di Alessio Marchetti 

PRAGA. Lavoro, casa, famiglia, salute e ordine: sono queste le parole d'ordine con le quali Viktor Orban, nel maggio dello scorso anno, ha stravinto le elezioni ungheresi a capo del suo partito Fidesz, con quasi il 53%, raggiungendo quindi oltre i due terzi dei consensi. Una vittoria che lui chiama rivoluzione dei due terzi. Attraverso la grande maggioranza parlamentare di cui dispone, Orban sta conducendo uno stile politico di stampo chiaramente nazionalista e populista. Questo stile sta preoccupando in maniera particolare l'Unione Europea, soprattutto in coincidenza col fatto che dal primo Gennaio 2011, l'Ungheria é diventata presidente di turno dell'Unione.

Una delle leggi che ha destato più preoccupazione nelle cancellerie continentali, e in particolare in Germania e Francia, é stata la legge sulla stampa, votata alle camere lo scorso autunno. La legge prevede, infatti, un organo che vigili sulla stampa presieduto da due membri eletti direttamente dalla stessa maggioranza parlamentare del presidente Orban. Quest’organo di vigilanza ha la facoltà di emettere multe fino a 200 milioni di fiorini (quasi 750 mila euro) qualora ravvisasse delle violazioni; può sospendere trasmissioni radio-televisive, chiedere ai giornalisti la rivelazione delle loro fonti, togliere le licenze agli editori “colpevoli” e chiedere inoltre di garantire un “bilanciamento” delle notizie con l'obbligatorietà di un contradditorio (una sorta di par condicio all'ungherese), dando sempre la possibilità di replica a un membro del Governo.

Il ministro delle Comunicazioni ungherese, Zoltan Kovacs, ha cercato goffamente di giustificare la legge, adducendo la scusa che gli “elementi tecnici” presenti nella legge si possono trovare tranquillamente anche in molte leggi sulla stampa di altri paesi europei, facendo l'esempio della Germania, paese nel quale é vietato per legge scrivere articoli di natura anti-semita nei giornali. Dal canto suo, Orban ha poi aggiunto che, in caso l'Unione Europea trovasse che la legge non sia conforme alle legislazioni in vigore in Europa, allora farebbe emendare la legge; allo stesso tempo ha però anche affermato che l'Unione Europea non si dovrebbe comunque intromettere negli affari ungheresi, accusando apertamente Francia e Germania: “Nessuno Stato o Nazione ha il diritto di criticare” ha detto: “Se Bruxelles dovesse continuare a immischiarsi negli affari ungheresi allora sono pronto a combattere... E ciò non sarebbe dannoso solo per l'Ungheria, ma per tutta l'Unione Europea”.

In realtà, la legge sui media non é che solo una delle tante iniziative autoritarie intraprese dal nuovo governo. Orban ha recentemente abolito la Commissione del Fisco, organo indipendente che controlla i budget di spesa statali; ha confiscato i fondi di un sistema pensionistico privato creato per i dipendenti pubblici, usandoli per finanziare il suo piano di tagli; ha letteralmente spogliato la Corte Costituzionale in materia di legislazione economica dopo che la Corte stessa gli aveva respinto una norma che avrebbe introdotto una tassa retroattiva sulle liquidazioni dei lavoratori.

Un altro aspetto che preoccupa non poco la UE, sono gli spettri del passato che Orban richiama continuamente alla memoria. Nel luglio 2010, ad esempio, é passata una legge che stabilisce la festa di Unità Nazionale per il 4 Giugno, giorno che commemora il Trattato di Trianon firmato nel 1920 con il quale si estingueva definitivamente il glorioso impero austro-ungarico. A questo proposito, Orban parla spesso di “tragedia nazionale”, ricordando i trattati di pace che hanno sancito la fine della prima guerra mondiale. Con una nuova legge, ha garantito poi la cittadinanza magiara ad ogni individuo di etnia ungherese che viva nei paesi vicini, scatenando tra l'altro forti proteste in Slovacchia, paese confinante che ha al suo interno una minoranze ungherese (10% sul totale della popolazione slovacca) molto forte e nostalgica.

L'impatto del comportamento del primo ministro ungherese sull'Unione Europea, preoccupa molto la cancelleria tedesca. La Merkel ha più volte richiamato l'attenzione degli altri Stati dell'Unione sull'attività del governo ungherese e la legge sui media non é stata che l'ultima goccia di un vaso da mesi traboccante. La Cancelliera tedesca ha più volte affermato la necessità di non sottovalutare certi comportamenti autoritari di Stati membri, onde prevenire che certi virus possano attaccare anche altri paesi UE.

Quello del primo ministro ungherese, é un approccio autoritario, sciovinista e nazionalista, anche se possiamo comunque affermare che Orban non é un fascista o un razzista della destra ultraconservatrice. Gli analisti politici ungheresi sono infatti d'accordo nell'affermare che la politica di Orban ha avuto, se non altro, l'effetto benefico di limitare notevolmente l'influenza del partito di estrema destra Jobbik, che raccoglieva molti voti tra gli skin-heads, fino quasi a farlo sparire dalla scena politica.

Il governo Orban negli ultimi mesi ha portato a termine la ri-nazionalizzazione di diverse aziende che erano di proprietà statale sotto il regime comunista; ha imposto tasse corporative piuttosto elevate alle molte multinazionali straniere presenti in Ungheria, le quali, sfruttando il basso costo della manodopera locale, danno comunque lavoro a centinaia di migliaia di persone, soprattutto a Budapest nel settore terziario. Ha infine messo a punto delle rischiose strategie fiscali per la ripresa economica del paese, che molto sta soffrendo la crisi degli ultimi due anni, in modo da “tenere lontano il Fondo Monetario Internazionale dagli interessi ungheresi”.

Alla luce di tutti gli aspetti descritti sopra, alcuni analisti politici americani ed europei hanno parlato di Putinizzazione del'Ungheria. In effetti, le politiche di nazionalizzazione, l'attività censoria sulla stampa e il forte stampo nazionalista, possono anche disegnare un parallelo tra l'attuale governo ungherese e l'odiato ex impero coloniale russo.

In realtà Orban sembra ispirarsi più al nostro presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, di cui tra l'altro é molto amico, tanto da vantarsi di avere colloqui settimanali con Palazzo Chigi. L'unica sostanziale differenza tra i due primi ministri é data forse dalla vita privata: quella del più giovane quarantasettenne Orban, sembra essere molto più morigerata.

 

di Mario Braconi

La nostra storia inizia a marzo del 2009, quando a Luton, centro di 240.000 abitanti a cinquanta chilometri da Londra, un gruppo di musulmani ha “accolto” con gli slogan “assassini di bambini” e “macellai” il Royal Anglian Regiment, che sfilava per le vie della città subito dopo il rientro dall’Afghanistan. I bravi cittadini di Luton, già irritati dalle esternazioni della minoranza rumorosa di islamici, hanno perso la pazienza quando sui media ha cominciato a circolare il demenziale video propagandistico che ritrae Anjem Choudary, Imam estremista e “mente” della manifestazione contro le forze armate, mentre, proprio nel bel mezzo della dimostrazione anti-esercito, si dà alla conversione di un undicenne britannico “Sean”: un “documento” pateticamente propagandistico che, in un clima più sereno, avrebbe al più fatto sorridere dell’ingenuità di chi lo aveva concepito.

E invece le scomposte quanto puerili provocazioni messe in atto da alcuni membri del clero islamico dalle posizioni estreme e belligeranti sono state la causa scatenante della nascita della English Defence League (EDL), un’organizzazione di estrema destra che ufficialmente si propone di difendere, appunto, l’Inghilterra, contrastando in modo “determinato” la diffusione dell’Islam militante, della Sharia e del terrorismo islamico in Inghilterra.

Il brodo di coltura di questo nuovo e preoccupante fenomeno politico-sociale è quello delle tifoserie calcistiche, in particolare quel sottogruppo noto in Gran Bretagna come “casual football”, cosiddetto per lo stile elegante dei capi indossati dai suoi adepti, il cui scopo è rendere assai difficile per la polizia distinguere dall’aspetto esterno un pericoloso hooligan da un figlio di papà.

Anche se alcuni dei leader della neonata formazione politica non si sono mai conosciuti di persona, a garantire la coesione del movimento è stato, manco a dirlo, il tam-tam informatico sui vari social network. Il successo del movimento è stato esplosivo: si contano già almeno sei raggruppamenti territoriali nella sola Inghilterra, mentre si sono di recente formati movimenti gemelli in Svezia, Norvegia e Olanda; la EDL, infine, può contare sul supporto di organizzazioni neofasciste più antiche e radicate in Francia, Germania e Danimarca.

Benché la EDL si sbracci ad edulcorare il potenziale infettivo delle sua idee e nonostante lo stesso British National Party (BNP) sostenga di non aver niente a che fare con la neonata organizzazione nazionalista e anti-islamica, gli attivisti antirazzisti sostengono, prove alla mano, che tra le fila di EDL militano anche diversi (ex?) operativi del BNP e che molti di loro hanno precedenti per violenza allo stadio.

Per queste ragioni, ogni volta che la EDL organizza un corteo, si registrano scontri fisici tanto con la polizia e che con gli oppositori e un numero variabile (ma sempre rilevante) di arresti da entrambi i lati. Si stima che il costo per la sicurezza pubblica di ognuna di queste manifestazioni possa arrivare a sfiorare il milione di sterline.

Quella organizzata dalla EDL il 5 febbraio a Luton, centro che per la EDL ha ovviamente un particolare significato, era da giorni un mal di testa per la polizia: anche in questo caso i circa 7.000 simpatizzanti hanno dovuto vedersela con le numerose organizzazioni anti-fasciste ed anti-razziste, ovviamente non disposte a lasciare campo libero a quelli che, con molte ragioni, considerano dei razzisti e dei violenti.

Nel corso di una recente intervista televisiva per la BBC, il giornalista e conduttore Jeremy Paxman ha grigliato per diversi minuti il “coattissimo” Stephen Yaxley-Lennon, (noto anche con il nome di Tommy Robinson), leader della EDL. La comprensibile irritazione del conduttore per gli eccessi verbali del suo ospite è però suonata ad alcuni commentatori progressisti intrisa di paternalismo e di una indimostrata e vagamente superficiale certezza: che quello dei nuovi “difensori dell’ identità britannica” sia un fuoco fatuo. Benché ciò sia auspicabile, non è detto che le cose stiano veramente così: infatti, come nota Jon Cuddas, deputato laburista che ha sfidato con successo il BNP, l’EDL è concepito per operare magnificamente nel milieu culturale della classe popolare maschile inglese, dove a farla da padrone sono i capi firmati e le discussioni di sport condite da decine di “pinte”.

La cosa buffa è che, come nota provocatoriamente Suzanne Moore sul Guardian, i nuovi adepti della EDL potrebbero benissimo provenire dalle file del New Labour, che a suo tempo si è dato ad un lavaggio del cervello del popolo a base di confusi concetti, il cui vero obiettivo era convincere gli elettori dell’ineluttabilità storica e culturale della guerra in Iraq. E in effetti, nota polemicamente la giornalista, c’è qualcosa di perversamente ironico nel vedere l’estrema destra utilizzare la causa dei diritti delle donne come pretesto per scatenare una rissa al pub, se non fosse che il tutto suona più pericoloso che divertente.

Sottovalutare la EDL è un grave errore politico, come del resto conferma la testimonianza di Nick Lowles, redattore di Searchlight, il periodico del movimento antirazzista internazionale: innanzitutto, scrive Lowles, si rischia che l’organizzazione evolva verso la forma di un esercito di strada; inoltre, la EDL ha una innegabile sagacia organizzativa e di comunicazione che la rende temibile. Infatti, essa programma i suoi “interventi” in vere e proprie polveriere che attendono solo l’innesco di una miccia. Inoltre, la EDL ci tiene molto a non essere definito un movimento razzista, e anzi può vantare tra le sue fila numerosi gruppi di minoranze (sikh, omosessuali, ebrei): un atteggiamento di inclusione sociale, caro ai liberal e (un tempo) loro esclusivo appannaggio culturale.

Senza contare che, come nota il professor Matthew Goodwin dell’Università di Manchester, la ragione per la quale l’islamofobia della EDL ai giorni nostri è particolarmente efficiente politicamente è che, a differenza di quanto accadeva negli anni settanta, quando il Fronte Nazionale si fece terra bruciata attorno manifestando aperto antisemitismo, oggi interi settori dei media e dell’establishment britannico sono relativamente inclini all’islamofobia. In questa temperie culturale, può ben accadere che giovani ben sbarbati nei loro impeccabili Aquascutum diano fuoco a qualche misera botteguccia gestita da asiatici. Il tutto, beninteso, per preservare la purezza della nostra “società aperta”.

di Carlo Musilli 

Il Sudan ha accettato la secessione del Sud: il 99% dei votanti delle regioni meridionali ha scelto l'indipendenza. E' stato questo il termine di un processo iniziato con l'accordo di pace siglato a Nairobi nel 2005, che pose fine, almeno formalmente, a una guerra civile durata 22 anni. Il conflitto, costato la vita a oltre due milioni di persone, ha messo a confronto i musulmani arabi del nord e la regione autonoma del sud, abitata da circa 6 milioni di africani cristiani. I risultati definitivi del referendum arriveranno solo il 14 febbraio. Se, come pare ovvio, saranno confermati, il nuovo Paese sarà libero di dichiarare ufficialmente la propria indipendenza il prossimo 9 luglio.

Può sembrare una storia a lieto fine, ma non lo è. Semplicemente perché ancora siamo ben lontani dalla fine. Il governo del Sudan ha scelto la strada del pragmatismo, l'unica possibile. Il sanguinario presidente al Bashir, infatti, è messo da più parti sotto pressione. Giudicato due anni fa colpevole dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l'umanità nel Darfur, oggi il dittatore si ritrova anche parecchi problemi in casa. E non solo al sud: le rivolte popolari in Tunisia e in Egitto sembrano aver incoraggiato alcuni gruppi a protestare contro il governo anche nel nord del Paese. A sua volta, lo strappo che si è consumato con successo in Sudan potrebbe rinvigorire altri movimenti indipendentisti africani: il Mthwakazi Liberation, che vuole dividere il Matabeleland dallo Zimbabwe, e il gruppo etnico dei Lozi, che punta all'autonomia nella parte occidentale dello Zambia.

Nonostante tutto, al Bashir sa benissimo che la strada per la secessione è ancora lunga e piena di ostacoli. Partiamo dal piano politico. Non è ancora chiaro quale percorso seguirà il confine fra i due stati ed è verosimile che in diversi casi si possa arrivare allo scontro. La regione centrale di Abyei, ad esempio (10 mila chilometri quadrati fertili e ricchi di petrolio) è contesa fra le due parti. C'è poi la questione del diritto di cittadinanza nel nuovo stato: a quali sudanesi sarà riconosciuto? In che modo?

Sul piano economico, come prevedibile, il discorso assume toni drammatici. Il Sudan ha un debito pubblico da 36 miliardi di dollari che i nuovi cittadini del sud non hanno nessuna intenzione di tenersi sulle spalle. Ma oltre ai soldi da pagare, c'è anche la ricchezza da produrre. I negoziati più difficili saranno proprio quelli relativi alle risorse economiche. I due stati dovranno trovare un accordo per spartirsi i terreni più produttivi, alcuni dei quali bagnati dal Nilo, le miniere d'oro, il gas naturale e, soprattutto, il petrolio.

Sarà proprio questo il punto più delicato della trattativa. Sia il nord che il sud del Paese fondano la stragrande maggioranza della propria economia sull'oro nero. Ma, purtroppo per loro, anche a secessione avvenuta, nessuno dei due territori potrà fare a meno dell'altro. Se nel sud, prevalentemente rurale, si trovano i tre quarti dei giacimenti, l'unico oleodotto del paese arriva a Port Sudan, nel nord. Qui sorgono anche tutte le infrastrutture per la lavorazione.

Non è certo facile immaginare che gli abitanti delle regioni meridionali scelgano di privarsi, seppure in parte, della loro unica ricchezza. Si fa strada così il progetto per un nuovo oleodotto tra Juba (Sudan meridionale) e Lamu (Kenya), che costringerebbe il nord a sperare in una produzione autonoma da sviluppare attraverso giacimenti nel mar Rosso.
E' inoltre probabile che nel nuovo stato meridionale si formino diversi gruppi in contrasto fra loro per il controllo delle risorse. Conflitti che potenzialmente si aggiungeranno a quelli lungo il nuovo confine, in corrispondenza dei territori più contesi. Tutto questo in una delle regioni più sottosviluppate del mondo.
 

di Carlo Benedetti 

MOSCA. Arriva al Cremlino, direttamente dalle valli del Caucaso del Nord, un video di guerra che annuncia nuovi atti di terrorismo (“sangue e lacrime per tutta la Russia”) per ribadire la volontà d’indipendenza della già martoriata regione cecena. Il volto dello speaker della morte è quello del leader degli insorti di Grozny, l’emiro Doku Chamatovic Umarov. Un personaggio temuto e leggendario. Ricercato da tutti i servizi segreti di Mosca per una catena di omicidi e di attentati, di questa “primula rossa” (tinta però dal verde dell’Islam) non si hanno notizie attendibili.

Tutto quello che lo riguarda è avvolto nella nebbia. E’ stato dato per morto più volte e l’ultimo annuncio funebre è del 2 gennaio scorso. Ma questo Bin Laden in salsa cecena continua a dar segni di vita a colpi di minacce e di veri attentati. Ora, sulla scia della strage del 24 gennaio nell’aeroporto “Domodiedovo” della capitale (5 chilogrammi di tritolo fatti esplodere tra i passeggeri nella grande sala d’imbarco), alza ancora il tiro e annuncia nuovi passi nella strategia del terrore.

Il segnale piomba su un paese che già vive in stato d’allarme con la polizia (sino a ieri definita milizia) che pattuglia ovunque, con i kalashnikov a portata di mano e con i piccoli blindati sempre in moto, mentre nelle caserme sono stati richiamati i riservisti.

La situazione scotta: questo Doku tiene sveglio il Cremlino. E un pur allenato Putin (che nella guerra contro la Cecenia ha sempre un ruolo di comandante in capo) mostra di avere i nervi a fior di pelle nei confronti di questa “primula” del Caucaso che risorge e fa paura. Seguiamo dall’inizio la vicenda di questo emiro che attacca l’orso russo.

Doku nasce a Kharsenoi (nel “teip” di Malkov, distretto di Shatovsky nella Cecenia meridionale) il 13 aprile 1964. Si laurea con ottimi voti in ingegneria edile, a Grozny. E’ in questi anni che entra in contatto con gli schieramenti che predicano la secessione da Mosca. Nazionalista e fervente religioso diviene uno degli esponenti di spicco della resistenza, forte anche della sua qualifica di emiro di quello che definì “Emirato del Caucaso” e cioè un territorio che doveva comprendere una grossa porzione della Russia meridionale e l’intera regione del Volga. Intanto Doku entra nell’esercito russo e si distingue per il suo coraggio.

Inizia quindi la scalata nella nuova nomenklatura dell’indipendentismo caucasico. Dal 2006 al 2007 è presidente della “Repubblica Ichkeria”, cioè la Cecenia dei ceceni. Fonda poi il nuovo Emirato del Caucaso settentrionale, uno Stato islamico che non verrà però riconosciuto. Ma la linea è già chiara. La “scelta” è quella del terrorismo a tutto campo oltre i confini della Cecenia. Inizia una tragica escalation con l’attentato del 29 marzo 2010 alla Metropolitana di Mosca dove una bomba - firmata dall’emiro - uccide 40 passeggeri.

L’attacco della guerriglia è quindi diretto al cuore della Russia. Con il Cremlino che tenta la strada della sottovalutazione della questione caucasica credendo di risolvere il problema confidando nel quisling Roman Kadyrov sistemato alla presidenza di una Cecena filorussa direttamente da Putin. Intanto l’emiro Doku torna a far parlare di se, ma questa volta perché annuncia (via Youtube) di lasciare la guida delle forze secessioniste passando il testimone a un leader più giovane: “Aslambek Vadalov, più energico di me”. “Ma questo non vuol dire - nota poi l’emiro - che mi ritiro dalla jihad”. Gli fa eco, subito il presidente della Cecenia filorussa, il quale afferma che Doku ”è malato, si nasconde in una tana come un ratto a schiacciare le pulci, non ha più denti e non è più in grado di comandare”.

Quanto all’attuale erede si sa che è un veterano della prima guerra, quella scatenata da Eltsin nel periodo 1994-1996 e che si è poi distinto combattendo contro le forze di Putin nel 1999 a fianco dell’emiro Ibn Al-Khattab. Il nuovo personaggio è ora nel mirino dei servizi russi che lo studiano attentamente. E per ora è guerra di nervi.

C’è, infine, in queste storie caucasiche, un’appendice italiana. Perché le autorità russe nei giorni scorsi avevano chiesto all'Italia di fornire tutte le informazioni sull'arresto di un ceceno - Ruslan Umarov di 35 anni - ritenuto il fratello di Doku Umarov. Ma si è poi accertato che l’uomo ricercato dai “servizi” russi non era ceceno, ma il daghestano Anvar Sharipov fratello di una delle kamikaze dell'attentato al metrò di Mosca avvenuto il 29 marzo 2010.


 

di Michele Paris

Lo scioglimento del Parlamento irlandese e le imminenti elezioni anticipate, rappresentano l’ultimo atto di una farsa politica che ha segnato la fine della disastrosa esperienza di governo del primo ministro Brian Cowen. Mentre il voto del 25 febbraio prossimo produrrà un’inevitabile quanto umiliante sconfitta per il suo partito (Fianna Fáil), il nuovo Esecutivo che uscirà dalle urne è destinato a seguire lo stesso percorso fatto di devastanti misure di austerity per ripagare il prestito erogato dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale seguito alla crisi che ha sconvolto l’ormai ex “Tigre Celtica”.

Le tensioni sociali che attraversano l’Irlanda da oltre due anni a questa parte si sono amplificate nel corso delle ultime settimane, fino a produrre un totale sconvolgimento del panorama politico. Al centro delle trame dei vari partiti - alternativamente preoccupati per la loro sopravvivenza politica o decisi a sfruttare l’occasione per conquistare il potere - ci sono le sorti del Taoiseach (primo ministro) Cowen. A preannunciare il destino di quest’ultimo era stato peraltro uno scoop giornalistico, che aveva rivelato la sua complicità con il mondo della finanza responsabile del tracollo dell’economia irlandese.

In un recente libro, infatti, è stata descritta una telefonata e un amichevole incontro di golf tra lo stesso Cowen e Sean Fitzpatrick, già presidente di Anglo-Irish Bank. Il finanziere irlandese, nel 2008, si sarebbe sentito con l’allora ministro delle Finanze per concordare il salvataggio della propria banca sull’orlo del collasso. Poco più tardi, il governo di Dublino avrebbe incluso la Anglo-Irish Bank nel provvedimento di emergenza adottato per garantire tutti i depositi degli istituti bancari del paese, una decisione che avrebbe trasferito i circa trenta miliardi di debito della banca guidata da Fitzpatrick ai bilanci pubblici.

Con la prospettiva di un rovescio memorabile nelle prossime elezioni, a fare il passo decisivo verso la crisi di governo sono stati i Verdi, principale partner del partito di maggioranza. Allarmati per la loro stessa sopravvivenza politica, un paio di settimane fa i Verdi hanno così ritirato il proprio sostegno al gabinetto Cowen, passando all’opposizione. Nel frattempo, per il primo ministro la situazione ha cominciato a farsi critica anche sul fronte interno al proprio partito. I vertici del Fianna Fáil hanno cercato di dargli la spallata per presentarsi al voto anticipato con un leader meno impopolare. Brian Cowen, sostituito dal suo ex ministro degli Esteri, Michael Martin, è stato dunque costretto a farsi da parte, diventando il primo Taoiseach nella storia irlandese a non ricoprire contemporaneamente la carica di segretario del partito di maggioranza relativa.

Il tentativo di proseguire nella propria azione di governo è stato poi ostacolato dalle dimissioni di otto ministri. Dopo il fallito tentativo di rimpasto, Cowen si è ritrovato con soli sette ministri per guidare quindici dicasteri. Definitivamente alle corde, l’ex leader del Fianna Fáil ha alla fine informato i membri del Dáil, la camera bassa del parlamento irlandese (Oireachtas), di aver chiesto ufficialmente alla presidente dell’Irlanda, Mary McAleese, lo scioglimento delle camere con oltre un anno di anticipo sulla scadenza naturale della legislatura. La fine della carriera politica di Cowen, assieme al riconoscimento dei disastri provocati dalla sua gestione, era giunta pochi giorni prima con la rinuncia ufficiale alla sua candidatura nelle prossime elezioni.

Dopo essere diventata un modello di crescita economica, l’Irlanda ha visto crollare miseramente la propria economia con l’esplosione nel 2008 di una gigantesca bolla immobiliare speculativa. Da allora si sono susseguite una serie di misure di emergenza per salvare le banche più esposte, e ora nazionalizzate, che sono costate centinaia di miliardi di euro.

Con lo svuotamento delle casse pubbliche e sotto la minaccia crescente della speculazione internazionale, il governo di Dublino ha diligentemente proceduto al taglio della spesa sociale e degli stipendi pubblici, così come all’innalzamento del carico fiscale, provocando una crisi sociale che gli irlandesi credevano di aver definitivamente dimenticato grazie alle promesse della deregulation e del libero mercato. Quando, alla fine, l’unica soluzione è sembrata quella di accettare la medicina del Fondo Monetario e della Banca Centrale Europea per accedere ad un prestito di 85 miliardi di euro, nuovi e ancora più dolorosi provvedimenti sono giunti dal governo Cowen.

Erogata la prima tranche del pacchetto salva-Irlanda da 5 miliardi, FMI e BCE hanno chiesto a Dublino di andare oltre e di affondare ulteriormente gli attacchi ai lavoratori e alla classe media indigena. Per sbloccare il resto degli aiuti era perciò necessario approvare una nuova manovra di bilancio che prevede tagli al welfare per 780 milioni di euro, così da mettere l’Irlanda sulla strada verso la riduzione del deficit al di sotto del tre per cento del PIL entro il 2015.

Nonostante gli attacchi giunti da più parti al primo ministro, praticamente tutte le principali forze politiche irlandesi ne hanno condiviso le difficili scelte di politica economica prese in questi due anni. A conferma di ciò vi è l’ampio consenso raccolto dalla legge di bilancio straordinaria appena approvata. Dal momento che, con la defezione dei Verdi,  Brian Cowen si è ritrovato a guidare un governo di minoranza, per ottenere il via libera dalle due camere il cosiddetto “Financial bill” ha avuto bisogno del sostegno di almeno una parte dell’opposizione, come puntualmente è avvenuto.

Grazie poi alle trattative condotte dal ministro delle Finanze, Brian Lenihan, il governo ha evitato una mozione di sfiducia che i due principali partiti di opposizione - Fine Gael (centro destra) e Laburisti (centro-sinistra) - minacciavano di presentare in caso Cowen avesse rifiutato di dimettersi in tempi brevi. L’accordo siglato ha anticipato le elezioni (inizialmente fissate per l’11 marzo) al 25 febbraio, rivelando la totale sottomissione della classe politica irlandese alle élite finanziarie. Il timore era che, anche in questi pochi giorni di differenza, un governo debole e screditato avrebbe potuto esporre il Paese agli attacchi della speculazione internazionale.

I cambiamenti promossi ai vertici del Fianna Fáil a nulla serviranno per evitare una sonora batosta elettorale ad un partito che, a partire dalla sua fondazione nel 1926, ha governato l’Irlanda per ben 61 anni. A beneficiarne saranno Fine Gael e Labour, entrambi nettamente avanti nei sondaggi, che daranno vita ad un governo di coalizione. Per il partito di Cowen c’è addirittura il rischio di vedersi sopravanzare dai nazionalisti del Sinn Féin che potrebbero diventare la prima forza di opposizione, anche grazie al contributo del leader nord-irlandese Gerry Adams, candidato al parlamento della repubblica d’Irlanda.

La politica economica di Dublino, in ogni caso, non cambierà di molto con il prossimo governo. Fine Gael e Labour si sono infatti limitati a criticare Cowen per i metodi con cui sta implementando le misure richieste dal Fondo Monetario e dalla BCE, non certo per le devastazioni sociali provocate nel paese o per la sostanziale rinuncia alla sovranità nazionale in politica economica. Entrambi i partiti si sono limitati a promettere una rinegoziazione del maxi prestito, così da ottenere al massimo tempi più lunghi per ripagarlo o interessi meno gravosi. Il nuovo gabinetto chiederà insomma altri sacrifici a quegli irlandesi che stanno subendo duramente gli effetti delle misure draconiane già implementate.

Una prospettiva che lascia intravedere un ulteriore aumento del malcontento popolare nel prossimo futuro e con il quale il governo che uscirà dalle urne dovrà fare i conti ben presto, dopo una luna di miele con gli elettori che, è facile prevedere, si annuncia di breve durata.


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