di Carlo Benedetti 

MOSCA. Dieci chilogrammi di tritolo esplodono nel nuovo aeroporto “Domodedovo”. Sono le 16,40 ora di Mosca (le 14,40 italiane). E’ una strage. A terra restano 35 vittime squarciate dalle schegge, 130 i feriti gravi. L’intero edificio - è la zona della consegna dei bagagli delle linee internazionali - è ridotto a un cumulo di rovine. Il caos è incredibile. Migliaia di persone si aggirano tra gli spezzoni della struttura di cemento armato, tra corpi dilaniati e bagagli sventrati. Tutto questo mentre la polizia - in un clima da apocalisse - cerca di arginare la folla.

Intanto sul posto, per i primi soccorsi, sono all’opera oltre duecento uomini dei servizi di sicurezza dell’aeroporto, i medici della Croce Rossa e i Vigili del fuoco. E dalla grande arteria, quella che unisce “Domodiedovo” alla capitale snodandosi tra la boscaglia, arrivano colonne di automezzi militari, auto della polizia e decine di ambulanze mobilitate per questa tragedia nazionale. E’ difficile, impossibile, farsi largo in questo caos.

Ovunque urla e pianti con la polizia che cerca di fare ordine in questa notte moscovita, fredda e tragica. Con la luce dei riflettori che sbatte in faccia la realtà e con il sangue che colora la neve. Nelle sedi ufficiali del potere, intanto, comincia l’altalena delle ipotesi, degli ordini per le indagini, del coordinamento dei soccorsi. Medvedev (che ha  deciso di rinviare la sua partenza per Davos, dove era atteso per tenere il discorso che mercoledì avrebbe aperto l’edizione 2011 del World Economic Forum) convoca una riunione d’emergenza e parla in diretta alla tv, rendendo noto che stando alle informazioni ricevute dagli organi della sicurezza quanto avvenuto all’aeroporto “é un atto terroristico”.

E di conseguenza viene dichiarato lo stato d’assedio in tutti gli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie dell’intero paese. Subito si da il via ad un “regime di sicurezza speciale” che investe anche la metropolitana di Mosca, che porta ancora i segni di quell’attentato del marzo scorso quando morirono 49 passeggeri coinvolti in una serie di tragiche esplosioni.

I servizi della sicurezza statale, l’FSb, intanto ipotizzano che la bomba di “Domodedovo” (due esplosioni) sia opera di un gruppo di kamikaze. Ci sarebbero tre ricercati. Lo rende noto Vladimir Markin, un alto graduato che si occupa delle indagini sul posto e al quale fanno riferimento gli agenti delle sicurezza. L’attenzione degli inquirenti si concentra sui tanti “caucasici” che vivono nella capitale e che sono scesi in campo contro i nazionalisti russi. Si aggiunge così - se questi fatti venissero confermati - una tragedia nella tragedia.

Prende il via una lotta bestiale per il controllo del territorio. E in questa situazione è difficile stabilire la verità. Perchè la Mosca di queste ore rischia di cadere nella “trappola” delle vicende nazionaliste, dei contrasti tra russi e non russi. Tutto avviene anche per il fatto che l’aeroporto di “Domodedovo” è proprio quello che segna il transito dalle repubbliche asiatiche e caucasiche.

Intanto si mobilita anche l’ambasciata italiana a Mosca. Si verifica, attraverso le strutture consolari e le agenzie di viaggi, se vi sono italiani tra le vittime. E questo pur se a “Domodiedovo” - di regola - non fanno scalo gli aerei che provengono dall’occidente e dall’Italia in particolare. Ora, mentre tutti gli ospedali della capitale sono presi d’assalto, Mosca vive il lutto e si appresta a registrare una notte di paura. Dal ministero degli Interni arriva la direttiva di controllare tutte le persone sospette, di tenere sotto controllo gruppi ed associazioni che operano nell’illegalità. Sono solo i primi ordini, le prime indicazioni. Dove porteranno e come evolveranno è presto per dirlo.


 

 

 

di Carlo Musilli

I manifestanti superano il cordone di poliziotti, sfondano la cancellata ed entrano nel giardino. Di fronte a loro, il palazzo del governo. Le forze dell'ordine sono schierate in difesa del primo ministro, Sali Berisha. Sono armati di manganelli, idranti, gas lacrimogeni e pistole. Qualche pallottola viene sparata anche dai civili. Alla fine la polizia riprende il controllo della piazza e allontana i dimostranti. Uno di essi cade, ucciso dai colpi di un militare. Doveva essere l'ennesima protesta pacifica, ma stavolta i viali di Tirana si sono sporcati di sangue. Il bilancio è di tre morti e quasi 60 feriti.

Ad organizzare la manifestazione è stato Edi Rama, leader dell'opposizione socialista e sindaco della capitale albanese. Circa ventimila persone hanno aderito al suo appello per chiedere le dimissioni di Berisha e nuove elezioni. Il clima politico in Albania è diventato insostenibile dopo lo scandalo che ha travolto Ilir Meta, vicepremier e ministro dell'Economia. A tradirlo è stato un suo ex alleato, Dritan Prifti, fino a non molto tempo fa membro del Movimento socialista per l'integrazione, che ha dato al governo i voti necessari per conservare la maggioranza in Parlamento.

Il caso è scoppiato martedì scorso, quando la televisione privata Top Channel ha trasmesso un video, risalente al primo marzo, in cui Meta chiedeva a Prifti di annullare le concessioni per la gestione di una centrale idroelettrica, in modo da favorire un'altra azienda. In cambio, avrebbe intascato una tangente da 700 mila euro. Il vicepremier si è difeso sostenendo che quell'azienda alla fine non ha ottenuto nulla e che il video è stato montato ad arte per incastrarlo. Ma quando la procura ha aperto un'indagine contro di lui, Meta ha rinunciato all'immunità parlamentare e si è dimesso.

Lo scandalo è stata la miccia che ha fatto esplodere gli scontri di piazza, ma si tratta solo delle ultime puntate di un telenovela iniziata molto prima. Da un anno e mezzo, infatti, i socialisti di Rama boicottano il parlamento in segno di protesta contro l'esecutivo del Partito Democratico. Per loro, Berisha è un presidente illegittimo, eletto alle politiche del giugno 2009 soltanto grazie a brogli e irregolarità di vario genere. E il governo non ha mai autorizzato il riconteggio delle schede.

In realtà, per comprendere le ostilità di oggi è necessario risalire ancora più indietro nel tempo. La storia di Sali Berisha ai vertici della politica albanese inizia nel 1992, quando diventa il primo Capo di Stato non comunista del dopoguerra. Si dimette nel 1997, colpito dall'accusa di essere coinvolto nella maxi truffa delle finanziarie a piramide (un classico "schema Ponzi", come quello usato dieci anni dopo negli Usa da Bernard Madoff). L'anno seguente, i militanti del suo partito tentano il colpo di stato assaltando la sede del nuovo governo socialista, ma falliscono. Berisha torna in scena nel 2005, stavolta come primo ministro. Attualmente è al secondo mandato consecutivo.

Nonostante le difficoltà incontrate lungo il cammino, Berisha ha dimostrato in questi giorni di non aver ancora perso il piglio del leader carismatico. Con una mossa rozza nello stile quanto efficace nella demagogia, ha pensato bene di paragonare le azioni dei suoi oppositori agli scontri che da settimane flagellano il nord Africa. Assecondando anche una certa propensione all'insulto, si è rivolto ai suoi elettori con un monito: "I figli bastardi dei Ben Ali dell'Albania hanno concepito scenari tunisini per voi, cittadini dell'Albania", specificando poi che "non saranno tollerate altro violenze".

Dal canto loro, i socialisti hanno voluto sottolineare che le proteste di questi giorni non hanno solamente un movente politico. Non è solo la corruzione del governo a far agitare le masse, ma soprattutto la sua incapacità a risollevare le sorti economiche del paese. Secondo i dati forniti dal partito, solo nell'ultimo anno sarebbero 100 mila le famiglie scese sotto la soglia di povertà, il che significherebbe almeno 400 mila persone. Nel frattempo le tasse aumentano e le imprese chiudono.

Un quadro desolante, che giustifica la decisione dell'Unione Europea di respingere la richiesta d'ammissione albanese. Il responso è arrivato a fine 2010, allegato ad una lista di 12 azioni da mettere in campo per continuare a sperare: prima fra tutte, la lotta alla corruzione. Dopo i recenti fatti di sangue, lo sguardo di Bruxelles si è fatto ancora più severo. Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera, e Stefan Fuele, commissario all'allargamento dell'Ue, hanno fatto sapere che "se l'Albania vuole procedere nel suo cammino verso l'Europa, si deve impegnare in un dialogo costruttivo per risolvere la sua crisi e mobilitare tutte le energie del paese verso questo fine". Intanto, le manifestazioni continuano, non solo da parte dei socialisti: mercoledì scenderanno in piazza i sostenitori di Berisha.

 

di Giuliano Luongo

Da qualche anno a questa parte, come tristemente sappiamo, i paesi del cosiddetto “nord” del mondo stanno sviluppando una sempre più crescente fobia con tendenze violente verso la figura dell’immigrato, clandestino o meno. Questa categoria di soggetti “pericolosi, inquietanti e sovversivi” viene respinta con i modi strategicamente e politicamente più fantasiosi. Di recente è in voga una tattica alquanto stupefacente nella sua semplicità, o idiozia: quella dei muri. Ha iniziato Israele, per tener lontani i palestinesi; ha continuato l’Egitto, per tenere lontani un po’ tutti, sub-sahariani compresi; ci hanno pensato anche gli Stati Uniti, per tenere lontano i messicani.

Ora è il turno della Grecia. Esatto, la Grecia. Dopo aver deliziato la Comunità con una crisi leggendaria, raggiunta con un abile mix di politiche domestiche incompetenti e sgambetti da oltreoceano, il governo di Atene ha deciso, con l’inizio dell’anno nuovo, di far costruire un muro lungo “appena” 13 kilometri (e alto 3 metri) sul confine turco; per essere più precisi, sul quel tratto di confine con la Turchia ove il transito di migranti clandestini è maggiore e - almeno a quanto si dice dai palazzi del potere dell’ex-patria della dracma - eccessivo e incontrollabile.

Parole d’insofferenza hanno testimoniato lo stato dell’umore degli ufficiali greci nei confronti dell’immigrazione dalla Turchia (“ La Grecia non ne può più”) che hanno caratterizzato la lapidaria dichiarazione del Ministro per la protezione dei cittadini Christos Papoutsis, che ha spiegato al mondo il perché di quest’azione di forza, o almeno ci ha provato. In pratica, le motivazioni ufficiali comprendono un aumento del livello di cooperazione con l’Unione Europea nella lotta all’immigrazione clandestina e la volontà di placare la “voce del popolo”, stanco dell’irrefrenabile flusso di migranti che finisce per intasare le coste elleniche. Mah.

Invero, va detto che la migrazione clandestina che usa la Turchia come paese di transito ha raggiunto livelli elevati: si pensi che da gennaio a novembre 2010 hanno saltato il confine quasi 128mila sans papiers. E’ vero inoltre che la “questione di confine” greco-turca continua a far male dal 1919, e che il confinante dell’Asia Minore ha sempre rappresentato una sorta di rivale ed avversario non solo politico-economico, ma soprattutto sociale e culturale; ma in ogni caso ci troviamo di fronte ad una misura di carattere estremo che mal si concilia con lo spirito di un paese teoricamente democratico ed europeo.

 E la cosa diviene ancor più comica di fronte alla realtà della tragica mancanza di competenza in fase di preparazione e messa in atto di qualsivoglia attività di sorveglianza: ogni aspetto della gestione delle frontiere faceva - e fa tutt’ora, muri o meno - acqua da tutte le parti, tant’è che da Bruxelles erano già state prese misure di supporto dalla fine di ottobre 2010. L’Unione ha infatti già attivato il Frontex per supportare i pattugliamenti frontalieri nelle aree greche più a rischio, tra cui appunto quella a sud del fiume Evros, dove sorgerà l’infame ammasso di mattoni. Con circa un paio di mesi di sorveglianza congiunta si è arrivati ad ottenere un abbassamento del 44% delle migrazioni clandestine: risultato oggettivamente spettacolare, ottenuto con sole 200 unità di personale competente extra. Unico neo: l’Unione voleva “impegno degli stati (Grecia e Turchia appunto)” per migliorare la situazione, ed in ogni caso il ritiro delle truppe avverrà a febbraio.

E da qui, l’idea del governo di Atene: non perseverare nell’uso di milizia addestrata, ma avviare la costruzione di un bunker egeo. Sono state miste le reazioni dal continente: mentre da Bruxelles sono state numerose le perplessità al riguardo - benché non incanalate in una critica mirata, unita o quantomeno decente - da Parigi e Berlino è giunto un discreto apprezzamento per l’iniziativa greca: atto molto utile a mostrare tanto il livello di divisione dell’Unione quanto la volontà di dare un ennesimo segnale ai turchi di stare fuori dalla territorio comunitario. Interessante notare come nemmeno da Ankara si siano levate voci rabbiose: nonostante in ambito governativo siano state sollevate alcune perplessità - specie riguardo accuse indirette di facilitare l’immigrazione clandestina - la risposta alla costruzione del muro è stata un rilassato “no problem”.

Proprio il leader Erdogan, infatti, ha dichiarato che “sarebbe sbagliato chiamare la struttura progettata “un muro, è solo una barriera”, per poi aggiungere che entrambe le parti hanno fiducia l’una nell’altra. Ma torniamo a tre parole fa: “non è un muro, è una barriera” che tipologia di commento è? Nessuna, non è nemmeno un commento. Meglio: non ha senso. D’accordo che, dopo aver visto i dati sull’immigrazione dal suo paese si è preoccupato, ma fingere di usare sinonimie e sottigliezze semantiche non è certo un commento politico sensato. O meglio: è il commento politico di un leader che vuole mostrare “benevolenza” verso l’organizzazione regionale nella quale brama di far entrare da tempo il suo paese, ed al contempo che vuole dare un segnale contro l’immigrazione, senza andare troppo per il sottile.

Ma almeno una voce fuori dal coro c’è stata, proveniente da sede ONU: l’UNHCR (Alto Commissariato per i Rifugiati) ha dichiarato forti perplessità in merito, con riferimento ai possibili danni ai rifugiati politici, i quali finirebbero per subire lo stretto trattamento dei clandestini, e soprattutto in merito al fatto che la via più sensata sarebbe stata quella di continuare con azioni di polizia (come del resto il Frontex aveva mostrato possibile). Subito da Atene c’è stata risposta: il governo greco “non ci sta” alla “ipocrisia” di Bruxelles e delle Nazioni Unite, adducendo poi altre motivazioni bislacche che per decenza evitiamo di riportare. Fatto sta che la decisione, in data 19 gennaio, sembra essere ufficialmente passata e, pertanto, tempo qualche mese, avremo davvero questa “barriera che non è un muro”, pronta a rinsaldare le mura di cinta di quella che la stampa indipendente già da anni chiama “fortress Europe”.

E’ chiaro che, dopo l’innegabile contributo al fallimento dell’economia europea, la Grecia ha ben cercato di “riscattarsi”, “aiutando” l’Unione su di un tema spinoso, quello dell’immigrazione eccessiva. Da Atene stanno cercando di mostrare non solo i muscoli a turchi e migranti, ma anche la loro disponibilità a mostrarsi qualcosa di diverso da un paese periferico inutile, buono solo a risucchiare fondi strutturali.

Assurdo a dirsi, i due colossi free riders dell’Unione hanno dato il loro appoggio, galvanizzati dal mettere un’ennesima barriera - stavolta fisica - tra l’Europa e gli “invasori musulmani”. Siamo davanti all’ennesimo assurdo di propaganda di politica forte e delle “azioni ad effetto”, che non vede come soluzioni meno “clamorose” siano di fatto più efficaci: bastava poco ad adottare strategie del Frontex, assumere guardiani invece di “muratori” ed il gioco sarebbe stato fatto, senza ulteriori effetti in tema di immagine internazionale. Sullo sfondo, rimane il tema dello spauracchio che viene dal Vicino Oriente, nella forma dell’infiltrazione islamica, che deve ricevere dei respingimenti da ogni dove e in qualunque modo.

 

 

di mazzetta

La rivoluzione tunisina procede inarrestabile ormai lontana dall'attenzione dei media italiani. Meglio così, il nostro Ministro degli Esteri è stato l'unico insieme a Gheddafi a solidarizzare con la dittatura e il Sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi è stata l'unica a lamentarsi perché il nostro governo non ha offerto asilo al dittatore tanto amico del suo papà; quel Bettino che portò al potere proprio Ben Alì organizzando un golpe e che poi godrà ricambiato della protezione del dittatore durante la latitanza.

I media e la politica non hanno discusso la posizione italiana, nessuno ci ha trovato nulla da ridire, anche se ci ha emarginato all'interno della UE e offerto una pessima immagine del nostro paese ai nordafricani. Frattini è stato poi particolarmente sfortunato, perché il giorno dopo che ha espresso la sua fiducia al governo di Ben Alì, questi è fuggito in Arabia Saudita. Identico destino quando si è congratulato perché il nuovo Esecutivo era formato da ministri del vecchio governo molto amici dell'Italia: è durato un giorno pure quello.

La pressione popolare ha nuovamente azzerato il governo provvisorio, creato cooptando pezzi dell'opposizione e della società civile (anche un blogger) nei posti meno significativi di un governo retto nei posti chiave da esponenti del regime, che si incaricava di organizzare le elezioni.

L'ipotesi non ha retto, le proteste sono continuate e il governo è ri-caduto, e con lui è caduto anche il partito unico di Ben Alì, svuotato dal ripudio di parte dei suoi maggiori esponenti un attimo prima di essere dichiarato illegale. Si dovrà riorganizzare con un altro nome o scindersi in diverse formazioni e fondarsi su altri presupposti, visto che da un lato non potrà contare su una bella reputazione e dall'altro non potrà più contare su finanziamenti illimitati e subirà la confisca di tutti i beni.

La rivoluzione tunisina non cessa di emozionare i cittadini degli altri paesi nordafricani, anche loro alle prese con problemi economici simili, ma soprattutto con dittature pluridecennali. Se in Occidente si continua a dare come unica lettura quella economica, negando di fatto qualsiasi plauso o esaltazione alla sacrosanta ribellione dei tunisini, nei paesi arabi la parola d'ordine sembra quella di negare qualsiasi possibilità di contagio e qualsiasi legittimità politica a rivolte simili. In linea di massima si tende a parlarne il meno possibile, anche se le Tv satellitari come al Jazeera e la rete portano comunque notizie che rallegrano i cittadini da Rabat a Il Cairo.

Notizie che non possono essere accolte che con favore da popoli che vivono ormai da decenni sotto il tallone di sovrani assoluti e spesso spietati nel reprimere il dissenso, ai quali non è dedicata che una frazione dell'attenzione dedicata al dittatore nemico del momento, sia Saddam o Ahmadinejad. Eppure i regimi nordafricani non hanno nulla da imparare da nessuno in termini di repressione violenta, soppressione della libertà di stampa, dei diritti umani e di quelli civili. I loro leader hanno la fortuna di essersi alleati con i buoni e quindi, per un processo di tramutazione all'interno del discorso politico e mediatico, diventano buoni anch’essi.

Far parte della squadra dei buoni significa godere di buona stampa, contratti che andranno ad arricchire i regimi, forniture militari e la garanzia di poter colpire le opposizioni impunemente invocando la lotta al terrorismo anche quando non ci sono terroristi. Dal 2001 questo pacchetto d'indulgenze per i leader dei paesi arabi è stato arricchito ancora di più, fino a integrare la totale immunità per chi ha voluto stravolgere una Costituzione o liberarsi delle opposizioni. Opportunità dorate, che nessuno dei leader in questione si è lasciato sfuggire. Una pratica che ricorda molto il vassallaggio, con cui si è stretta una morsa su popoli arabi in nome della lotta all'estremismo islamico.

Una vera e propria tenaglia che ha stretto le società di questi paesi entro confini ancora più stretti, proprio mentre la modernità elettronica e il desiderio di progresso economico e sociale si facevano sempre più forti, mentre questi paesi si popolavano sempre di più di giovani, sempre più lontani da una formazione compatibile con la sopportazione di geronto-dittature che hanno l'unico interesse nell'arricchimento e nella trasmissione del potere ai figli.

La retorica americana dell'esportazione della democrazia si è fermata sulla porta dei paesi alleati, gli americani hanno provato a portarla solo in Afghanistan, Iraq e Somalia e, anche lì, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se un giorno i popoli oppressi del Nordafrica dovessero guardare a chi ha appoggiato le dittature che li hanno oppressi per decenni, non potrebbero che volgere lo sguardo ad Europa e Stati Uniti, che non hanno certo perso il controllo di quei paesi dopo aver loro concesso un'indipendenza che è sempre stata più nella forma che nei fatti.

Si continuerà così fin che si potrà, con l'Europa e gli Stati Uniti che plaudono le autocrazie che sostengono da decenni al di là del Mediterraneo. Paesi, media e politici che sostengono di temere l'invasione islamica mentre opprimono e bombardano i paesi arabi e musulmani, mentre si associano a delinquenti locali per depredarne le ricchezze e assicurarsi che nessuno turbi la leggendaria “stabilità” invocata dall'Occidente prima ancora della democrazia e della libertà.

La stabilità di regimi sanguinari e oppressivi non suona proprio come un gran valore, ma si vede che per qualcuno un valore ce l'ha. Purtroppo di questi dettagli non si discute proprio, nel nostro paese, che pure la rivoluzione tunisina ce l'ha alle porte; ma essa non è oggetto di dibattito e non dipende dal clamore delle vicende porcelle di Berlusconi. Sono anni che maggioranza e opposizione non si scontrano sulla politica estera, l'opposizione è riuscita a malapena a lamentarsi per il bunga bunga con Gheddafi e per qualche altra amicizia personale un po' trash del Presidente del Consiglio.

La storia però corre a passo di carica, sempre più governi sentono che con i morsi della crisi arrivano al pettine anche nodi degli investimenti azzardati, le truffe, la corruzione e i progetti scellerati. Gli abitanti del Nordafrica restano alla finestra, ma la tensione non scende, l'esempio tunisino non cessa di produrre emulazioni qua e là, che per ora prendono la forma di suicidi di protesta.

In Egitto hanno tamponato la crisi dei suicidi mandando degli specialisti in televisione a dire che si tratta di malati di mente, “siamo tutti malati di mente” è subito diventato lo slogan dell'opposizione. Gheddafi in Libia ha reagito veloce alla rivolta tunisina togliendo le tasse sui beni alimentari, ma potrebbe non bastare, la notizia di ribellioni al regime libico è rara e quindi a suo modo significativa. In Marocco il re non può dare la colpa a un Parlamento che ha svuotato di senso, in Algeria il regime è in crisi d'idee e di legittimità, in Egitto il leader ha ottantadue anni e non sembra ancora essere riuscito a solidificare un progetto di successione certo e affidabile.

Operazione che raramente riesce alle dittature; la Siria degli Assad e la Corea dei Kim possono essere considerate le eccezioni che confermano la regola; spesso tendono a comportarsi come monarchie anche se guidano paesi che hanno scelto la repubblica come forma di governo. Una considerazione che induce a ritenere verosimile che l'attuale assetto politico del Nordafrica sia destinato ad essere messo in discussione seriamente negli anni a venire.

 

di Giuliano Luongo

Ormai tutti conoscono a menadito le abili strategie di Putin, grazie alle quali il leader post - o sarebbe meglio dire neo - sovietico riesce a serrare con forza sempre maggiore le proprie mani sul sistema energetico europeo: conosciamo quanto è successo e continua a succedere in ambito gas, e sappiamo anche cosa succede in tema di energia nucleare.

Un ambito invece sul quale siamo meno informati è quello della “Russia petrolifera”: a parte le notizie di qualche ingente crack risalente a diversi anni fa - e trascurando gli atti estremi di noti petrolieri celebri per le loro fesserie nel jet-set internazionale - conosciamo ben poco delle idee geostrategiche del Cremlino per conquistare la cara, vecchia, scricchiolante Europa occidentale.

Ebbene, stavolta abbiamo sotto i nostri occhil’ultimo atto della crociata energetica moscovita, che sta avendo luogo proprio nel settore petrolifero: la Rosneft, “compagnia di bandiera” dell’oro nero russo, ha siglato un accordo con la società anti-ecologica per eccellenza, la British Petroleum (in arte BP) in tema di diritti di trivellazione e soprattutto di quote societarie all’interno della grande compagnia britannica. Cerchiamo di andare per ordine onde chiarire statiche e dinamiche di questi nuovi assetti.

La BP ha comunicato uno share swap di “appena” 16 miliardi di dollari con la controparte russa, come parte di un’ambiziosa alleanza strategica che vedrà le due compagnie coinvolte in un’operazione di trivellazione congiunta nella zona dell’Artico controllata da Mosca. In tema di “numeri”, Rosneft entrerà in possesso del 5% della BP, che a sua volta prende il 9,5% del gruppo russo, del quale possedeva già l’1,2%. L’operazione è stata una vera e propria iniezione di salute per le azioni della compagnia britannica, cresciute di 4 punti al momento della pubblicazione della notizia: a circa 49$ per azione, i titoli del gruppo hanno raggiunto il loro massimo dal 6 maggio scorso, un’autentica rivitalizzazione dal momento in cui il disastro ecologico-economico del Golfo del Messico ha avuto luogo.

L’accordo è stato ovviamente accompagnato dalla fuffa di rito, con frasi del tipo “siamo davanti all’alleanza del 21esimo secolo”, “nuovi accordi, basta con le vecchie logiche” e via discorrendo: su temi più pratici, i manager BP hanno affermato che “avrebbero potuto” firmare un simile accordo anche se il disastro messicano non fosse avvenuto, e che un simile scambio può portare vantaggi alle loro “azioni sottovalutate”.

Da parte moscovita, la soddisfazione è alle stelle: per mandare l’accordo a buon fine, centrale è stata l’azione del grande alleato politico di Putin, Igor Sechin, che ha tenuto a precisare quanto questo accordo smentisca coloro i quali sostengono che la Russia pratica una politica economica miope e poco lungimirante.

Stavolta, il punto non è solo strettamente sull’ennesima espansione russa in Europa, Rosneft diviene sì il maggiore singolo azionista della compagnia britannica, ma per capire l’ampiezza dell’operazione si deve tenere bene a mente l’identità, per così dire, del primo “cliente” della BP: l’esercito degli Stati Uniti d’America. Per sillogismo, dunque, la forza militare più sopravvalutata al mondo compra “la” risorsa energetica per eccellenza dagli avversari di sempre.

Mica da ridere. Cioè, sì, fa ridere ed anche tanto, ovviamente se non si é dipendenti della Casa Bianca. Inutile dire che le reazioni da Washington si sono fatte sentire, anche se non in maniera eccessivamente “calda” come si sarebbe temuto né in maniera ufficiale, probabilmente a causa dei maggiori mali di fegato causati dalla concomitanza della visita cinese. Forse proprio perché impegnato a gestire la patata bollente Hu Jintao, Obama pare non si sia espresso ancora sulla faccenda, mentre qualcosa è trapelata dalla Commissione governativa presidenziale - già occupatasi del caso messicano - che ha semplicemente fatto un invito a non effettuare trivellazioni nell’Artico senza i dovuti controlli ambientali.

Mentre il deputato democratico Markey (membro del comitato per le risorse energetiche nazionali) ha preferito enunciare il proprio disappunto sbeffeggiando la BP con un gioco di parole squallido, il repubblicano Burgess si è limitato a parlare di “bisogno di attenta analisi” sull’accordo. Più interessante far notare come si sia reagito da Londra, dove il Ministro dell’energia Chris Huhn ha seccamente definito la Russia come “valido partner energetico”. Interessante ricordare che l’accordo in questione ha un suo peso anche nelle dinamiche interne alla Russia stessa: la Rosneft ha in corso una sorta di “rivalità” con la Gazprom per l’accaparramento di quote nelle imprese straniere.

Diversi rapporti di forza tra le imprese russe si concretizzano in diversi rapporti di forza nel “politburo” di Putin e dintorni: il colpaccio del Rosneft ha di certo portato molti punti a Sechin, e di sicuro numerose conseguenze non si faranno attendere. In tutto questo, la BP stessa ha sicuramente un semplice vantaggio: si allontanano le chance di chiudere bottega, dopo la cilecca leggendaria sulle coste americane che ben ricordiamo. La compagnia inglese va già smontandosi - con molti “pezzi” della catena produttiva che vanno nelle manine dei cinesi - e di conseguenza un accordo non troppo capestro con i russi significa una vita più lunga, almeno così si spera.

Dunque, benché questo sia solo un inizio e pertanto non possiamo già trarre conclusioni, possiamo almeno abbozzare delle piccole ipotesi per provare a leggere sviluppi futuri. In primo luogo, vediamo che il partner russo, nonostante sia geostrategicamente il peggiore possibile, continua ad essere particolarmente attraente per le compagnie energetiche europee.

Proponendo accordi più o meno vantaggiosi, facili, resi piacevoli anche per la politica, Mosca riesce ad accattivarsi le simpatie - e le quote - di compagnie di rilievo in tutti i maggiori (e minori) paesi d’Europa. La BP è solo l’ultima compagnia in ordine cronologico che decide di collaborare con un avversario/partner discutibile per un proprio profitto, con molta poca lungimiranza.

In secondo luogo, sarà opportuno tenere d’occhio le possibili mosse successive da parte nordamericana: di fatto, trattasi di operazione tra compagnie private e in un ipotetico sistema liberal-capitalista un governo non potrebbe/dovrebbe fare nulla. Eppure non dimentichiamo che i mezzi di pressione indiretta sono fin troppi. E l’amico Berlusconi? Lui, stavolta, non c’entra niente. Per ora.


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