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di Carlo Musilli
Soldi contanti infilati in grosse borse di plastica e spediti da Teheran a Kabul. Così il governo afgano riceve regolari finanziamenti dall’Iran. Lunedì scorso, il presidente Hamid Karzai l’ha ammesso candidamente in conferenza stampa, spiegando che “si tratta di procedure trasparenti, di cui ho perfino discusso con l’ex presidente americano Gerorge W. Bush”. Karzai ha quindi specificato di ricevere da Teheran circa 1,4 milioni l’anno, in due tranche, e che tutto il denaro è destinato alle sue “spese presidenziali”. Un ufficio davvero costoso.
Il caso è stato aperto da un articolo del New York Times, secondo cui le cose stanno diversamente. In agosto, l’ambasciatore iraniano in Afghanistan, Feda Hussein Maliki, ha incontrato in un aeroporto di Kabul il capo di gabinetto di Karzai, Umar Daudzai, e gli ha consegnato una delle famigerate sacche con il malloppo. Stando al quotidiano americano, “versamenti“ di questo tipo avvengono ogni due mesi, muovendo ogni volta somme di 1/2 milioni di dollari. E non per “spese d’ufficio”.
Teheran spera in questo modo di aumentare la propria influenza sul governo di Karzai che, da parte sua, usa quel denaro per comprare la lealtà di deputati, leader tribali e perfino comandanti talebani. “Il patriottismo ha un costo”, ammette lo stesso Karzai. Non è chiaro se il super consigliere Daudzai si intaschi parte del gruzzolo nel corso di queste “transazioni”, ma è invece noto che negli ultimi anni ha acquistato sei proprietà immobiliari fra Dubai e Vancoover.
Il signor Daudzai, una volta, apparteneva agli Hezb-i-Islami, un gruppo di fondamentalisti islamici che combatteva i sovietici negli anni ’80. Entrò a far parte dello staff di Karzai nel 2003 e due anni dopo fu nominato ambasciatore afgano in Iran. Strinse così forti legami con l’intelligence di Teheran e con leader locali del calibro di Ahmadinejad. Legami che durano ancora oggi. Daudzai è ormai il capo di gabinetto di Karzai e, secondo fonti militari, cerca ogni giorno di spingere il Presidente ad una politica decisamente anti-occidentale.
Non sta facendo un cattivo lavoro. In questi giorni, infatti, i rapporti fra Washington e Kabul sono più tesi che mai. Durante la stessa conferenza stampa di lunedì, Karzai ha accusato l’America di finanziare lo sterminio degli afgani: “Le compagnie di sicurezza private - ha dichiarato il presidente -, molte delle quali sono pagate dagli Stati Uniti, diffondono il caos e uccidono ingiustamente migliaia di civili afgani”.
Secondo un accordo stipulato in agosto, i “contractors” dovrebbero chiudere i battenti il prossimo 17 dicembre. Sennonché, la polizia e l’esercito afgani non sono assolutamente in grado di garantire lo stesso livello di sicurezza. Mandare a casa le compagnie private significherebbe quindi mettere a rischio il lavoro di molte imprese ed organizzazioni che lavorano per lo sviluppo del Paese. In altre parole, l’Afganistan e i suoi alleati direbbero addio a progetti da svariati miliardi di dollari. Per questo motivo i governi occidentali hanno chiesto di avere più tempo, ma Karzai glielo ha negato: il termine resta quello fissato. Rimarrà comunque la possibilità di valutare caso per caso la concessione di eventuali proroghe.
In sintesi, gli avvenimenti degli ultimi giorni hanno reso evidenti due aspetti fondamentali della partita in corso: da una parte la frattura sempre più grave fra i vertici di Kabul e gli Stati Uniti, dall’altra la centralità dell’Iran sullo scacchiere afgano. A partire dal 2001, infatti, Teheran ha avuto un ruolo di primo piano nel rovesciamento del regime talebano e nella costruzione del potere di Karzai. Negli ultimi nove anni, poi, il commercio fra i due paesi si è impennato e gli iraniani hanno finanziato l’ambiziosissimo progetto di una rete viaria che parta dall’Afghanistan per arrivare in India, oltre ad aver investito 660 milioni di dollari nella ricostruzione del Paese.
Tutto ciò ha avuto delle ripercussioni sulla psicologia di massa degli afgani: il coinvolgimento iraniano nel paese è visto da molti come un’assicurazione sulla vita. Nel Paese è infatti diffusissima la preoccupazione di essere abbandonati dalla comunità internazionale e dover tornare a vivere sotto il giogo talebano.
Davvero nessuno ha fiducia nel governo di Karzai, che si presenta alla luce del sole come il Bengodi della corruzione. Per questo la notizia che arrivino “mazzette” da Teheran non è stata poi così sconvolgente. Nemmeno quando Karzai ha spiegato che finanziamenti dello stesso tipo arrivano anche da altri “paesi alleati”, come gli Stati Uniti. Nemmeno quando ha detto che non ha nessuna intenzione di interrompere questa prassi, considerata parte di un “rapporto fra buoni vicini”. Non stupisce nemmeno che, alla fine di tutta questa storia, il ministro degli Esteri iraniano continui a negare ogni cosa.
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di Eugenio Roscini Vitali
In Bosnia-Erzegovina le elezioni legislative e presidenziali del 3 ottobre scorso hanno confermato, per la decima volta in quindici anni, uno scenario sostanzialmente diviso su basi etniche. Una situazione di stallo politico, quindi, aggravata da un tasso di disoccupazione che resta al 43%, dai tagli alla spesa pubblica richiesti dal Fondo monetario internazionale, dalla rabbia degli ex combattenti e da un sentimento di sfiducia trasversale che si è concretizzato in un’astensione pari al 50%.
Su una popolazione complessiva di 3,9 milioni di abitanti, i cittadini chiamati a scegliere i tre componenti della presidenza tripartita, i deputati del Parlamento centrale e quelli delle due entità, i consigli dei dieci cantoni della Federazione bosniaca e il presidente e i due vicepresidenti della Republika Srpska, sono stati 3.126.599; di questi hanno votato 1.651.376 bosniaci, 566.083 dei quali serbi, e alla fine le schede nulle sono risultate 129 mila.
Sul fronte croato il voto ha confermato Zeljko Komsic, membro del Partito Socialdemocratico (SDP), che con il 60,96% delle preferenze ha sconfitto la concorrente nazionalista dell’Unione Democratica Croata (HDZ), Borjana Kristo (19,53%), e il rappresentante della coalizione croata HDZ-1990, Martin Raguz (10,70%). I 317 mila voti che hanno dato la vittoria a Komsic, da sempre su posizioni multietniche e contrario a una politica nazionalista, non devono comunque illudere: la signora Kristo ha pagato l’eccessivo frazionamento della destra e le polemiche dei nazionalisti croati che la ritengono capace di intercettare il voto musulmano e per questo non in grado di rappresentare i croati nella presidenza tripartita.
Per la presidenza tripartita i serbi hanno invece rieletto, per la seconda volta consecutiva, Nebojsa Radmanovic, dell’Unione dei Socialdemocratici (SNSD), partito del premier della Repubblica Srpska, Milorad Dodik, che a sua volta ha conquistato la presidenza dell’entità serbo-bosniaca nata dal General Framework Agreement for Peace (GFAP) stipulato il 21 novembre 1995 nella base Wright-Patterson di Dayton, in Ohio.
Oltre a Rajko Papovic (3,25%), capolista dell’Unione per la Srpska Democratica (UDS), Radmanovic (49,76%) ha superato di misura Mladen Ivanic (46.98%), leader del Partito del Progresso Democratico (PDP) che per l’occasione ha corso con la coalizione ”Insieme per Srpska”, un’alleanza di partiti dove secondo alcuni media internazionali militerebbero personaggi legati a Radovan Karadzic e Vojislav Seselj, entrambe incriminati per crimini di guerra e genocidio ed estradati all’Aja per essere giudicato dal Tribunale Penale Internazionale per i Crimini nella Ex-Jugoslavia (TPI).
Eccetto qualche isolato esperimento politico che ha dato vita a movimenti del tutto nuovi, come il Nuovo Partito Socialista di Zdravko Krsmanovic, sindaco di Foca, e Nasa Stranka, la formazione multietnica alla quale aderisce il regista e premio Oscar Danis Tanovic, la corsa alla presidenza della Repubblica Srpka tra il primo ministro Milorad Dodik (50.52%), che da anni tiene in scacco la comunità internazionale con la minaccia della secessione, e Ognjen Tadic (35.92%), anche lui come Ivanic candidato della coalizione “Insieme per Srpska”, è stato del tutto formale.
Così come formale è stato il risultato ottenuto dai candidati non serbi, con il bosniacco Enes Suljkanovic che ha raccolto il 2,44% e il croato Emil Vlajki, che con poco più di 6 mila voti non ha superato il punto percentuale. Questa vittoria permette a Milorad Dodik di rafforzare il fronte nazionalista e anche se in veste di presidente ha già parlano di bisogno di stabilità e unità - l’SNDS continuerà la partnership di coalizione con i popolari democratici e con i socialisti - rimane il fatto che sullo status della Repubblica si è detto pronto a combattere per modificare gli accordi di Dayton. Una posizione intransigente che è peraltro scandita nel motto stesso del suo partito: “Repubblica Srpska per sempre, Bosnia Erzegovina finché si deve”.
L’unica vera novità è arrivata dall’elettorato musulmano, che all’uscente Haris Silajdzic (24,90%), fondatore del Partito della Bosnia Erzegovina (SBH), ha preferito Bakir Izetbegovic (34,80%), membro del Partito d’Azione Democratica (SDA) e figlio di Alija, leader dei bosniaci durante il conflitto 1992-1995. Per molti analisti la sconfitta di Silajdzic (che in campagna elettorale ha tentato di superare a destra Izetbegovic, lanciando l’ipotesi di un’alleanza strategica con la Turchia) rappresenta l’esigenza di un voto moderato, ma neanche il Partito d’Azione Democratica ha sfondato e se il primo ha probabilmente pagato la polemica fuoriuscita dall’SDA, il secondo ha in parte scontato i problemi causati da un sistema di potere che in Bosnia, dal dopo guerra ad oggi, ha già gestito, senza ottenere alcun risultato concreto, 15 miliardi di dollari.
E’ quindi più probabile che una grossa fetta dell’elettorato di centro abbia voluto esprimere un voto di protesta, premiando in un certo senso il fondatore dell’Alleanza per il Progresso (SBB), il tycoon Fahrudin Radoncic (30,75%), boss della ricostruzione post bellica di Sarajevo e proprietario della rete televisiva Alfa, del quotidiano Dvevni Avaz e di numerose testate editoriali tra cui Express, Global, Azar e Sport Avaz.
Oltre al forte astensionismo e alle novità dovute al cambio della guardia nella rappresentanza bosniaca alla presidenza tripartita, il dato di maggiore rilievo scaturito dalle urne è la vittoria dei partiti socialdemocratici, una vittoria trasversale che deve comunque fare i conti con le appartenente etniche.
I due partiti socialdemocratici che hanno ottenuto più voti a livello statale non possono infatti governare da soli e a quanto pare non sembrano disposti a raggiungere un compromesso. La serba Dusanka Majkic, presidente della Camera dei popoli al Parlamento della Bosnia Erzegovina e compagna di partito di Nebojsa Radmanovic è convinta che un’alleanza con il Partito Socialdemocratico del croato Zeljko Komsic è impossibile e che per la formazione di un governo bisognerà pensare altre soluzioni.
Secondo il sito Sarajevo-x.com, un’ancora di salvezza all’SDP l’avrebbe però lanciata Mladen Ivanic, che nei giorni scorsi avrebbe avuto un meeting informale con Zlatko Lagumdzija. Lo scorso 15 ottobre Ivanic e Lagumdzija si sarebbero incontrati al ristorante Vinoteka di Sarajevo per sondare la possibilità di formare una coalizione di governo che possa comprendere il Partito Democratico Serbo (SDS) di Mladen Bosic; sul tavolo un’alleanza che ad Ivanic potrebbe fruttare la poltrona di ministro degli Esteri.
Lo scontro che si consuma all’interno dell’area socialdemocratica non è l’unico; adesso che l’SDA ha perso la sua posizione egemonica e l’SDP è diventato il primo partito, anche in casa bosniaca iniziano a sorgere i primi contrasti e Bakir Izetbegovic deve iniziare a fare i conti con la sorprendente affermazione di Fahrudin Radoncic.
L’SDA, che sembra pronto a dialogare con tutte le formazioni ad eccezione del partito fondato da magnate dell’editoria, giustifica la perdita dei consensi, e il conseguente successo dell’SBB, con una campagna elettorale mirata più alle problematiche di tipo periferico che nazionale, ma sono in molti a pensare che Bakir Izetbegovic e Silajdzic abbiano pagato una pressione mediatica che in qualche modo, anche nella Federazione Bosnia, riesce a modificare gli equilibri politici, una pressione che in questo caso è targata “Fahrudin Radoncic”.
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di Fabrizio Casari
Nestor Kirchner, morto ieri per un infarto all’età di sessant’anni, non è stato un presidente qualsiasi in un paese qualsiasi. L’attuale Segretario del Partito Giustizialista (peronista) arrivò alla Casa Rosada nel 2003 con il ritiro anzitempo di Menem, l’uomo che aveva ridotto il granaio dell’America Latina alla fame. Kirchner aveva ereditato la tragedia economica del paese latinoamericano, dovuta alle politiche economiche ultramonetariste volute dal ministro dell’Economia Domingo Cavallo, che sotto dettatura dei Chicago boys di Milton Friedman, aveva ridotto il paese sul lastrico.
L’Argentina fu infatti il laboratorio privilegiato del monetarismo, la finestra sulla follia della parità monetaria tra moneta locale e divisa e, nella decade successiva alla caduta della dittatura, divenne il luogo privilegiato per le scorribande dei capitali speculativi esteri - in particolare dei fondi pensione statunitensi - che volarono sui cieli di Buenos Aires comprando a pochi pesos per poi fuggire rivendendo a tanti dollari.
La vendita dell’Argentina a prezzi di saldo alle multinazionali statunitensi aveva posto il Paese sull’orlo dell’abisso. Entrato in scena dopo il fallimento politico di Alfonsin e la vergognosa pagina di Menem, Kirchner salì sul ponte di comando gaucho con l’impegno di scrivere presente e futuro di una grande nazione, prima violentata da una dittatura militare fascista che ridusse l’Argentina a un cimitero a cielo aperto, poi piegata dalla follia economica monetarista. Mise sul ponte di comando i due elementi dispersi: la sovranità politica ed economica del paese unita alla sua decisione di scavare nella sua storia senza sconti e senza indulgenze.
Sul piano economico Kirchner impose alle banche internazionali e agli speculatori dei tango bond un piano semplice quanto indiscutibile: l’Argentina avrebbe pagato solo quello che riteneva di dover pagare e nei modi e nei tempi che avrebbe potuto e voluto. Nessun indennizzo per i capitali speculativi veniva previsto, nessun rientro per i debiti contratti illecitamente era più possibile. Gli organismi monetari e i loro piani di aggiustamento strutturale vennero fermamente ricacciati indietro; la politica nazionale e i bisogni del Paese tornavano sul ponte di comando. Andava ricostruita l’economia vera, il suo ciclo vitale di produzione, distribuzione e consumo. Non c’era nessuna intenzione di continuare a rappresentare il bingo della speculazione finanziaria del nord.
Le ricette del Fondo Monetario per salvare l’Argentina somigliavano molto alle misure che il becchino prende ai pazienti in coma. Vi si prevedevano misure solo per rimborsare il debito con le banche e non gli argentini per ciò che gli era stato sottratto. Austerità verso l’interno, generosità verso l’estero. Una vecchia ricetta: il bastone per le vittime, la carota per gli speculatori. Ma Kirchner si rifiutò di baciare il bastone con il quale si voleva colpire l’Argentina e non volle pagare il debito alle condizioni impossibili imposte dai creditori, statunitensi in prima fila.
Niente aggiustamenti strutturali, niente politiche deflattive, nessuna garanzia per gli investitori esteri, nessuna abolizione di dazi doganali per le importazioni e quant’altro prodotto dal ricettario del medico che aveva schiantato il malato con le sue amorevoli cure. Kirchner, per la prima volta nella storia, rifiutò minacce e suggerimenti (così simili tra loro), ignorò le ricette monetariste e fece tutto il contrario di quanto proposto dal Fmi.
La crisi economica del paese venne superata grazie alle politiche economiche di tipo keynesiano ed all’apertura al mercato regionale oltre che al Mercosur. Ignorando i creditori, diede vita ad una politica economica che favorì il consumo interno, impose dazi alti per le importazioni e le transazioni finanziarie; vennero prese misure per l’occupazione e, in soli due anni, vennero creati due milioni di posti di lavoro. I conti tornarono in attivo, il Pil riprese a salire e l’Argentina denudò il re: nessuna fuga di capitali, come minacciavano i banchieri, bensì ingresso di capitali nuovi. In tre anni, furono molto maggiori i capitali che entrarono o rientrarono di quelli che uscirono.
Ma Kirchner non fu soltanto l’artefice della nuova politica economica argentina. Essa, infatti, venne sempre ispirata da scelte di politica generale che lo collocano nel solco del peronismo di sinistra, così difficile da differenziare, se non si vuol fare accademia, dal socialismo atipico sudamericano. E così come dovette fare i conti con il passato sul piano del default finanziario, allo stesso modo decise di farlo sistemando una volta per tutte la pagina nera della dittatura militare. Dovendo superare in corsa l’inefficacia della transizione di Alfonsin e il riallineamento politico di Menem con l’ideologia padronale, Kirchner scelse da subito di sistemare i conti all’interno.
La debolezza politica dei governi che avviarono la transizione come quello di Alfonsin, e la malcelata nostalgia per la dittatura di quello presieduto da Menem, avevano infatti promulgato due obbrobri giuridici: Ley de la obediencia debida (Legge dell’obbedienza dovuta) e Ley del punto final (Legge del punto finale). Il principio ispiratore delle due amnistie mascherate da leggi era l'assoluta non colpevolezza e non responsabilità dei militari e dei poliziotti argentini per i crimini commessi, in quanto soggetti ad "ordini superiori".
In pratica due gigantesche operazioni di amnistia per i militari autori della morte di trentamila persone, con l’assunto giuridico della non responsabilità oggettiva per chi obbedisce a ordini e delinque nell’esercizio del suo dovere. Erano insomma leggi che avevano assegnato il perdono d’ufficio ai torturatori del Paese, miserabili funzionari dell’orrore nella dittatura militare voluta da Washington e benedetta dal Vaticano. I criminali diventavano quindi non giudicabili e non perseguibili: un tentativo vergognoso di sbianchettare una tragedia immensa. Vennero azzerate. Il perdono per legge impediva la legge del perdono.
Questo volle il Presidente Kirchner: azzerarle e rimettere la verità seduta al fianco della giustizia. Nessun perdono, nessun oblìo di Stato per i carnefici, che furono invece perseguiti e condannati dai tribunali. I burocrati della dittatura uscirono di scena. Le madri e le nonne di Plaza de Mayo divennero le star del nuovo film che commuoveva l’Argentina.
Anche sul piano dei rapporti internazionali Kirchner seppe dare una svolta impensabile fino ad allora: alla vigilia del suo insediamento, dopo aver annunciato il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Cuba, mandò a dire agli Stati Uniti che i rapporto auspicabile tra Washington e Buenos Aires era un rapporto di vicinanza, ma non di complicità. “Vogliamo avere un rapporto, ma non carnale” disse con una battuta esemplificativa l'allora neo presidente argentino.
Che non si limitò a ristabilire la giusta distanza tra le due capitali, ma coinvolse l’Argentina nel processo d’integrazione regionale economica e politica con il blocco democratico latinoamericano. Schierò l’Argentina con il Gruppo dei 22 che al vertice di Cancun misero con le spalle al muro le pretese coloniali europee. Si battè contro l’Alca e contribuì alla nascita dell’Unasur (Unione delle Nazioni Sudamericane) della quale fino a ieri era, non a caso, Segretario Generale.
E proprio disobbedendo ai diktat del FMI e della Casa Bianca per obbedire alle necessità dell’Argentina, Nestor Kirchner tracciò una rotta successivamente seguita da sua moglie, Cristina Fernandez, attuale presidente, anzi Presidenta. Si vociferava di un suo possibile ritorno alla Casa Rosada, rilevando Cristina nel 2011, nonostante la pareja presidencial avesse smentito a più riprese l’ipotesi della staffetta familiare. Aveva lasciato la presidenza nel 2007.
Legato fortemente alle altre democrazie progressiste del continente, Kirchner é stato protagonista assoluto della riscossa latinoamericana. Ecuador, Bolivia, Uruguay, Cile e Paraguay hanno già annunciato la presenza dei rispettivi presidenti alle esequie di Stato e Brasile e Venezuela hanno proclamato tre giorni di lutto nazionale. Il Cono sud ha perso uno dei suoi attori principali e la sovranità argentina ha perso l’uomo che l’aveva inaugurata. Questo fu Nestor Kirchner: un grande Presidente per un grande Paese.
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di Mario Braconi
E’ pieno di sussiego il modo in cui il portavoce del Pentagono ha risposto a Sabrina Tavernise ed Andrew Leheren del New York Times che gli chiedevano un commento sulle torture e gli abusi patiti dai sospetti terroristi in Iraq, certificati dai documenti messi in circolazione in queste ore da Wikileaks: “le policy americane sugli abusi nei confronti dei prigionieri sono sempre state coerenti con la legge e le consuetudini internazionali”. Non c’è però, nella risposta, il riferimento alla circolare del 29 aprile 2005, etichettata USA MNCI FRAGO 039.
Secondo quest’ordine di servizio, in caso di abusi commessi da iracheni su altri iracheni, i soldati americani non avrebbero dovuto effettuare ulteriori indagini a meno che nelle violenze fossero coinvolti degli Americani o che tale supplemento investigativo fosse richiesto da un superiore organismo facente capo alla Difesa.
Formalmente, dunque, solo le autorità irachene avevano autorità per intervenire nei casi di tortura a carico di connazionali in prigionia; nei fatti, però, l’ordine di servizio era una scorciatoia: per rendere più collaborativi gli “insorgenti” più riottosi - quelli, per intenderci che con le “buone” non parlavano - si poteva consegnarli ai “colleghi” iracheni, alcuni dei quali erano veri “specialisti”.
MNCI FRAGO 039 è in effetti la traduzione in manuale operativo del Donald Rumsfeld-pensiero: indicativa a questo proposito è la trascrizione della conferenza stampa del 29 novembre del 2005, presenti Rumsfeld e il Generale Peter Pace, capo degli Stati Maggiori Riuniti. Alla domanda di un giornalista, Pace risponde: “Se uno dei nostri uomini è testimone di un comportamento disumano, ha il dovere di intervenire per porvi fine”. Rumsfeld replica, senza il minimo imbarazzo: “Non credo che tu ti riferisca all’obbligo di farlo cessare, quanto a quello di riferirne ai propri superiori”. Il Generale puntualizza: “Signore, se i nostri soldati sono fisicamente presenti mentre viene perpetrata una tortura, sono obbligati ad intervenire per farla cessare”.
In effetti, sembra che alla fine il pragmatismo amorale dell’allora Segretario alla Difesa abbia avuto la meglio. Non solo gli americani erano in grado di ignorare le torture commesse dagli iracheni sui loro connazionali, ma potevano subappaltare ad alcuni di loro quel lavoro sporco ritenuto proficuo anche se a rischio di qualche spiacevole danno di immagine (vedi caso Abu Graib).
I documenti pubblicati da Wikileaks parlano di almeno 6 prigionieri che, nella città di Samarra, sono stati “passati” dalle truppe americane alla Brigata Lupo, il famigerato Secondo battaglione delle forze speciali del ministero degli Interni. E’ il penoso risultato del tentativo di usare gli scampoli della guardia repubblicana di Saddam Hussein per terrorizzare i ribelli antiamericani: un gruppetto di simpatici ragazzoni in divisa, passamontagna, occhiali da sole e berretti rossi con una brutta fama di torturatori ed assassini di sospettati. Ufficialmente, la consegna dei prigionieri era finalizzata a consentire ulteriori interrogatori, ma nei fatti si è trattato in molti casi di una specie di subappalto della tortura.
I documenti riservati svelati da Assange e soci su quanto accadeva a Samarra non fanno che confermare quanto a suo tempo riferito dal giornalista Peter Maas in un dettagliato reportage pubblicato dal New York Times il primo maggio 2005 (“La Salvadorizzazione dell’Iraq?”).
Racconta Maas di come la sua intervista a James Steele (“consulente” degli iracheni e a suo tempo capo dei 55 “esperti americani” che formavano gli squadroni della morte in El Salvador) sia stata interrotta dalle urla di dolore e di disperazione di un prigioniero di cui i discepoli di Steele stavano abusando.
Tanto è il terrore che incutono gli uomini della Brigata Lupo, che spesso gli ufficiali americani incaricati di condurre gli interrogatori usano la minaccia di un deferimento al corpo di élite iracheno come spauracchio per ammorbidire anche gli insorgenti meno collaborativi.
I documenti di Wikileaks stanno facendo rumore anche in Gran Bretagna, dove si segnala il differente atteggiamento del Ministro della Difesa, che ha stigmatizzato l’operato di Assange ritornando sulla nota accusa secondo cui i documenti riservati pubblicati costituiscono un pericolo per i soldati inglesi in Iraq.
Diverse le dichiarazioni del vicepremier liberal-democratico Nick Clegg, il quale, almeno a parole, non sembra disponibile a fare sconti nemmeno ai “nostri ragazzi che combattono laggiù”: “Può anche indispettirci il modo in cui sono state diffuse queste informazioni, ma qui si parla di accuse gravissime: qualsiasi elemento possa far sospettare un mancato rispetto delle regole o un atteggiamento omertoso sui casi di tortura, va considerato con la massima serietà ed analizzato”. Speriamo che alle parole seguano i fatti.
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di Michele Paris
Da qualche settimana a questa parte, sui media di mezzo mondo si rincorrono le voci di colloqui di pace in corso tra il governo afgano di Hamid Karzai ed esponenti anche di alto livello della resistenza talebana. Mentre da Kabul già da tempo si cerca di costruire un percorso verso una complicata riconciliazione con le forze che combattono l’occupazione occidentale, gli americani hanno sempre vincolato qualsiasi ipotesi di dialogo al successo dell’offensiva militare.
Per questo motivo, le recenti conferme del via libera di Washington ai colloqui hanno fatto pensare ad un possibile cambiamento di strategia della Casa Bianca e del Pentagono. La prospettiva di un Afghanistan pacificato, allo stato attuale delle cose, appare tuttavia ancora molto lontana.
L’insediamento di un consiglio di pace (jirga) voluto dal presidente Karzai ai primi di ottobre nella capitale afgana era stato il primo segnale concreto lanciato ai talebani. Qualche giorno fa, poi, un resoconto del New York Times ha confermato la presenza a Kabul di guerriglieri di medio rango, i cui movimenti dai loro rifugi in Pakistan verso la capitale sarebbero stati facilitati proprio dalle forze NATO. Secondo quanto rivelato da un ufficiale afgano al reporter del Times, Dexter Filkins, un velivolo della NATO avrebbe addirittura trasportato alcuni leader talebani dal confine pakistano a Kabul.
L’inversione di rotta degli Stati Uniti, confermata pubblicamente dallo stesso numero uno delle forze occidentali in Afghanistan, generale David Petraeus, appare estremamente significativa. Washington, infatti, si era mostrata sempre piuttosto tiepida nei confronti delle iniziative di pace promosse da Karzai, evidentemente allarmato all’idea di un futuro senza la protezione americana. Se anche l’amministrazione Obama riteneva possibile o auspicabile in linea teorica un riavvicinamento con i talebani, i presupposti dovevano comprendere l’abbandono per questi ultimi della lotta armata, la rinuncia a qualsiasi legame con Al-Qaeda e il rispetto della nuova costituzione afgana.
Nessun dialogo era invece da prevedersi con i vertici talebani, primo fra tutti con il Mullah Omar. L’obiettivo pressoché inattuabile, insomma, era quello di convincere i quadri talebani ad integrarsi in un governo totalmente asservito agli interessi americani, ovviamente tramite qualche sostanzioso incentivo. Dall’altra parte della barricata, al contrario, qualsiasi ipotesi di accordo non poteva prescindere dall’immediato ritiro dal territorio afgano delle forze di occupazione.
Ancora più sorprendentemente, le discussioni in corso a Kabul comprenderebbero alcuni membri della cosiddetta “shura di Quetta”, l’organizzazione talebana di stanza nell’omonima città del Pakistan che guida la resistenza contro gli occidentali in Afghanistan, e il gruppo integralista comandato dalla famiglia Haqqani. Con questi due gruppi, gli Stati Uniti avevano escluso qualsiasi genere di contatto nel recente passato.
Il presunto nuovo atteggiamento degli americani secondo alcuni coincide anche con le dimissioni del generale James L. Jones dall’incarico di consigliere per la sicurezza nazionale e l’arrivo a fianco di Obama del suo vice, Tom Donilon. Quest’ultimo pare generalmente più scettico verso la strategia raccomandata dai vertici del Pentagono lo scorso anno e che prevedeva il consistente aumento del contingente militare in Afghanistan. Vicino al vice-presidente Joe Biden e attento ai malumori di molti democratici al Congresso circa la stallo afgano, Donilon si schiererebbe così tra i membri dell’amministrazione Obama che intendono spingere per un ritiro delle truppe a partire dal luglio del prossimo anno.
Al di là dell’importanza simbolica, le discussioni si trovano per ora ad uno stadio preliminare. La diffidenza rimane notevole da entrambe le parti e sono numerosi i fattori che minacciano anche solo l’avvio di un dialogo produttivo. Tanto per cominciare, non è ancora del tutto chiara la posizione e nemmeno il peso decisionale effettivo all’interno delle rispettive organizzazioni dei talebani che hanno accettato di incontrare i rappresentanti del governo Karzai. Allo stesso modo, è tutt’altro che scontata la disponibilità americana a fare concessioni di qualsiasi genere a coloro che più irriducibilmente si oppongono alla presenza in Afghanistan di contingenti militari stranieri e che mai accetterebbero di sottostare ad un governo fantoccio agli ordini di Washington.
L’incognita maggiore è rappresentata però dal Pakistan, il cui rapporto con le varie fazioni talebane e i gruppi di guerriglieri islamici che trovano rifugio entro i propri confini è a dir poco contraddittorio. Proprio il già citato gruppo degli Haqqani, ad esempio, nonostante le smentite ufficiali, opererebbe sotto la protezione del potente servizio segreto pakistano (Inter-Services Intelligence, ISI). A loro volta, nell’impervia regione del Waziristan del nord, gli Haqqani ospitano alcune cellule di Al-Qaeda attive da entrambi i lati del confine.
L’influenza esercitata dal Pakistan - o meglio, da alcuni centri di potere pakistani - sui gruppi islamici che operano in Afghanistan rende dunque improbabile il buon esito dei colloqui in corso a Kabul. Tanto più che l’intenzione di Karzai sarebbe proprio quella di escludere Islamabad dalle discussioni con i talebani, in quanto tramite questi ultimi il Pakistan aspirerebbe ad estendere il proprio ascendente sul futuro governo afgano. A conferma di ciò, ad inizio anno le forze di sicurezza pakistane avevano arrestato 23 leader talebani, tra cui il numero due della “shura di Quetta”, il Mullah Abdul Ghani Baradar, presumibilmente per essere entrati in contatto in maniera indipendente con il governo Karzai.
Come non bastasse, malgrado le cronache dal fronte afgano raccontino di un’offensiva negli ultimi giorni da parte delle forze NATO nella roccaforte talebana di Kandahar, le forze di resistenza dopo nove anni di guerra hanno a poco a poco esteso le proprie operazioni in molte aree del paese, provocando gravissime perdite tra gli alleati occidentali. Con le sorti del conflitto a loro favorevoli, molto difficilmente i talebani saranno disposti a cedere terreno ai loro nemici.
In definitiva, l’annunciato nuovo corso di un’America pronta ad appoggiare il dialogo tra i padroni di ieri dell’Afghanistan e quelli attuali è ancora tutto da verificare. La possibile riconciliazione s’intreccia infatti indissolubilmente con la “exit strategy” statunitense da un pantano che da tempo non lascia ormai più intravedere una soluzione all’altezza delle aspettative iniziali. Le sorti delle operazioni belliche, il ruolo che potrà giocare il Pakistan e, non da ultimo, l’umore di un’opinione pubblica americana sempre più stanca della guerra, decreteranno nei prossimi mesi la praticabilità di un percorso di pace che per ora si presenta ancora tutto in salita.