengono il bisogno di restituire l'Occidente ai cristiani limitando l'emigrazione dei popoli di religione islamica.
Tanto per citarne qualcuna, l'FPO e ha lanciato qualche tempo fa un appello per la messa al bando di moschee, minareti e veli islamici e sostiene il bisogno di sanzionare i genitori che trascurino il tedesco. A quanto pare, il programma riscuote successo fra la popolazione.
E ora, fino al 2013 in Austria non si voterà più: l'unica speranza per la sinistra è che l'SPOe e i futuri alleati possano organizzare delle soluzioni ragionevoli rispetto ai problemi di una moderna società aperta all'immigrazione, così da ridimensionare la sbandata a destra delle ultime votazioni.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Alessandro Iacuelli
Chissà cosa penseranno, in Italia, i parenti delle vittime di agenti delle forze dell'ordine. Perché quanto appena avvenuto nella vicina Grecia, e non su un altro pianeta, ha il sapore di una giustizia che da noi è perennemente negata, o almeno aggirata. Il poliziotto Epaminondas Korkoneas, 39 anni, che il 6 dicembre 2008 uccise il quindicenne Alexis Grigoropulos, è stato infatti condannato all'ergastolo.
Come si ricorderà, l'uccisione di Alexis, nel 2008, provocò una fortissima ondata di disordini in patria e proteste all'estero. Subito dopo l'uccisione, causa un colpo di pistola sparato dall'agente, migliaia di persone si riversarono per le strade di Atene, scontrandosi con la polizia, danneggiando auto e appiccando fuoco ai negozi; furono giorni che saranno ricordati come i più forti disordini in Grecia degli ultimi decenni. Le proteste erano certamente anche alimentate da un vasto risentimento per le difficoltà economiche e la disoccupazione giovanile e si estesero presto ad altre città greche: durarono per settimane, contribuendo a far cadere il governo conservatore circa un anno dopo.
Oggi, il tribunale centrale della città di Amfissa, ha stabilito che Korkoneas uccise di proposito il ragazzo di quindici anni, nel distretto di Atene di Exarchia. Il secondo poliziotto a processo, Vassileos Saraltiotis di 32 anni, è stato condannato a dieci anni per complicità. L'avvocato della famiglia del ragazzo ha definito "storica" la sentenza che a suo dire onora la memoria del giovane. Mentre il legale dell'agente condannato ha annunciato ricorso in appello. Secondo il tribunale, che non ha riconosciuto le attenuanti a Korkoneas, l'agente sparò intenzionalmente con la pistola di ordinanza e il giovane non morì per un proiettile di rimbalzo, come raccontato dall'inchiesta interna della polizia avvenuta subito dopo.
Il processo è durato nove mesi, durante i quali é stato spostato da Atene alla piccola città di Amfissa, nella speranza di tenerlo lontano dai riflettori e dai media. La sentenza è stata decisa da una maggioranza di quattro giudici sui sette che componevano la commissione. Korkoneas e il suo avvocato hanno sempre sostenuto che gli spari fossero solo avvertimenti e che il ragazzo fosse stato colpito da un proiettile di rimbalzo, contraddicendo la versione di diversi testimoni che raccontavano come il poliziotto gli avesse sparato intenzionalmente.
Al processo, fondamentale è stata la perizia del medico legale che, pur confermando che il proiettive raggiunse il torace della vittima di rimbalzo, ha sostenuto che l'arma era comunque puntata ad altezza d'uomo, come affermato da alcuni testimoni, che hanno escluso provocazioni da parte di Alexis. Subito dopo l'omicidio, le autorità si erano difese affermando che l'omicidio fosse scaturito da uno scontro nato dal gruppo di ragazzi con cui si trovava Grigoropoulos. Nei giorni seguenti, un video aveva però dimostrato come i ragazzi non stessero in alcun modo attaccando la polizia.
La sentenza soddisfa i manifestanti che protestarono per l’omicidio. Uno di loro ha commentato: "Un altro poliziotto, accusato dell’assassinio di un altro ragazzo è stato rilasciato. Rilasciato benché sia un assassino. Il verdetto di oggi è dovuto alla reazione dell’opinione pubblica. Credo sia stata una decisione giusta". E soddisfa, almeno in parte, anche la famiglia: la madre della vittima fa sapere che perseguirà legalmente coloro che hanno dichiarato il falso e diffamato la memoria di suo figlio, anche durante il processo.
Di sicuro, la sentenza greca ha un carattere di "originalità", visto che negli altri Paesi, democratici e non, è decisamente raro vedere sentenze di condanna così pesanti a carico di agenti delle forze dell'ordine protagonisti di violenze spropositate, e non solo durante delle manifestazioni di protesta, dei disordini di piazza. Infatti, basta osservare i dettagli del "caso Korkoneas" e le dinamiche sia dei fatti che processuali con un occhio non superficiale e subito saltano fuori, in tutta evidenza, le pesanti analogie con il caso di Gabriele Sandri, ucciso sull'area di servizio di Badia al Pino, sull'Autosole, mentre dormicchiava in auto, e non certo mentre scatenava disordini. Anche in quel caso è stata raccontata una bella favola, quella del solito proiettile di rimbalzo. Anche in quel caso si sono viste tante bugie da parte di tante autorità per spiegare cosa è avvenuto nella testa dell'agente Spaccarotella nei minuti dell'omicidio.
Ma una profonda differenza tra i due casi c'è, e sta proprio nella sentenza. Omicido volontario, in Grecia. Invece ad Arezzo la Corte d'Assise ha derubricato il reato per cui era processato l'agente Spaccarotella, che da omicidio volontario è diventato omicio colposo, con una blanda condanna a 6 anni, nonostante le proteste sia in aula sia fuori. Così, se la famiglia Grigoropulos di Atene può pensare di aver avuto giustizia, così non può dire la famiglia Sandri di Roma. Spaccarotella, sospeso dal servizio, è comunque libero.
E se si va a memoria per un attimo, oltre a Gabriele Sandri vengono in mente Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi (per il quale si è appena aperta la prima fase del processo) e si potrebbe andare all'indietro nel tempo: da Carlo Giuliani a Giorgiana Masi, da Francesco Lorusso a Pietro Bruno; sarebbe lunga e dolorosa la lista di chi ha pagato con la vita l’impunità delle forze dell’ordine. I loro assassini, sono liberi; in qualche caso hanno avuto avanzamenti di carriera invece di condanne.
Tutti processi finiti o con un nulla di fatto, assoluzioni, prescrizioni, con condanne troppo blande rispetto al fatto commesso o addirittura, come avviene in questi giorni nel caso di Federico Aldrovandi, con offerte di denaro da parte dello Stato affinché la famiglia rinunci a costituirsi parte civile nel processo d'Appello. Invece in Grecia, almeno nel primo grado di giudizio, si è avuto il coraggio di chiamare le cose con il nome giusto: omicidio volontario, a sangue freddo, di un ragazzo di 15 anni.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Musilli
È diventato una celebrità planetaria, ma lo ha scoperto con 48 ore di ritardo. A dirglielo sono stati gli agenti del carcere di Jinzhou, nella Cina del nord. Il giorno dopo Liu Xiaobo è uscito per qualche minuto dalla cella di 30 metri quadri dove vive da quasi due anni insieme ad altre cinque persone. E ha incontrato sua moglie, Liu Xia. Le ha detto di far sapere al mondo che il suo premio appartiene alle anime dei ragazzi morti a piazza Tienanmen. Liu Xiaobo ha vinto il Nobel per la pace 2010.
Il regime cinese lo considera un pericoloso dissidente, ma il Comitato di Oslo ha deciso di premiarlo “per la sua lunga e non violenta battaglia per i diritti umani fondamentali in Cina”. Non basta, i norvegesi hanno calcato la mano: “Il nuovo status della Cina deve comportare una maggiore responsabilità - si legge nelle motivazioni del premio - el a Cina viola diversi accordi internazionali di cui è firmataria, così come la sua stessa legislazione in merito ai diritti umani”.
Un affronto per Pechino, che nei mesi scorsi aveva fatto pressioni sul Comitato, minacciando gravi conseguenze sui rapporti diplomatici fra Cina e Norvegia nel caso in cui il Nobel fosse andato a Xiaobo. Non era un bluff: dopo la cerimonia di premiazione l’ambasciatore norvegese è stato convocato per una protesta formale.
Ma il regime si è dato da fare su più fronti. Prima ha definito “un’oscenità” l’assegnazione del riconoscimento “a un criminale condannato dalla giustizia cinese”. Poi è sceso in strada a far vedere i muscoli. Decine di persone sono state arrestate nei bar e nei ristoranti di Pechino. Gli sciagurati volevano festeggiare in nome di Xiaobo. Com’era prevedibile, la polizia non ha risparmiato nemmeno Liu Xia. Sono andati a prenderla e l’hanno costretta a lasciare la capitale. Ora la donna è agli arresti domiciliari. Segregata in una casetta nella periferia della sua città, circondata da soldati. Non deve parlare con i media internazionali.
Per quelli nazionali, infatti, da subito sono scattate le misure più severe. La diretta Bbc della premiazione è stata interrotta due volte. Dai giornali online sono stati rimossi tutti gli articoli dedicati ai Nobel 2010 e l’accesso al sito ufficiale del premio è stato chiuso. La censura è arrivata perfino agli sms: che fossero scritti in caratteri cinesi o latini, tutti i messaggini contenenti le parole “Liu Xiaobo” sono stati bloccati. Facebook, Twitter, Youtube, Wikipedia, tutto oscurato. Un’impresa titanica, più che mai antistorica.
Come si può pensare di tenere all’oscuro 1,3 miliardi di persone? La Repubblica Popolare ci riesce, anche se qua e là si aprono crepe nel muro. Gli hacker esistono, e quelli cinesi sono anche bravi. Sopravvive un canale ristrettissimo di libera circolazione delle informazioni, che funziona soprattutto grazie alle comunità cinesi all’estero. Ma per la stragrande maggioranza del “Popolo”, la luce rimane spenta.
Nonostante tutto, la Cina non ha potuto evitare che il mondo si accorgesse improvvisamente di Liu Xiaobo, il professore universitario di letteratura che nel giugno 1989, insieme ai suoi allievi Wang Dan e Wu’Er Xi, fondò la Federazione Autonoma degli Studenti, struttura portante della protesta contro il regime. All’epoca, Xiaobo comprese in anticipo la sconfitta e convinse centinaia di studenti ad abbandonare piazza Tienanmen prima del massacro.
Lui, però, rimase. Fu arrestato e condannato a 18 mesi di prigione come controrivoluzionario. Uscito, nel giro di due anni si guadagnò una nuova condanna per “propaganda e istigazione controrivoluzionaria”. “Disturbi alla quiete pubblica” la colpa per cui nel 1996 venne spedito per tre anni in un “laogai”, eufemisticamente traducibile come “campo di rieducazione ideologica”.
Tornato libero, andò a insegnare prima negli Stati Uniti, poi in Europa. Rientrò a Pechino nel 2004. Quattro anni dopo contribuì a scrivere e a diffondere la “Charta 08”, manifesto degli attivisti cinesi in cui si chiede al governo di rispettare i diritti umani, fare riforme politiche e assicurare indipendenza al potere giudiziario. L’8 dicembre venne arrestato per la quarta volta. La condanna a 11 anni di reclusione per “incitamento alla sovversione ai danni dello Stato” arrivò il 25, quando il mondo era distratto dal Natale.
Dopo l’assegnazione del Nobel, improvvisamente tutti i più importanti capi di Stato si sono ricordati di Xiaobo e hanno elogiato con solennità la scelta del Comitato di Oslo. Stati Uniti, Francia e Germania si sono spinti perfino a chiedere la liberazione del dissidente. Via Twitter, si è aggiunto il Dalai Lama, dal suo esilio in India. Jens Stoltenberg, il premier norvegese, si è limitato invece a uno striminzito comunicato stampa. In questi giorni è in vacanza all’estero. Che tempismo.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emanuela Pessina
BERLINO. Sono gravi le condizioni di Dietrich Wagner, l'ingegnere in pensione di 66 anni che ha subito lesioni agli occhi durante gli scontri degli ultimi giorni fra polizia e manifestanti a Stoccarda, nella Germania del Sud. Si tratta del controverso progetto Stoccarda 21, la mega infrastruttura che dovrebbe andare a sostituire la vecchia stazione della città: oltre il 50% dei cittadini manifesta da settimane contro il progetto, ma di questo, alla politica, sembra importare ben poco. E dopo la escalation degli ultimi giorni, ora si riflette sulle cosiddette "democrazie moderne" e su quanto effettivamente i cittadini abbiano ancora la possibilità di far valere la loro opinione rispetto a quella dei politici che - paradossalmente - hanno scelto.
Da settimane i manifestanti avevano occupato il Mittlerer Schlossgarten, il parco che verrà sacrificato a Stoccarda 21, incatenandosi agli alberi. Le forze dell'ordine hanno usato cannoni ad acqua, spray al pepe e manganelli per intimare lo sgombero: risultato, centinaia di feriti, tra cui soprattutto scolari e pensionati, uno di questi, appunto Dietrich Wagner. E Wagner, per il momento, continua a non vedere: le sue palpebre sono lacerate e sembra che le ferite abbiano addirittura raggiunto la retina; i medici hanno già appurato che il cristallino è andato distrutto e, in futuro, dovrà essere sostituito con uno artificiale.
E ora la linea di demarcazione fra cittadini e politici si fa sempre più dura, arrivando a toccare gli strati più profondi delle coscienze: le immagini di Wagner sanguinante hanno procurato imbarazzo e offesa anche a chi prima non si interessava della questione. "Attenzione, confine tedesco-tedesco tra popolo e politici" avverte un cartellone appeso sopra i sigilli della polizia presso il cantiere nel cuore dello Schlossgarten. I politici stanno tentando in tutti i modi di convincere i loro cittadini della convenienza di Stoccarda 21: ma la spaccatura sembra destinata a non rimarginarsi.
Stoccarda 21 prevede la costruzione da zero di un'enorme stazione iperfuturistica nel parco di Mittlerer Schlossgarten, il cuore verde di Stoccarda. Oltre al consueto edificio esterno, la stazione dovrebbe andare a svilupparsi anche nel sottosuolo: i binari principali del raccordo attuale verranno spostati sottoterra e, secondo le rosee prospettive di politici e ingegneri, lo spazio risparmiato alla superficie permetterà uno sviluppo più armonico della città attualmente divisa dalle vie ferrate. Dalla nuova stazione partirà inoltre una nuova linea metropolitana simile alla S-Bahn di Berlino, un treno di superficie che costituirà un'ulteriore comodità per turisti e cittadini e che collegherà la città direttamente all'aeroporto. Da un punto di vista internazionale, la stazione servirà ad agevolare la comunicazione ferroviaria tra Parigi e Budapest.
Ma i cittadini di Stoccarda non sembrano aver accolto con entusiasmo l'idea e si oppongono con tutte le loro forze a un progetto inutile e dispendioso. Stoccarda 21 costituirebbe, innanzitutto, uno shock ecologico enorme per la città. Per far spazio alla stazione si dovrà cementare buona parte dello Schlossgarten e si renderà necessario l'abbattimento di centinaia di vecchissimi alberi al suo interno. Senza contare l'inquinamento che comporterebbero gli innumerevoli anni di cantiere previsti: i lavori per la costruzione della stazione lascerebbero tracce di deterioramento indelebili sulla parte di verde rimanente e nella vita quotidiana dei cittadini.
E chi si sta muovendo contro Stoccarda 21 non dimentica neppure il lato pratico della questione, quello che interessa anche i meno sensibili. Un progetto così avveniristico non può che costare molto: le ultime stime non definitive prevedono una spesa di oltre 10 miliardi di Euro.
La ristrutturazione della vecchia stazione di Stoccarda costerebbe sicuramente meno, accusano i cittadini, e con gli avanzi si potrebbe andare a migliorare le infrastutture già esistenti, così da migliorare effettivamente la qualità della vita nella città. Alcuni studi dimostrano addirittura l'esistenza di insicurezze a livello di tecnica, che rendererebbe pericolosa la costruzione del tunnel previsto per i binari di circa 60 Km.
"In quale altro posto della Germania se non qui avrebbe potuto prendere forma un progetto così futuristico?", si è limitato a commentare con orgoglio Stephan Mappus (CDU), il Ministro-Presidente del Baden-Württemberg, riferendosi con orgoglio alla "sua" Land, una tra le più ricche della Germania.
Ma purtroppo per lui non sono solo Verdi, Die Linke e SPD a chiedere l'immediata sospensione del progetto: anche la maggior parte dei cittadini ne chiede lo stop. E sorge spontanea una domanda: fino a che punto si può impedire alla maggioranza dei cittadini di Stoccarda di decidere della loro città in nome del progresso?
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Senza alcun intervento del Congresso americano, il 31 dicembre prossimo cesseranno i generosi tagli alle tasse voluti dall’amministrazione Bush nove anni fa. In campagna elettorale il presidente Obama aveva promesso di prolungare i benefici fiscali per la cosiddetta classe media statunitense, ma di eliminare i tagli per i contribuenti più ricchi. A meno di un mese dalle elezioni di medio termine, tuttavia, la maggioranza democratica non ha avuto il coraggio di affrontare un tema così avvelenato come quello delle tasse, rimandando ogni decisione a dopo il voto, quando un rinvigorito Partito Repubblicano con ogni probabilità sarà in grado di ottenere condizioni favorevoli per i redditi più alti.
I provvedimenti adottati in materia fiscale dalla precedente amministrazione tra il 2001 e il 2003, pur non avendo contribuito al progresso economico degli Stati Uniti, hanno determinato un ulteriore allargamento della forbice tra i redditi più alti e quelli più bassi. Soprattutto, i tagli alle tasse tuttora in vigore hanno prodotto un deficit enorme. Il costo complessivo per le casse pubbliche è stato finora di almeno mille miliardi di dollari, mentre per il prossimo decennio, nel caso i tagli venissero resi permanenti, il costo stimato è di qualcosa come tremila miliardi di dollari.
In un clima politico come quello di Washington nel quale da qualche mese a questa parte la preoccupazione più diffusa è precisamente quella dell’insostenibile deficit, è singolare come né i democratici né i presunti falchi in materia fiscale - i repubblicani - abbiano saputo trovare un compromesso per eliminare la principale causa del rosso di bilancio (assieme alle guerre in Iraq e Afghanistan). Nelle intenzioni di George W. Bush al momento della stesura della legge che stabiliva i “temporanei” tagli alle tasse, vi era probabilmente la speranza che nove anni più tardi i membri del Congresso non avrebbero permesso un ritorno alle aliquote precedenti per non essere accusati di aumentare il carico fiscale. Una previsione che si sta appunto materializzando in queste settimane.
Secondo l’attuale regime, lo scaglione fiscale nel quale rientrano i redditi più elevati gode di una aliquota del 35 per cento, mentre i redditi più bassi del 10 per cento. Nel caso venissero eliminati i tagli alle tasse, l’aliquota massima e quella minima tornerebbero rispettivamente al 39,6 e al 15 per cento, con quelle intermedie aggiustate verso l’alto di conseguenza.
Il voto previsto un paio di settimane fa al Senato è stato rimandato a dopo le elezioni del 2 novembre che rinnoveranno gran parte del Congresso americano. L’intenzione dei democratici era teoricamente di far approvare una misura simile a quella sostenuta da Obama, cioè allungare la durata dei tagli fiscali per i redditi al di sotto dei 200 mila dollari per un contribuente singolo, e di 250 mila dollari per una famiglia, e porre fine invece ai benefici per i redditi superiori.
Buona parte degli stessi senatori democratici, ovviamente con redditi ben al di sopra dei 200 o 250 mila dollari, ha visto però apparire lo spettro di essere accusati di voler alzare le tasse nel pieno di una gravissima crisi economica. Con una campagna elettorale in molti casi ancora tutta da decidere, agire in questo modo, dal loro punto di vista, avrebbe servito un clamoroso assist ai repubblicani. Nella realtà dei fatti, metter fine ai tagli alle tasse per i più ricchi incontra il favore della maggioranza degli americani. Per questo, l’inerzia democratica non farà altro che scoraggiare altri elettori da qui ai primi di novembre.
L’incapacità di passare un provvedimento che cerca di fare pagare, sia pure modestamente, una parte del costo della crisi ai redditi più alti è poi la dimostrazione di quanto si siano ormai spostati a destra i termini del dibattito politico negli Stati Uniti. Tanto più che il mancato voto sui tagli alle tasse non è dovuto all’ostruzionismo repubblicano, bensì alla contrarietà di svariati senatori democratici, palesemente a favore del prolungamento degli stessi tagli per quella minima parte dei contribuenti che accumula enormi fortune.
Oltre a quanti si sono dichiarati contrari allo stop dei tagli alle tasse per i più ricchi, c’è poi un gruppo di senatori che preferirebbe prolungarli complessivamente per un anno o due, in attesa di tempi migliori. Ogni rinvio, tuttavia, non farà che assegnare un maggiore potere decisionale al Partito Repubblicano, nettamente in testa nei sondaggi per le elezioni di medio termine.
Un qualche voto da parte del Congresso entro la fine dell’anno ci sarà comunque, in caso contrario tutti i tagli voluti da Bush termineranno al 31 dicembre. Ad occuparsene sarà così quella che viene definita una “lame duck session” del Congresso, verosimilmente sotto le pressioni dei repubblicani freschi di successo alle urne, cioè un Parlamento che si riunisce quando è già stato eletto il suo successore, anche se il mandato di quest’ultimo non ha ancora avuto inizio.
Nel tentativo di dare seguito alla sua promessa, il presidente Obama negli ultimi giorni sta tardivamente insistendo sulla necessità di riportare le tasse ai livelli antecedenti al 2001 per i redditi superiori ai 250 mila dollari, che rappresentano appena il 2.5 per cento dei contribuenti americani. Visto l’umore all’interno del suo stesso partito, tuttavia, le possibilità che il Congresso possa muovere in questa direzione sono praticamente nulle.
Rinunciando ad un confronto con l’opposizione sul tema delle tasse, il Partito Democratico ha così offerto un altro successo alla retorica repubblicana. Allo stesso tempo, la vicenda rappresenta una nuova mortificazione della base elettorale democratica che si appresta a voltare le spalle ad un presidente e ad una maggioranza sempre più lontani dai bisogni dei lavoratori e di quella classe media che continuano a pretendere di voler rappresentare.