di Emanuela Pessina

BERLINO. Infuoca in Germania il dibattito sull'immigrazione scatenato qualche tempo fa dal libro di Thilo Sarrazin "La Germania si distrugge da sola", in cui l'ex dirigente della Bundesbank giustificava il razzismo con la necessità di una selezione biologica conforme all'intelligenza e al ceto sociale. Ed è proprio sullo sfondo di questa discussione che il quotidiano di sinistra berlinese Tageszeitung (Taz) offre un interessante confronto tra i vari modelli di gestione dei flussi migratori nei vari Paesi europei, nonché uno sguardo d'inseme sulla neodirettiva comunitaria proposta dalla Commissione nel 2009: una riflessione che lascia intravedere numerose incertezze per il futuro.

Se, da una parte, Eurolandia si sente pronta per una politica di integrazione comune a tutti gli Stati membri, dall'altra non si può evitare di notare le numerose differenze di base che contraddistinguono i singoli Stati. Ogni Paese ha esigenze profondamente diverse che mettono in discussione l'effettiva utilità di una direttiva comunitaria. Una legge, del resto, estremamente severa e incentrata ancora una volta su lavoro e reddito.

In Germania, ad esempio, l'ultimo reclutamento sistematico di forze lavoro dall'estero risale al 1973. Eppure, già nel 2000 è stata introdotto un permesso particolare per tecnici specializzati, primo segnale di una crisi di personale qualificato. Alla scadenza del permesso, i tecnici possono rimanere solo se guadagnano più di 66mila Euro all'anno. L'immigrato che guadagna meno, invece, viene messo alla sbarra: il datore di lavoro deve garantirne l'assoluta necessità all'interno dell'azienda e dimostrare che nessun tedesco o comunitario è in grado di prendere il suo posto. Dal 2007, inoltre, i familiari di coloro che possono raggiungere i propri congiunti solo dopo aver superato un test di lingua. Il diritto a rimanere in Germania viene concesso anche a coloro che non vengono espulsi entro sei anni.

In Danimarca, invece, la selezione degli immigrati avviene tramite una valutazione 'a punteggio'. Si tratta di una stima sistematica delle possibilità effettive di un extracomunitario di trovare lavoro: la laurea, ad esempio, vale 50 punti, la giovane età può arrivare a garantire 15 punti, mentre una formazione europea regala al candidato ben 10 punti.  Cento punti, 10mila euro e un'assicurazione sanitaria garantiscono al potenziale lavoratore un permesso di sei mesi, periodo durante il quale il candidato può trovarsi un lavoro. Se questo avviene, l'extracomunitario ottiene un permesso di tre anni e ha la possibilità di trasferire anche la famiglia.

La situazione degli extracomunitari in Italia non è purtroppo delle migliori. Qui gli immigrati sono parte integrante della società ma offrono un contributo che rimane quasi completamente sommerso. Assistenza sociale e paramedica, agricoltura, edilizia e catene di montaggio sono solo alcuni dei settori in cui la manodopera degli extracomunitari è indispensabile, laddove cioè l'italiano medio non vuole più lavorare. La maggior parte degli immigrati, tuttavia, lavora in nero e le possibilità di vedersi concesso un permesso di soggiorno effettivo diminuiscono sempre più.

I permessi, di regola, vengono concessi solo per un anno. Chi ha un contratto a tempo indeterminato si vede rinnovare il permesso per un biennio. Un permesso di soggiorno a tempo indeterminato viene concesso solo a chi vive in Italia da più di sei anni. Il che, vista la campagna anti immigrazione portata avanti dalla Lega e sostenuta più o meno apertamente dal governo tutto, è un traguardo umano e sociale, prima che legale.

L'unica a mostrare una certa apertura nei confronti degli immigrati illegali è forse la Spagna, che conta d'altra parte più un milione di immigrati illegali nel suo territorio. Per il momento, la politica di integrazione spagnola è molto diretta: chi ha lavoro può rimanere, chi è senza lavoro se ne deve andare. Il governo socialista di Zapatero vuole tuttavia introdurre il concetto di “radicamento professionale” e “sociale”. Il radicamento professionale garantisce a chi dimostra due anni di lavoro regolare la possibilità di richiedere “los papeles”, mentre quello sociale riconosce dei diritti di permanenza a coloro che trovano un'occupazione dopo essere stati per almeno tre anni in Spagna, anche illegalmente.

E ora Eurolandia sente il bisogno di una direttiva comune nei confronti degli extracomunitari, forse per ribadire a voce ancora più alta la propria identità. Teoricamente, le basi per un controllo dell'immigrazione a livello comunitario sono già state gettate. Dopo parecchi anni di discussione, nel 2009 gli stati membri hanno trovato l'accordo per la cosiddetta 'Blue Card', un visto comunitario simile alla Green Card americana.

Secondo la proposta della Commissione europea, la Blue Card dà agli extracomunitari il diritto di cercare lavoro per due anni soltanto nel Paese da cui è stata emessa. Per un eventuale prolungamento, il candidato deve ottenere un posto di lavoro che gli garantisca uno stipendio di una volta e mezzo maggiore rispetto a quello medio del Paese. Concretamente, però, i singoli Stati possono alzare a piacere la soglia di stipendio richiesta.

La Commissione, tuttavia, ha già ben chiara la direzione di questa Blue Card. Secondo le prime stime, infatti, saranno i più qualificati a concorrere per il permesso. Ciò significa l'1.7% dei lavoratori del continente africano; in Canada, tanto per fare un confronto, sono il 7.3% a rientrare nel parametro. Un furto legalizzato di forze lavoro specializzate, quindi, a quei Paesi che non appartengono alla comunità europea, nonché una selezione a priori di quale tipologia di extracomunitario potrà entrare in Europa. Nonostante molti Paesi abbiano minacciato il veto, la direttiva entrerà in vigore nei Paesi membri della EU entro marzo 2011. Le premesse non lasciano intravedere la maggiore flessibilità sperata in ambito integrazione. Dopo avergli saccheggiato le risorse, gli rubiamo anche la mano d’opera. L’Europa dei mercanti sa fare i suoi affari.

 

di Fabrizio Casari

Con il 56% dei voti, Dilma Rousseff, candidata del PT e, prima ancora, candidata di Lula alla guida del Paese, è stata eletta Presidente del Brasile. E’ la prima volta, in oltre 120 anni di Repubblica, che il gigante latinoamericano sceglie una donna per la presidenza. Un successo che si annunciava già dai sondaggi che si accavallavano in campagna elettorale; i due mandati del suo predecessore e mentore, Ignacio Lula da Silva, erano stati segnati da un tale successo che il proseguimento del Partito dei Lavoratori al potere era sembrato inevitabile.

Il fatto che lo stesso ex-presidente uscente avesse deciso, in totale autonomia, di candidare l’ex-guerrigliera, ha avuto l’effetto di calamitare il voto anche di chi della Roussef conosceva poco. L’elezione di Dilma, infatti, per molti brasiliani è stata anche un modo di rendere tributo agli anni di presidenza Lula, considerati universalmente come i migliori della storia moderna brasiliana. L’aver dovuto ricorrere al secondo turno, pare semmai essere, al momento, la tassa di successione che l’economista esponente del PT abbia pagato per gestire il patrimonio lasciatole da Lula.

Lo stesso Partito dei Lavoratori risentirà positivamente del successo ottenuto dalla Roussef, giacché è indiscutibile che la sua candidatura, proprio perché priva del carisma autosufficiente del predecessore, ha espresso un voto favorevole anche al partito nel quale ha sempre militato, che non si è risparmiato nella campagna elettorale.

E seppure la popolarità di Lula (l’83% dei brasiliani giudicano “ottima” o “molto buona” la sua presidenza ndr) é stata certamente determinante per il successo della nuova Presidente, Dilma Rousseff non può essere considerata esclusivamente il prodotto di una scelta di continuità. Da guerrigliera a Ministro della Repubblica, questa donna di 62 anni ha dedicato la sua vita al Brasile.

Che la sua popolarità sia passata dai verbali della polizia politica della dittatura militare brasiliana, (che in esecuzione del Plan Condor era impegnata nel perseguire agli oppositori) a quella dei quartieri del ceto medio e delle favelas brasiliane, è merito proprio di un carattere e di una abilità politica di Dilma che non vanno sottovalutate. E se il voto brasiliano si è espresso nel segno della continuità con gli anni della presidenza Lula, scegliendo la continuità, la nuova inquilina del Planalto si troverà a dover gestire una fase politica di grande prospettiva.

Gli anni di presidenza Lula hanno visto ridursi di venti milioni il numero dei poveri, una crescita economica impetuosa, con un Pil che è volato su livelli cinesi ed un ruolo internazionale del Paese che è enormemente cresciuto. Il Brasile che Lula lascia in eredità alla Rousseff ha avuto una prepotente crescita economica e sociale. Sul piano sociale è stata straordinaria la campagna “fame zero”, che ha destinato risorse economiche alla popolazione più emarginata, che solo con la Presidenza Lula si è vista trasformare da problema di ordine pubblico in oggetto di politiche sociali.

L’economia brasiliana è oggi l’ottava al mondo e le politiche keynesiane sviluppatesi nei sette anni appena scorsi (che pure non hanno subìto un aumento dell’inflazione, come i suoi detrattori vaticinano ogni volta che la finanza viene subordinata alla crescita economica generale) hanno permesso la crescita del mercato interno, che ha avuto a che vedere in buona parte con l’accesso al credito di circa 40 milioni di brasiliani, che hanno potuto lasciare il proletariato per divenire classe media.

Il Brasile che lascia Lula, non poi è solo un esempio di buongoverno, ma anche di leadership internazionale. Il Paese, infatti, oltre ad essere impegnato nell’avanzamento della sua crescita economica, è stato parte fondamentale della gestione politica della nuova democrazia latinoamericana. Brasilia, infatti, è stata ed è tuttora alla testa dei processi che, a livello continentale, disegnano il nuovo profilo delle democrazie latinoamericane. Compito che Lula ha svolto con grande abilità; con toni certamente diversi da quelli di Chavez, ma con nettezza non certo minore, la cancelleria brasiliana ha svolto un ruolo decisivo nella riduzione del peso statunitense nel continente.

Il sostegno a Venezuela, Bolivia, Argentina e Cuba, il suo ruolo attivo nella difesa della vita dell’ex-presidente hondureno Zelaya, in sfida ai golpisti honduregni e ai loro sponsor Usa, è stato condotto in simultanea con il progressivo miglioramento dei rapporti bilaterali con i paesi vicini, rendendo il Brasile interlocutore ineliminabile per le controversie regionali e per i piani di crescita economica, tanto a livello continentale che internazionale. Il Brasile ha decisamente modificato il suo status, cessando di essere solo una potenza regionale per divenire un attore globale, il cui peso incide negli equilibri internazionali.

La sua stessa candidatura al seggio permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu è rapidamente diventata una battaglia di quasi tutti i paesi sudamericani, che nel gigante carioca vedono il loro rappresentante destinato a bilanciare per il Sud - almeno parzialmente - lo squilibrio del peso politico del Nord in seno alla comunità internazionale. Mantenere questo livello di prestigio nei diversi fori internazionali - dal G-20 al FMI, all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) - sarà uno dei compiti principali della nuova Presidenza Rousseff.

Nelle sue prime dichiarazioni successive alla vittoria, la Rousseff si é riferita alla “immensa forza che sorge dal popolo” quale arma decisiva per affrontare le sfide maggiori della sua presidenza. La popolazione brasiliana, come i governi democratici latinoamericani, hanno tirato un sospiro di sollievo alla notizia della sua vittoria. L’onda lunga, cominciata negli anni ’90 con la nascita del Foro di Sao Paulo e concretizzatasi poi nella sinistra al governo nella maggior parte dei paesi latinoamericani, é ancora forte. Le pretese di riconquista Usa sul continente, sembrano ancora destinate al magazzino delle nostalgie irripetibili.

di Eugenio Roscini Vitali

Nel luglio scorso, dopo l’annuncio dell’ennesima strage di vittime collaterali, persone innocenti uccise da un razzo che aveva centrato una casa nel distretto di Sangin, nella turbolenta provincia meridionale di Helmand, il presidente afghano, Hamid Karzai, chiedeva alla NATO di introdurre ogni possibile misura per evitare danni ai civili durante le operazioni militari: «Il successo contro il terrorismo non si ottiene lottando nei villaggi afghani, ma colpendo i santuari e le fonti ideologiche e finanziarie che si trovano oltre frontiera».

Il 30 agosto, a poche ore dalla morte di 14 militari americani uccisi in tre diversi attentati e a dopo la pubblicazione dei dati relativi all’incremento delle perdite civili registrate nei combattenti tra i reparti dell’International Security Assistance Force (Isaf) e la guerriglia talebana, Karzai rafforzava la sua posizione affermando: «L’esperienza negli ultimi otto anni dimostra che combattere i talebani nei villaggi afghani è stato inefficace e non porta a nulla tranne che ad uccidere civili. Nell’attuale situazione ripensare e ridefinire la strategia per contrastare gli insorti è diventata un’urgente necessità».

Retorica di un uomo che deve molto del suo successo alle amministrazioni americane che l’hanno sostenuto o coscienza del fatto che questa è una guerra destinata a durare ancora a lungo? Hamid Karzai conosce perfettamente l’importanza geopolitica del suo Paese e sa che la Casa Bianca farebbe di tutto per mantenere il controllo militare dell’Afghanistan, una regione che insieme all’Asia centrale ha ormai assunto una posizione chiave nella moderna filosofia della “strategia del dominio globale”. Una strategia lanciata alla fine del secolo scorso con la Guerra del Golfo e che si è poi sviluppata con l’intervento nei Balcani, in Iraq, nello stesso Afghanistan e con le operazioni segrete nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica: Cecenia, Georgia, Azerbaijan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan.

In realtà, in questi Paesi le attività americane erano cominciate ben prima della guerra contro il terrorismo: negli anni Ottanta era stata la CIA ad organizzare la colossale operazione “Ciclone” e, in collaborazione con l’MI5 britannico e l’intelligence pakistano (ISI - Inter-Services Intelligence), furono i suoi agenti ad addestrare ed armare quegli stessi mujahiddin che, di li a pochi anni, avrebbero costretto l’Armata Rossa alla resa. Un modello talmente efficacie che negli anni Novanta venne esportato anche in Cecenia e che in un prossimo futuro potrebbe essere applicato ad altri Paesi.

Anche se inumano e immorale, fomentare le rivolte tribali e perpetrare atrocità di ogni genere per terrorizzare le popolazioni civili è una strategia che spesso paga e che giustifica le così dette guerre di mantenimento della pace: da un lato si alimenta l’insurrezione armata, dall’altro si spendono milioni di dollari per armare i combattenti dell’anti terrorismo locale. Le “malelingue” pensano che questa particolare strategia, che comprende l’uso della provocazione, dell’inganno e dell’infiltrazione, potrebbe essere stata utilizzata in Iraq per alimentare lo scontro tra sciiti e sunniti, e dal 2003 in Afghanistan, dove avrebbe scatenato la rivolta delle regioni di confine e avrebbe permesso di esportare il conflitto in Pakistan. In numerosi rapporti si parla di gruppi ribelli che avrebbero beneficiavano del sostegno degli Stati Uniti e di forze speciali britanniche e Usa che, nella regione conosciuta come Af-pak, avrebbero segretamente armato i taliban e i militanti jihadisti.

Oltre all’Isaf e alle forze speciali americane, in Afghanistan operano anche i così detti contractors, le compagnie private composte principalmente da ex militari ed ex ufficiali della CIA, mercenari che offrono i loro nefasti servizi a governi, banche e imprese transnazionali. In Iraq i contractors sarebbero stati responsabili del massacro di un ingente numero di civili e il sospetto è che lo stesso tipo di operazioni si starebbe ripetendo anche in Afghanistan ed in Pakistan.

Nonostante tutto, la Xe Services, ex Blackwater, l’esercito mercenario più grande del mondo, rimane il maggiore appaltatore privato dei servizi di sicurezza del Dipartimento di Stato Americano. Per mettere a tacere l’opposizione, il presidente Karzai avrebbe comunque già fatto stilare un piano che prevede lo smantellamento delle circa cinquanta società di sicurezza che operano nel Paese ed entro la fine dell’anno dovrebbero essere interrotti i contratti con la Four Horsemen International, la Compuss, la Ncl Holdings, la White Eagle Security Service, la Abdul Khaliq Achkzai e la stessa Xe Service.

Sin dall’inizio dell’Operazione Enduring Freedom le truppe dell’alleanza hanno avuto bisogno di una rete di rifornimenti, rotte sulle quali potessero viaggiare i camion carichi di carburante e materiale civile, bellico e logistico.  Fino ad oggi la via preferita era quella che dal porto di Karaci raggiunge, attraverso il passo Khyber e il valico di frontiera di Chaman, le basi militari di Bagram e Kandahar, ma ora che gli attacchi dei talebani e dei gruppi qaedisti hanno reso la rotta insicura il Pentagono ha iniziato a prendere in seria considerazione la possibilità di usare in modo permanente i canali di rifornimento che attraversano la regione centroasiatica.

Si tratta della cosiddetta “Rete di distribuzione nord”: la rotta che parte dal porto lettone di Riga e, attraverso la Russia, il Kazakistan e l’Uzbekistan, raggiunge il valico afghano di Termez-Hairatan; la rotta che collega il porto georgiano di Poti, sul Mar Nero, a quello azero di Baku, sul Mar Caspio, e continua poi fino al porto kazaco di Aqtau per poi rientare in Uzbekistan e la rotta, non ancora operativa, che attraversa il Kirghizistan e il Tagikistan.

Attualmente la Rete di distribuzione nord è certamente più sicura di quella pakistana, ma i Paesi che attraversa sono aree storicamente legate ai movimenti jihadisti ed quindi ovvio che, anche qui, la minaccia del terrorismo è qualche cosa di più di una semplice supposizione. C’è poi il problema russo, con Mosca che da tempo chiede agli Stati Uniti di lasciare la presa sull’Asia centrale e per questo ha già rilanciato la Collective Security Treaty Organization (CSTO), l’alleanza che oltre a Russia e Bielorussia comprende altri cinque Paesi dell’ex blocco sovietico: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Armenia. Per potersi assicurare il controllo della regione attraversata dalla Rete di distribuzione nord, Washington deve quindi fare i conti con il Cremlino e con la possibilità che l’area del conflitto afghano, si estenda anche a tutto l’Asia Centrale.

Secondo i servizi segreti americani le tribù afghane, tagike e uzbeke farebbero passare la droga attraverso le montagne che portano in Russia, passi difficilmente transitabili dove si viaggia solo a dorso di mulo; ma c’è anche chi sostiene che l’oppio potrebbe essere trasportato con mezzi più moderni e più rapidi. La difficoltà di portare a termine e con successo la distruzione dei campi di papavero e dei centri di lavorazione dell’oppio e dell’eroina lascia infatti supporre che in Afghanistan si potrebbe ripetere un film già visti: il trasporto su larga scala di eroina organizzato dalla CIA in Vietnam negli anni Sessanta.

Uno dei primi a parlarne è stato Hamid Gul, ex capo dei servizi segreti pakistani dal 1987 al 1989, che recentemente ha definito lo scandalo Wikileaks una denuncia orchestrata dagli stessi Stati Uniti per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica da faccende ben più compromettenti: «Conosco le vostre malefatte in Afghanistan e le lacune nella vostra leadership, il vostro coinvolgimento nel traffico di stupefacenti e come il vostro complesso della sicurezza stampi denaro e truffi i vostri stessi contribuenti». Accuse che il Pentagono ha rimandato al mittente ma che tra qualche anno potrebbero aprire la breccia per un nuovo caso Iran-Contras.

Negli anni Novanta, come si ricorderà, la stampa statunitense pubblicò una serie di rivelazioni esclusive spiegando come tra il 1981 e il 1986 i Contras avevano inondato di crack e cocaina i ghetti americani. Una serie di processi federali e di documenti dell’FBI mostravano l’aspetto più importante del traffico di stupefacenti, concepito, nonostante il divieto dell’ “Emendamenti Boland”, per continuare le operazioni in Nicaragua a sostegno dei Contras; il tutto trasferendo le attività della CIA e degli altri enti federali nelle mani di organizzazioni mercenarie dirette da organismi creati all’interno della stessa Casa Bianca.

La droga non è quindi una novità nelle guerre statunitensi e in Afghanistan l’oppio non è certo una merce rara: dal 2001 la produzione di droga è aumentata di 40 volte e il giro d'affari è ormai superiore al Pil di Paesi come la Slovenia e la Polonia; gli afghani sono i primi produttori al mondo di oppio e di hashish e il primi fornitori dei Paesi dell’Unione Europea e della Russia.

 

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Torniamo sulla storia raccapricciante di Saeed Malekpour, l'ingegnere iraniano sequestrato e torturato dalle autorità iraniane per due anni con false accuse. Altrenotizie.org ha intervistato sua moglie Fatima, all'indomani dell'udienza in cui è stata negata a Saeed ogni possibilità di difendersi dalle fantomatiche accuse rivoltegli. La sentenza è attesa per la prossima settimana e la pena prevista è la condanna a morte. Secondo l'avvocato di Saeed, l'unica speranza di bloccare la sentenza è la raccolta di firme per chiedere la liberazione di Saeed sul sito http://www.gopetition.com/petition/40162.html.

Di che cosa è accusato Saeed?

Le accuse specifiche che gli sono state lette in tribunale sono: “Propaganda contro il regime, intervento contro la sicurezza nazionale attraverso la progettazione e la moderazione di siti web dai contenuti per adulti, insulti ai principi divini, insulti alla Guida Suprema e al Presidente.” In generale, queste accuse sono note come “corruzione della terra.” Ma a parte questo, ad ogni udienza sollevano una nuova accusa. A un certo punto il giudice lo accusò di essere stato in contatto con 10 o 12 gruppi di oppositori al regime. Quando Saeed chiese a quali gruppi si riferisse, il giudice rispose che sapeva bene di cosa stava parlando.

Il quotidiano Kayhan (il giornale più conservatore iraniano, controllato direttamente dal governo iraniano), ha scritto che Saeed ha lavorato per progetti militari canadesi: pura invenzione. Come é possibile che qualcuno che non è nato in Canada e non è un cittadino canadese lavori lavorare su progetti militari canadesi? Un'altra accusa priva di senso è quella di “essere a contatto con stranieri:” Noi viviamo in un paese straniero! Stanno semplicemente cercando qualche pretesto per dimostrare la sua colpevolezza, di cosa non importa. Saeed non sa veramente di cosa è accusato, quindi non può mettere a fuoco la sua difesa su un punto specifico.

Quando ha avuto luogo l'ultima udienza? Che condanna rischia?

L'ultima udienza è stata il 26 ottobre. È stato orribile. Il giudice ha comunicato a Saeed che la pena prevista è la morte. Tutte le richieste di Saeed sono state respinte ancora una volta, anche se in una lettera ufficiale il Capo del Dipartimento giudiziario di Teheran, l'onorevole Avaee, ha chiesto al giudice di approfondire le indagini chiamando in causa esperti informatici. Ma il giudice ha ignorato la richiesta. Come ha detto l'avvocato, è ovvio che la condanna è stata pre-ordinata e qualcun altro sta tirando le fila. La decisione finale della corte arriverà fra 10 giorni.

Perché Saeed è stato arrestato? Pensi che si tratti di un sequestro politico?

Né Saeed né io siamo mai stati attivisti politici, o affiliati a qualsiasi partito politico. Saeed è solo una vittima di uno scenario realizzato dall'Armata Cibernetica Iraniana, un gruppo legato alle Guardie della Rivoluzione. Il termine “invasione culturale da parte dell'Occidente” è una frase molto familiare ai giovani iraniani. Per decenni, con la scusa di tutelare la rivoluzione islamica da questa guerra culturale, ci sono state imposte infinite restrizioni sociali e legali. Saeed e io abbiamo vissuto in un paese occidentale per anni e mio marito stava lavorando come web developer: queste circostanze lo rendono un obiettivo esemplare per la loro guerra.

Il governo iraniano ha aumentato la censura su Internet dopo le elezioni presidenziali truffa nel 2009. L'intelligence iraniana vuole convincere la popolazione che Internet è una cosa pericolosa. Hanno costretto Saeed a confessare, in onda sulla televisione nazionale, di aver acquistato dalla Gran Bretagna del software che sarebbe stato utilizzato per filmare le camere da letto della gente anche se il loro computer è spento. Tutti sanno che questo è impossibile, ma le autorità iraniane vogliono usare questa storia falsa per creare panico e paura tra la gente e convincerla a non usare Internet. Erano in cerca di pretesti pubblici per bloccare diverse migliaia di siti e mio marito è solo una vittima dei piani di queste persone.

Sei riuscita a visitare tuo marito in carcere?

Lo incontrai una volta nel carcere di Evin l'11 dicembre 2008, tre mesi dopo il suo arresto. Mi fu detto che il suo interrogatorio era finito. Feci fatica a riconoscerlo. Era dimagrito assai e non smetteva di tremare. Mi fu immediatamente ovvio che era stato torturato sia fisicamente che psicologicamente. Era in pessime condizioni. Mi disse che, anche dopo aver confessato tutto ciò che volevano da lui, gli dissero che sarebbe rimasto in isolamento fino a quando tutti si sarebbero dimenticati di lui. Quando Saeed disse ai suoi torturatori che una confessione ottenuta sotto tortura era illegale, gli risposero: “Il giudice è uno dei nostri. Renderemo il tuo fascicolo molto voluminoso, stamperemo tutte le tue email e tutte le pagine web, così il giudice non avrà la pazienza di leggere tutte le carte e si accontenterà del nostro riassunto.”

In quella visita, Saeed mi disse di lasciare l'Iran e di non farvi ritorno, perché finché non ero al sicuro non si sentiva in grado di fare nulla per difendersi. Saeed mi chiese di contattare l'ambasciata canadese in Iran per chiedere aiuto, ma quando stavo per lasciare la prigione uno dei carcerieri, che ci controllava a distanza, mi avvertì di non fare stupidaggini, altrimenti sarebbero stati guai grossi.

Tu e la famiglia di Saeed siete stati minacciati di rappresaglie, come nel caso di Sakineh?

Sì, i miei genitori e la famiglia di mio marito sono sotto costante pressione. Riceviamo telefonate minatorie e ci è stato formalmente ed esplicitamente detto che se avessimo rilasciato interviste la posizione di Saeed si sarebbe aggravata. Dopo la pubblicazione della sua lettera, Saeed fu rimesso in isolamento e lo ingannarono dicendogli che sua sorella era stata arrestata. Quando uscì dall'isolamento era un uomo distrutto. Disse di essere disposto ad accettare qualsiasi cosa purché sua sorella venisse liberata e smettessero di minacciare la sua famiglia.

Che tipo d’iniziative state adottando per rendere nota la storia di Saeed?

Ho rilasciato diverse interviste a radio e giornali on-line. La scorsa settimana, la mia lettera aperta al capo della magistratura iraniana, l'Ayatollah Sadegh Larijani, è stata pubblicata sul sito del Movimento Verde. Nella lettera gli domando sulla base di quale legge o tradizione islamica le confessioni false di mio marito siano state mandate in onda più volte dalla televisione di stato come parte di un “documentario,” anche se mio marito fino a quel momento non fosse mai stato accusato di alcun reato da alcun tribunale. Questi documentari sono stati realizzati con lo scopo esplicito di distruggere l'immagine di Saeed (e di molte persone come lui), senza che gli venga mai concessa la possibilità di difendersi in tribunale.

Ho rilasciato un'intervista in diretta con la BBC, che ha provocato una reazione molto dura da parte delle autorità iraniane. Più di 9000 messaggi sono stati inviati ai leader mondiali dalla nostra campagna "Free Saeed Malekpour," ma finora i media e il governo canadesi ci hanno totalmente ignorato e ogni volta che ho contattato le autorità canadesi sono stata allontanata con il pretesto che mio marito non è un cittadino canadese. Ma ho una domanda per loro: non si tratta della vita di un essere umano?

di Michele Paris

La recente sentenza della Suprema Corte Criminale irachena che condanna all’impiccagione l’ex ministro degli Esteri di Saddam Hussein, è un vergognoso atto di vendetta politica ordinato dal governo fantoccio di Baghdad con il beneplacito dei padroni di Washington. La condanna a morte di Tareq Aziz, il quale per anni ha rappresentato la faccia presentabile del regime di Saddam, si basa su prove che nessun tribunale di un paese civile considererebbe attendibili e serve a zittire definitivamente uno scomodo testimone del vero ruolo giocato dagli Stati Uniti e dall’Occidente nelle travagliate vicende irachene degli ultimi tre decenni.

Nato Mikhail Yuhanna da una famiglia cristiana caldea nel nord dell’Iraq, Aziz studiò inglese presso l’Università di Baghdad per poi dedicarsi al giornalismo ed entrare nel Partito Ba’th nel 1957 con l’aspirazione a liberare il suo paese dal colonialismo britannico e superare le divisioni etnico-religiose fomentate dall’imperialismo occidentale. L’appartenenza ad una minoranza cristiana e l’adesione al nazionalismo secolare baathista rendono tragicamente ironica la condanna alla pena capitale proprio per l’accusa di aver perseguitato membri di un partito islamico.

Poco dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, Tareq Aziz si consegnò volontariamente agli americani, sperando forse che la sua statura internazionale e gli stessi legami diplomatici con i precedenti inquilini della Casa Bianca avrebbero potuto risparmiargli il carcere. Aziz venne invece spedito in isolamento, prima sotto il controllo statunitense e dallo scorso mese di luglio affidato alle forze di sicurezza irachene. Al momento del trasferimento sotto la responsabilità dei suoi connazionali, pare che Aziz abbia confidato al suo avvocato, “Sono sicuro che mi uccideranno”.

Il 74enne braccio destro di Saddam Hussein si trovava già sulle spalle due condanne a ventidue anni di carcere. Praticamente una sentenza a vita alla luce dell’età avanzata e del precario stato di salute che ha richiesto svariati interventi negli ultimi anni. Nel 2008, dopo cinque anni di detenzione senza accuse specifiche a suo carico, venne processato e condannato per presunta responsabilità diretta nell’esecuzione di 42 mercanti iracheni accusati di aver manipolato il prezzo del cibo nel 1992, quando il paese era sottoposto alle sanzioni occidentali. Nonostante il crimine fosse sempre stato attribuito al solo Saddam, l’Alto Tribunale Iracheno, istituito dal governo provvisorio dopo l’invasione USA, gli inflisse una condanna di 15 anni.

Nell’agosto del 2009, poi, arrivarono altri sette anni per la deportazione di cittadini curdi dall’Iraq nord-orientale. Anche in questo caso, come dimostrarono numerose indagini di media occidentali, non vi erano prove schiaccianti sulle responsabilità di Tareq Aziz. Qualche giorno fa, infine, è stata la volta della condanna a morte per impiccagione, dopo che il supremo tribunale iracheno lo ha ritenuto colpevole delle persecuzioni ai danni di partiti sciiti nei primi anni Ottanta.

Nell’aprile del 1980, membri del partito Dawa, d’ispirazione sciita e supportato dall’Iran, attentarono alla vita di Saddam e dello stesso Aziz lanciando granate in una zona centrale di Baghdad che fecero varie vittime tra i civili. Il regime, appoggiato da Washington in funzione anti-iraniana, ordinò allora la repressione che portò all’esecuzione di alcuni appartenenti al partito che oggi è guidato dall’attuale primo ministro Nouri al-Maliki. Come se non bastasse, il giudice che ha emesso la sentenza di morte per Tareq Aziz,  Mahmud Saleh al-Hasan, è un esponente di spicco della coalizione di governo dello stesso Maliki.

La condanna di Tareq Aziz, costretto per parecchio tempo a fare a meno di un avvocato per le minacce indirizzate a chiunque osasse difenderlo in tribunale, vorrebbe rendere giustizia dei crimini commessi da Saddam Hussein e dal suo entourage fino all’invasione del 2003. Sono molti, tuttavia, a far notare come il funzionamento del regime baathista deposto tendesse ad escludere dagli apparati della sicurezza dello stato coloro che, sia pure in posizioni di spicco come l’ex primo ministro (1983-1991) e vice-primo ministro (1979-2003), non facevano parte del cosiddetto “clan di Tikrit”, dal nome della città di origine di Saddam.

È poi singolare che ad emettere la sentenza di morte per Aziz siano indirettamente formazioni politiche legate alle milizie responsabili dei massacri su base settaria scatenati dall’arrivo degli americani in Iraq ormai quasi otto anni fa. Senza contare che, come hanno dimostrato i documenti appena pubblicati da Wikileaks sul conflitto iracheno, il governo di Baghdad si è reso protagonista di uccisioni e torture sistematiche di civili senza che da Washington si battesse ciglio o che l’impresa in Iraq degli Stati Uniti ha causato complessivamente un numero maggiore di vittime innocenti di quante possano essere attribuite al regime di Saddam Hussein.

Se l’Unione Europea e il Vaticano, che nella primavera del 2003 garantì un’udienza con Giovanni Paolo II al capo della diplomazia irachena poco prima dello scoppio del conflitto, hanno chiesto clemenza al governo di Baghdad, l’amministrazione Obama ha mantenuto al contrario un colpevole silenzio sulla sorte di Tareq Aziz. D’altra parte, sono evidenti i benefici che Washington trarrebbe dall’eliminazione di quest’ultimo.

Figura più importante ancora in vita del regime di Saddam, Aziz è stato protagonista di tutte le principali vicende che hanno visto gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali manovrare secondo i propri interessi in Iraq. Nei mesi precedenti l’aggressione del 2003, inoltre, fu Tareq Aziz a cercare di confutare la falsa accusa americana del possesso di armi di distruzione di massa da parte irachena con numerosi missioni diplomatiche all’estero. Ancora più pericolosa sarebbe la sua testimonianza sul ruolo ambiguo degli USA nelle settimane che precedettero l’invasione irachena del Kuwait nell’estate del 1990.

Tareq Aziz era infatti al fianco di Saddam quando in un incontro a Baghdad l’allora ambasciatrice americana, April Gilaspie, assicurò a entrambi che il governo americano non aveva alcuna obiezione ad un intervento dell’Iraq in Kuwait, episodio che come è noto avrebbe innescato la prima Guerra del Golfo. Decisamente interessante potrebbe essere anche il suo parere sull’influenza statunitense nello spingere l’Iraq in una sanguinosa guerra con l’Iran negli anni Ottanta.

Sempre Aziz ricevette tra il 19 e il 20 dicembre 1983 l’allora inviato speciale per il Medio Oriente dell’amministrazione Reagan, il futuro segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, che avrebbe manifestato tutto il sostegno della Casa Bianca per il regime di Saddam nel contrastare il diffondersi della rivoluzione iraniana nel mondo arabo. La sua versione sul contenuto di quei colloqui a Baghdad risulterebbe fondamentale, così come la verità sulle armi chimiche impiegate da Saddam contro gli iraniani e verosimilmente fornite dagli alleati occidentali.

Alcuni dei segreti sugli sporchi giochi degli USA in Medio Oriente finiranno così nella tomba con Tareq Aziz, una volta che sarà portato a termine l’ennesimo crimine di guerra dell’avventura americana in Iraq.


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