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di Michele Paris
Con il cambio della guardia alla Casa Bianca nel gennaio del 2009, l’impiego dei cosiddetti “droni” nella guerra in corso in Afghanistan ha subito un vertiginoso aumento. Non solo negli ultimi mesi le incursioni portate a termine da questi velivoli letali senza pilota si sono intensificate, ma hanno anche finito per andare ben oltre il loro scopo iniziale - colpire i vertici di Al-Qaeda - mietendo ovviamente un numero sempre maggiore di vittime tra i civili.
Per la prima volta, un’indagine sul campo di un’organizzazione no-profit americana ha demolito il mito della precisione chirurgica delle operazioni condotte a distanza da agenti della CIA, sulle quali l’amministrazione Obama conta per proseguire la guerra al terrore evitando di incorrere in eccessive perdite tra i propri soldati. Il recente rapporto del gruppo Campagna per le Vittime di Guerra Innocenti (CIVIC), basato su interviste con vittime e parenti di vittime civili, dimostra impietosamente la superficialità delle verifiche eseguite dagli americani prima di dare il via libera ad attacchi di questo genere.
Un cittadino pakistano residente nella regione del Waziristan del nord, ad esempio, ha raccontato ai ricercatori americani di come la sua abitazione è stata rasa al suolo. Quando un gruppo di talebani si presentò a casa sua per chiedere del cibo, non ebbe il coraggio di rifiutarglielo per timore di ritorsioni nei confronti della sua famiglia. Il giorno successivo, la casa venne colpita da un missile lanciato da un drone, uccidendo il suo unico figlio.
Secondo i dati della CIVIC, dall’inizio del 2009 sarebbero stati 139 gli attacchi condotti dalle forze statunitensi con i droni, dei quali nove sono stati analizzati nel dettaglio. In essi ci sono state ben 30 vittime civili, di cui 14 tra donne e bambini, che nulla avevano a che fare con talebani o membri di Al-Qaeda. A fare una stima complessiva dei civili deceduti in seguito a queste incursioni ci ha provato un altro istituto indipendente, la New American Foundation di Washington, secondo cui i morti a partire dal 2008 sarebbero tra i 1.109 e i 1.734.
Al contrario, i militanti di Al-Qaeda o altri “insorti” impegnati nella guerra contro l’occupazione USA finiti vittime dei droni nello stesso periodo di tempo sarebbero appena 66. Anche di questi, poi, non è chiaro il ruolo ricoperto nelle organizzazioni di appartenenza, dal momento che i rapporti ufficiali che seguono alle incursioni parlano genericamente di “militanti”. Il progressivo venir meno dell’efficacia di queste operazioni dalla legalità più che dubbia, e il conseguente aumento degli obiettivi civili, è andato di pari passo con un allentamento delle restrizioni imposte dalla Casa Bianca sull’utilizzo dei droni.
Inizialmente, gli attacchi dei velivoli comandati da militari e agenti della CIA, spesso comodamente seduti di fronte ad un monitor in una base del Nevada, erano intesi unicamente per decimare i vertici di Al-Qaeda e le regole di ingaggio richiedevano la rigorosa verifica dell’assenza di civili innocenti nel luogo del bombardamento. Dal 2008, invece, alla CIA è stata concessa sempre maggiore discrezione. L’amministrazione Bush ha cioè permesso alla principale agenzia di intelligence americana di colpire obiettivi per i quali vengono semplicemente rilevati collegamenti con i militanti di Al-Qaeda, anche se non vi è prova della loro reale presenza in loco al momento dell’incursione.
Secondo alcune indiscrezione rivelate da ex membri dell’amministrazione Bush ad un reporter del New York Times nel suo ultimo libro, successivamente la Casa Bianca avrebbe addirittura autorizzato la CIA a sganciare ordigni letali su villaggi afgani e pakistani solo in base a semplici indizi e senza il bisogno di presentare prove certe della presenza di presunti guerriglieri o terroristi. È evidente, dunque, che in un simile quadro legale gli errori risultano all’ordine del giorno, con tutte le tragiche conseguenze che ne conseguono.
Il massiccio impiego dei droni, così, continua comprensibilmente ad alimentare un diffuso anti-americanismo tra le popolazioni locali e a consegnare agli stessi talebani e ai gruppi legati ad Al-Qaeda, che si vorrebbero sconfiggere, un formidabile strumento per il reclutamento di nuovi adepti. Un’altra recente indagine di New American Foundation e Terror Free Tomorrow con un migliaio di residenti delle aree tribali nel nord-ovest del Pakistan - le più colpite dalle offensive dei droni statunitensi - ha infatti evidenziato come l’atmosfera non sia propriamente la più favorevole per Washington.
Secondo il sondaggio, ben il 76 per cento degli intervistati si dice contrario all’utilizzo dei droni da parte americana e circa la metà ritiene che essi facciano vittime soprattutto tra i civili. Ancora più significativo è poi il sessanta per cento degli interrogati che dichiara il proprio appoggio agli attacchi suicidi contro le forze americane “in determinate circostanze”.
Che i droni vengano ormai utilizzati pressoché unicamente in Pakistan, creando spesso frizioni con il governo di Islamabad che pure accetta tacitamente questa pratica da parte degli USA, è un dato di fatto. Che gli obiettivi principali siano diventati i gruppi talebani afgani e pakistani è poi altrettanto evidente dalla localizzazione degli attacchi.
Mentre i leader di Al-Qaeda, in grandissima parte spariti dall’Afghanistan, sembrano trovare rifugio nel Waziristan del Sud in territorio pakistano, la CIA conduce invece le proprie operazioni quasi esclusivamente nel Waziristan del Nord, dove sono localizzate le forze di resistenza all’occupazione americana.
Con il 90 per cento dei bombardamenti eseguiti dai droni nel 2010 effettuati in quest’ultima regione, queste armi devastanti sono ormai al centro di una strategia USA in Afghanistan che ha visto sparire rapidamente l’obiettivo di annientare i presunti colpevoli degli attacchi dell’11 settembre 2001. Puntando l’obiettivo sui soli gruppi talebani che si battono contro l’occupazione del territorio afgano da parte delle truppe occidentali, utilizzando armi da guerra che provocano puntualmente stragi indiscriminate di civili, gli americani si sono assicurati l’irreversibile ostilità delle popolazioni locali e la certezza di una disfatta militare che appare sempre più vicina.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Flash back di cinque mesi. Gli Stati Uniti guardano impotenti la marea nera di petrolio, che come un cancro impesta le coste del Golfo del Messico. Obama ha appena ottenuto da BP venti miliardi di dollari per ripulire il Golfo e risarcire i pescatori. L'amministratore delegato di BP viene grigliato vivo come un novello San Lorenzo di fronte al Congresso. Un'unica voce solitaria si leva in difesa della compagnia petrolifera: “Chiedo scusa a BP a nome del popolo americano, per l'estorsione a cui l'Amministrazione l'ha sottoposta.” Parole del deputato repubblicano Joe Barton, in diretta tv di fronte a milioni di americani.
Prima di essere eletto al Congresso, Barton lavorava per una grossa azienda. Sì, avete indovinato: si trattava proprio di BP (all'epoca nota come ARCO). Il deputato texano ha il record assoluto di contributi elettorali da parte della lobby del petrolio: un milione e quattrocentomila dollari, per la maggior parte di BP. Barton è stato l'artefice dell'Energy Policy Act del 2005, strumento con cui Darth Vader, altrimenti noto come Dick Cheney, ha ridisegnato la mappa energetica degli Stati Uniti, a base di sgravi fiscali per i giganti petroliferi. Che funzionano alla grande: nonostante i 40 miliardi spesi per la marea nera, BP ha comunque annunciato due miliardi di profitti nell'ultimo trimestre.
Ebbene, il futuro energetico degli Stati Uniti verrà deciso proprio dal nostro eroe: Joe Barton. Grazie alla schiacciante vittoria dei Repubblicani al Congresso, il petroliere texano si accinge a tornare a presiedere il Comitato per l'Energia e il Commercio e decidere il futuro energetico del Paese (e del resto del mondo). Chissà di quali idee innovative si farà portavoce...
Queste elezioni hanno premiato un nuovo modo di fare politica negli Stati Uniti. Finalmente le grandi corporations sono riuscite a scassinare la cassaforte della democrazia, grazie alle loro illimitate risorse finanziarie. Pochi mesi fa la Corte Suprema ha infatti stabilito che le aziende hanno gli stessi diritti delle persone, in particolare il diritto di parola. La Corte ha stabilito che la lingua delle aziende è il denaro, con il quale possono esprimere il proprio favore per un candidato piuttosto che un altro. Proprio così, illimitati finanziamenti elettorali da parte delle grandi aziende. I risultati sono stati straordinari: per i Repubblicani!
Cerchiamo di sviscerare il meccanismo in atto. Le corporation creano un network di attivisti ben pagati che, su internet, inventano e propagano messaggi bislacchi. Per esempio che Barack Obama è musulmano. Oppure che con la riforma sanitaria Obama vuole uccidere gli anziani che votano repubblicano. Oppure che in Oklahoma si accingono a introdurre la sharia e gli imam stanno costruendo una moschea sul sito di Ground Zero; ci credo, d'altra parte il Presidente è musulmano!
Citando internet come fonte, la notizia viene ripresa dai media conservatori, prima fra tutte Fox News, che annovera fra i propri dipendenti molti politici repubblicani, vedi Sarah Palin e Mike Huckabee. A questo punto la notizia bislacca diventa “vera,” e viene rimbalzata dai senatori e deputati repubblicani per fare campagna elettorale, sempre usando le illimitate risorse finanziarie fornite dalle corporations. Le notizie bislacche aizzano la paura nella base conservatrice e acquistano un vasto consenso popolare: ecco come è nato il famoso Tea Party, animatore dell'ultima vittoria elettorale repubblicana. Interpellati dai sondaggi, si è scoperto infatti che buona parte dei simpatizzanti di questo movimento credono fermamente in tutte le fandonie di cui sopra, e molte altre.
Una volta eletti, i politici repubblicani, forti del consenso popolare basato su queste notizie false, si apprestano a eseguire gli ordini delle corporations che li hanno piazzati al Congresso. Come nel caso di Joe Barton e di BP. Niente di nuovo, si dirà: non è altro che la solita strategia populista in azione. Ma questa volta si è entrati in una nuova fase.
Rachel Maddow, giornalista di MSNBC, ha notato che la cosiddetta macchina del fango è oramai fuori controllo. Ovvero, i repubblicani non possono più far marcia indietro una volta eletti e sono costretti a continuare a recitare lo stesso copione. Se tutt'a un tratto ammettessero che Obama non è musulmano, i loro elettori penserebbero che son diventati pazzi, avendoli eletto proprio per quel motivo! Si è venuta a creare dunque una realtà parallela all'interno del Paese, in cui le baggianate usate per vincere le elezioni si sono trasformate in realtà inconfutabili. Mentre una volta i media smantellavano queste idiozie in pochi giorni, il tumore si è ora incistato nella macchina e non è più estirpabile.
Fatto trenta, i politici repubblicani hanno pensato bene di fare trentuno e ripagare subito i loro datori di lavoro. La nuova parola d'ordine repubblicana è diventata: ridurre il deficit a tutti i costi! Come fare? Semplice, estendendo gli sgravi fiscali di Bush per chi guadagna più di duecentocinquantamila dollari, ad un costo totale di 700 miliardi di dollari. Essendo priva di copertura, la manovra andrebbe a pesare direttamente sul deficit. Ma nella matematica parallela del Tea Party, due più due evidentemente fa zero.
Quando un giornalista di NBC ha incalzato il nuovo speaker del Congresso John Boehner, chiedendogli come pensa di coprire gli sgravi fiscali, il leader repubblicano per ben tre volte ha accusato l'altro di parlare il politichese di Washington e che gli americani sono stufi del vecchio modo di fare politica. Ma la leggerezza di Boehner, prestarsi ad un contraddittorio televisivo, è presto rimediata: d'ora in poi i politici repubblicani rifiuteranno di apparire su network televisivi che non siano Fox News e affini, parte di quella realtà parallela dove due più due fa zero.
Riassumiamo la situazione. Il Congresso e il Senato americano sono stati rimpinguati di una quarantina di neo-eletti membri del Tea Party, che rappresentano ora l'avanguardia più agguerrita del Partito Repubblicano. Secondo il sindaco di New York, Michael Bloomberg, molti dei neo-eletti addirittura “non sanno leggere.” Credono che il Presidente degli Stati Uniti, segretamente musulmano e nato in Kenia, stia complottando per introdurre la legge islamica e cerchi di uccidere gli anziani elettori repubblicani usando la riforma sanitaria, ispirata alla Germania nazista e allo stalinismo sovietico. Tutte notizie "vere" e quotidianamente ripetute dal megafono di Fox News.
Si tratta del concetto di "truthiness", termine coniato dal comico Stephen Colbert (potremmo tradurlo come veridicità) per descrivere le dichiarazioni dell'ex-presidente George W. Bush completamente false, ma che acquistano una graduale verità a forza di essere ripetute: vedi ad esempio la leggenda armi di distruzione di massa in Iraq, oppure il mito delle toghe rosse in Italia. In un sistema politico equilibrato, queste posizioni assurde scomparirebbero spontaneamente di fronte alla schiacciante evidenza della loro falsità. Ma negli Stati Uniti del 2010, le corporations sono riuscite a creare un network autosufficiente di media conservatori in cui la veridicità prolifera fuori controllo. Obiettivo: scongiurare a tutti i costi che nei prossimi due anni Obama metta in atto il suo pur timido programma riformista (Wall Street non gli perdonerà mai la riforma della finanza).
Il giorno dopo le elezioni, il Presidente si è accollato la responsabilità della sconfitta e ha proposto ai repubblicani di sedersi intorno a un tavolo per affrontare insieme i problemi della crisi economica. I leader repubblicani al Senato e alla Camera gli hanno risposto che può prendere il suo rametto di Ulivo e ficcarselo in quel posto. Tutti gli sforzi del GOP “saranno rivolti a scongiurare la rielezione di Obama nel 2012,” dice il senatore Mitch McConnell: puntando tutto sull'aggravarsi della crisi economica, sabotando ogni iniziativa democratica e soprattutto cercando (invano) di cancellare la riforma sanitaria. Tattica che pare vincente, i primi frutti sono stati raccolti martedì scorso. Come faranno i democratici a denunciare il bluff repubblicano?
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di Michele Paris
Il 28 novembre prossimo gli elettori egiziani saranno chiamati a rinnovare l’Assemblea del Popolo, la camera bassa del parlamento, dominata dal partito di governo del presidente Hosni Mubarak. Nonostante l’appello al boicottaggio lanciato dall’ex direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), Mohamed ElBaradei, quasi tutti i partiti di opposizione hanno annunciato che prenderanno parte alla imminente tornata elettorale.
Rientrato in patria dopo dodici anni alla guida dell’agenzia delle Nazioni Unite, il 68enne ElBaradei da qualche mese è diventato uno dei principali protagonisti della scena politica egiziana. Lo scorso febbraio ha fondato il partito indipendente Associazione Nazionale per il Cambiamento, con l’obiettivo dichiarato di avviare l’Egitto verso un percorso democratico e, nonostante gli ostacoli legali, provare a correre per la presidenza il prossimo anno.
Di fronte all’inflessibilità del regime, ElBaradei ha messo in guardia dai sicuri brogli a cui il Partito Nazionale Democratico di Mubarak a suo parere farà ricorso per assicurarsi l’ennesimo successo elettorale. Con questa prospettiva, a suo dire, partecipare al voto equivarrebbe a una legittimazione del regime stesso. Da qui l’invito a boicottare le urne.
Secondo il sistema egiziano, i partiti che intendono presentare propri candidati alle elezioni devono passare al vaglio di una commissione formata da ministri del governo e da giudici nominati dal presidente. Una norma che di fatto consente a Mubarak e alla sua cerchia di potere la selezione dei partiti di opposizione che, com’è ovvio, non rappresentano un reale contrappeso alla schiacciante maggioranza del Partito Nazionale Democratico.
Come già anticipato, con l’eccezione dello schieramento di ElBaradei e del partito centrista secolare El-Ghad, i principali partiti di opposizione hanno alla fine deciso di correre nelle elezioni che si tengono ogni cinque anni. Lo schiaffo più duro all’ex numero uno della IAEA è giunto dai Fratelli Musulmani, il più importante movimento politico di opposizione in Egitto. Lo storico partito islamico sunnita, tollerato a stento dal regime, aveva infatti appoggiato finora l’iniziativa politica di ElBaradei.
Essendo ufficialmente fuori legge, il partito dei Fratelli Musulmani, come nelle passate tornate elettorali, presenterà anche in questa occasione una serie di candidati che correranno come indipendenti. Nel 2005, i Fratelli Musulmani riuscirono a conquistare 88 dei 454 seggi della camera bassa, pari a circa il 20 per cento del voto popolare. Nonostante il sostegno diffuso nel paese, tuttavia, i Fratelli Musulmani riusciranno a competere solo per meno di un terzo dei seggi, mentre al partito di governo finiranno con ogni probabilità almeno i due terzi del totale.
Con questa prospettiva, l’opposizione tradizionale o l’appena nato movimento di ElBaradei non potranno alterare a breve il sistema consolidato da quasi tre decenni di presidenza Mubarak, né ostacolare la probabile successione alla guida del paese che verrà decisa con le elezioni presidenziali del settembre 2011. Mentre recenti dichiarazioni di esponenti del Partito Nazionale Democratico hanno rassicurato circa la nuova candidatura dell’82enne Hosni Mubarak, le precarie condizioni di salute dell’anziano leader fanno pensare ad un probabile passaggio di consegne, verosimilmente al figlio Gamal che già ricopre un ruolo di spicco nella struttura del partito.
Se Mubarak dovesse alla fine farsi da parte, l’avvicendamento alla presidenza dell’Egitto sarà appoggiato anche dagli Stati Uniti, il cui obiettivo primario rimane la conservazione dello status quo nelle relazioni bilaterali con il loro principale alleato nella regione, dopo Israele. Tanto più che da Washington si segue con sempre maggiore apprensione il crescente malcontento tra le classi più disagiate della popolazione egiziana, così come più di una perplessità si continua a nutrire nei confronti di ElBaradei.
Se pure il progetto politico di quest’ultimo prende sostanzialmente le mosse dalla stessa preoccupazione della classe media egiziana per l’insofferenza degli strati più poveri, è anche vero che nel corso degli anni trascorsi alla guida dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ElBaradei non ha mai nascosto le sue divergenze con Washington. Oltre ad essersi opposto all’invasione dell’Iraq nel 2003, ben nota è la sua netta contrarietà ad una possibile aggressione militare contro l’Iran, più volte minacciata da USA e Israele.
Con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale, intanto, le forze di sicurezza del regime egiziano hanno intensificato la repressione delle opposizioni. Recentemente, l’Autorità Nazionale per le Telecomunicazioni ha annunciato nuove restrizioni sull’invio di SMS da parte dei media, i quali dovranno ora ottenere esplicita approvazione governativa prima di poterli inviare. Allo stesso modo, il Ministero dell’Informazione ha stabilito che le emittenti satellitari dovranno avere una speciale licenza prima di trasmettere un evento in diretta o distribuire i loro notiziari ad altre televisioni.
Oltre a questi provvedimenti che renderanno più complicata la mobilitazione politica e la diffusione delle informazioni, le autorità di polizia continuano ad eseguire arresti tra i sostenitori delle opposizioni. Obiettivo preferito, come al solito, sono i Fratelli Musulmani. Secondo alcuni resoconti, 70 membri del fuorilegge partito islamico sarebbero stati arrestati qualche giorno fa ad Alessandria d’Egitto perché sorpresi ad affiggere manifesti elettorali che recavano slogan religiosi e perciò proibiti dalla legge elettorale.
Solo nelle ultime due settimane i sostenitori dei Fratelli Musulmani finiti dietro le sbarre sarebbero circa 260, anche se molti sono stati successivamente rilasciati. Tra questi, secondo quanto riportato da Al Jazeera, ci sarebbero anche alcuni membri che stavano accompagnando degli aspiranti candidati alle elezioni per sbrigare le pratiche di registrazione nella città di Fayoum. Altrove, a numerosi candidati vicini ai Fratelli Musulmani è stato impedito di sottoporre agli uffici competenti la documentazione necessaria per apparire sulle schede elettorali. Mercoledì scorso, infine, ben 57 potenziali candidati su 132 presentatisi per la registrazione sono stati esclusi dal voto.
Nonostante il clima tutt’altro che ideale nel quale si svolgeranno le elezioni di fine novembre, i governi occidentali si sono ben guardati dal rivolgere critiche e appelli al governo di Mubarak per il rispetto delle libertà democratiche. Nulla c’è da attendersi di lontanamente simile alla campagna mediatica, ad esempio, che aveva accompagnato le presidenziali in Iran nel giugno del 2009. L’impegno americano e degli altri paesi occidentali per la diffusione della democrazia in Medio Oriente, d’altronde, è subordinato alla difesa dei rispettivi interessi strategici ed economici. Se questi vengono garantiti da un dittatore, a Washington e nelle capitali europee non ci si fa scrupoli a chiudere un occhio su democrazia e diritti umani.
Con i media occidentali che nella grande maggioranza si limitano a raccontare di qualche arresto tra gli oppositori del regime, gli Stati Uniti hanno assicurato tutto il loro appoggio al partito di un presidente che governa ancora con le leggi di stato d’emergenza decretate nel 1981 dopo l’assassinio del suo predecessore, Anwar Al-Sadat. Così, con un tempismo impeccabile, uno dei più importanti strumenti di pressione degli USA per la promozione della propria agenda estera - l’Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale (USAID) - ha fatto sapere la settimana scorsa di aver aumentato del venti per cento lo stanziamento di fondi per l’Egitto, non a caso già il terzo beneficiario degli aiuti statunitensi a paesi esteri, dopo Iraq e Israele.
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di Carlo Musilli
Non è un tentativo di democrazia, non sono nemmeno prove generali. Al contrario, quello che sta accadendo in Birmania è lo stupro più vergognoso che della democrazia si possa fare. Trenta milioni di persone sono chiamate al voto per la prima volta dopo vent'anni, ma bisogna essere diplomatici in malafede per non vedere che queste elezioni sono tutto tranne che un primo passo verso la libertà. Il diritto non solo è negato, ma anche contraffatto e schernito.
L'obiettivo del regime militare che governa la Birmania è quello di garantirsi una parvenza di legittimazione. Dopo il genocidio, i massacri e le deportazioni di massa, gli uomini della giunta cercano di costruirsi un volto più civile, o semplicemente meno inaccettabile a livello internazionale. Le sanzioni economiche imposte dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti per le violazioni dei diritti umani, infatti, negano al Paese ogni possibilità di uscire dalla miseria cronica. E l'orizzonte è sempre più nero.
Con gli stati confinanti non esiste commercio, anzi, più volte si è sfiorata la guerra con Thailandia e Bangladesh. Anche Cina e Singapore, che a lungo hanno rifornito di armi il regime, da qualche anno non garantiscono più il loro appoggio. Non vedono di buon occhio le connessioni che si sono create fra i cartelli criminali della Birmania (secondo produttore di oppio al mondo, dopo l'Afghanistan) e la mafia cinese.
Ecco spiegato il teatrino delle elezioni, messo in piedi dagli uomini del regime in modo da escludere ogni incertezza elettorale. È scientificamente impossibile ogni risultato diverso dal plebiscito a loro favore, anche perché devono evitare di ripetere la brutta figura del 1990. All'epoca, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), il principale partito d'opposizione, guidato dall'eroica Aung San Suu Kyi, ottenne l'80% dei voti. Ai militari non rimase che sciogliere il Parlamento con la forza. I dissidenti finirono in carcere, fuggirono o morirono.
Oggi è un'altra storia. Si vota per eleggere le due camere del Parlamento e 14 consigli regionali, in 1.162 collegi. Sennonché, stando alla Costituzione varata nel 2008, il 25% dei seggi deve essere obbligatoriamente assegnato ai militari. Due terzi dei candidati totali, inoltre, provengono dal Partito della Solidarietà e dello Sviluppo dell'Unione (Usdp, il partito dei militari) o dal Partito d'Unità Nazionale (Nup). Quest'ultimo rappresenta i vecchi soldati vagamente socialisti che tennero in mano la dittatura fra il 1962 e il 1988. Al di là di qualche disaccordo in materia economica, sono di fatto sostenitori del regime.
L'opposizione, invece, è semplicemente a brandelli. L'Nld è scomparso: seguendo l'esempio di Suu Kyi, che si è rifiutata di votare, il partito ha deciso di non presentarsi nemmeno alle elezioni, andando incontro allo scioglimento forzato. Alcuni dissidenti dell'Nld hanno creato un nuovo partito, la Forza Democratica Nazionale (Ndf). Si tratta del più grande fra i movimenti di opposizione, ma riesce a correre solamente per il 10% dei collegi. Nel complesso, le opposizioni non sono in grado di presentare più di 500 candidati a fronte dei famosi 1.162 seggi in palio. Risultato: in molti collegi quello del regime sarà l'unico candidato.
Com'è possibile? Semplice, ogni candidatura costa la bellezza di 500 dollari, che in Birmania equivale a uno stipendio medio moltiplicato per sette. I candidati pro regime godono di risorse inimmaginabili per gli altri: in cambio di voti offrono prestiti a tasso zero, case popolari, riso. Poi, naturalmente, le minacce: se ti viene in mente di non andare a votare, o di votare dalla parte sbagliata, sai di correre un pericolo.
Non è finita. All'opposizione, in tempo di campagna elettorale, non era permesso scendere in piazza, né cantare slogan. Com'è ovvio, la stampa è sempre stata censurata col massimo della severità. E quando finalmente è arrivato il giorno di andare alle urne, sono stati banditi dal paese giornalisti e osservatori internazionali.
Nel frattempo, le carceri sono stracolme di prigionieri politici, almeno duemila. Fra loro c'è anche Suu Kyi (o "La Signora", come la chiamano i birmani, a cui il regime proibisce di pronunciarne il nome). Fu arrestata la prima volta nel 1990, dopo aver stravinto le elezioni. Un anno dopo, mentre si trovava ai domiciliari, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Rilasciata nel '95, è stata imprigionata nuovamente nel 2000 e nel 2002.
Un appello per la liberazione di Suu Kyi e di tutti i prigionieri politici birmani è arrivato da Barack Obama, in questi giorni in visita in India. A Mumbai, di fronte ad una platea di studenti, il presidente americano ha sottolineato anche che "da troppo tempo il popolo birmano si vede negare il diritto di decidere del proprio destino" e che le elezioni di oggi "saranno tutto fuorché libere e giuste". In sostanza, il teatrino delle elezioni birmane sembra ribadire un concetto piuttosto banale, forse un po' retorico, ma indiscutibile. Peggiore di chi ti leva la libertà è soltanto chi finge di restituirtela.
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di Michele Paris
È iniziato finalmente questo fine settimana il tanto ritardato viaggio di Barack Obama in Asia. Reduce dalla pesantissima sconfitta nelle elezioni di medio termine, il presidente americano trascorrerà una decina di giorni tra India, Corea del Sud, Giappone e Indonesia, il paese che lo ha ospitato per parte della sua infanzia. Proprio a Jakarta, con i leader del più grande paese musulmano del pianeta, Obama cercherà di venire a capo delle molte questioni tuttora irrisolte nelle relazioni bilaterali e di dare così un impulso alla sua moribonda presidenza con un difficile rilancio in politica estera.
Ad influire sui colloqui con l’Indonesia ci saranno da un lato la necessità statunitensi di stabilire rapporti più saldi con uno dei paesi più stabili e strategicamente importanti del sud-est asiatico e, dall’altro, l’aspirazione indonesiana di aprire il mercato domestico agli investimenti internazionali. Nel paese che ospita il più vasto numero di fedeli musulmani, Obama visiterà significativamente la più grande moschea indonesiana e terrà un discorso pubblico simile a quello così carico di aspettative che aveva segnato la sua apparizione al Cairo nel giugno dello scorso anno.
Le speranze dell’amministrazione Obama di ricostruire un qualche dialogo con il mondo musulmano, tuttavia, risultano oggi decisamente più esili rispetto ai primi mesi del suo mandato. La politica estera di Washington, infatti, dopo un avvio promettente ha finito sostanzialmente per appiattirsi su quella promossa da George W. Bush. Il carattere generalmente moderato dell’Islam in Indonesia e la sua collocazione periferica risultano poi ben poco rappresentativi delle altre realtà del mondo arabo e musulmano in genere, dove il conflitto con l’Occidente continua ad essere fin troppo acceso. A ciò va poi aggiunto il rapporto speciale del presidente americano con questo paese, dove sul finire degli anni Sessanta trascorse quattro anni con la madre, che aveva sposato in seconde nozze proprio un cittadino indonesiano.
La trasferta di Barack Obama in Indonesia era già stata rimandata in un paio di occasioni nel corso del 2010, la prima delle quali quando il marzo scorso venne approvata definitivamente dal Congresso americano la riforma del sistema sanitario. Nel corso di questi mesi, ad almeno una delle questioni più controverse nei rapporti tra i due paesi è stata data una spinta importante, vale a dire il ristabilimento dei programmi di addestramento e finanziamento da parte americana delle forze speciali indonesiane (Kopassus) che erano fermi fin dal 1997.
Coinvolto in numerose violazioni dei diritti umani, tra cui a Papua, Aceh e Timor Est negli anni Novanta, il Kopassus era visto da molti con grande diffidenza a Washington. Il sostegno alla riapertura dei canali di collaborazione con i reparti scelti indonesiani già assicurato dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva tuttavia aperto la strada alla visita del numero uno del Pentagono, Robert Gates, inviato a Jakarta la scorsa estate quando è stato suggellato il definitivo sdoganamento del Kopassus.
La collaborazione con i reparti scelti indonesiani appare d’altra parte una mossa strategica fondamentale per la partnership che gli USA desiderano costruire nell’ambito della lotta al terrorismo in quest’area del continente. A pensarla in questo modo non sono però tutti gli indonesiani. I ricordi dei crimini commessi dal Kopassus sono ancora molto vivi e le proteste pubbliche che si attendono in questi giorni minacciano di disturbare la calda accoglienza che l’Indonesia ha preparato per Obama.
I passi avanti nell’ambito della lotta al terrorismo da parte di Jakarta negli ultimi anni - come lo smantellamento della cellula integralista legata ad Al-Qaeda, Jemaah Islamiyah (JI) -sono inoltre apparsi sufficienti agli Stati Uniti, da dove già nel 2005 si era proceduto alla cancellazione delle sanzioni nei confronti dell’esercito indonesiano, anch’esso implicato in svariati abusi nei passati decenni. Subito dopo gli attacchi di Bali nel 2002, gli Stati Uniti avevano infatti aggiunto l’Indonesia e tutta l’Asia sud-orientale al fronte planetario della guerra al terrore. La presunta leggerezza di Jakarta nei confronti della minaccia terroristica interna aveva spinto l’amministrazione Bush a diffidare del governo indonesiano, suscitando un’ondata di anti-americanismo nel paese.
Se il fronte caldo del terrorismo per un Obama ben deciso a proseguire sulla strada del suo predecessore può rappresentare un terreno di intesa comune, non va però sottovalutata l’importanza strategica dell’Indonesia per Washington. Con un clima democratico relativamente prospero a partire dalla prima elezione del presidente Susilo Bambang Yudhoyono nel 2004, al contrario del deterioramento della situazione interna dei tradizionali alleati in quest’area (Thailandia e Filippine), Jakarta rappresenta un partner ideale. All’Indonesia la Casa Bianca intende perciò guardare con interesse per mantenere l’impegno di stabilire contatti diplomatici più intensi con il gruppo dei paesi appartenenti all’Associazione del Sud-est Asiatico (ASEAN).
Gli sforzi per un riavvicinamento al quarto paese più popoloso del pianeta, d’altra parte, rispondono per gli USA alla necessità, già manifestata in altre aree del globo, di controbilanciare l’espansionismo cinese. Tanto più che l’Indonesia possiede un corridoio strategico di enorme importanza come lo Stretto di Malacca, da dove transita qualcosa come l’80% delle importazioni di greggio di Pechino. Proprio sul controllo di queste acque così intensamente trafficate - e sulle quali si affacciano anche Singapore e Malaysia - Cina e Stati Uniti competono da tempo per estendere la propria influenza, principalmente cercando di garantire assistenza militare ai governi locali impegnati nelle operazioni di sicurezza.
La cooperazione tra Stati Uniti e Indonesia dovrebbe estendersi anche all’educazione, allo sviluppo di nuove infrastrutture e alla lotta al cambiamento climatico ma, soprattutto, dovrà fare i conti con un persistente senso di diffidenza verso Washington. Oltre ai sospetti nei confronti della lotta al terrorismo della precedente amministrazione, sono persistenti le ostilità dovute al ruolo degli investitori americani nella crisi finanziaria del 1997-98 che portò l’Indonesia sull’orlo del baratro. Ancora più datato ma tuttora presente è poi il senso di sfiducia nutrito per i progetti di esportazione della democrazia “made in USA”, un’agenda che riporta alla mente le azioni coperte della CIA in territorio indonesiano negli anni Sessanta in funzione anti-comunista.
Fin dalla caduta del dittatore Suharto nel 1998, d’altro canto, l’Indonesia da parte sua ha provato occasionalmente a costruire un rapporto più stretto con gli Stati Uniti, sia pure con scarsi risultati, anche a causa dei tradizionali impulsi nazionalistici che ne hanno caratterizzato la politica estera. Una tendenza che si è concretizzata in una spiccata attitudine protezionistica e, conseguentemente, nella mancata apertura del paese ai capitali americani ed esteri in genere. Proprio l’adozione delle consuete riforme in senso ultraliberista, dettate troppo spesso dagli organismi internazionali, rappresentano la ricetta che oggi Washington suggerisce a Jakarta per spianare la strada agli investimenti e rendere il paese competitivo rispetto a Cina, India e persino Vietnam.
Un’evoluzione che le élites politiche ed economiche indonesiane hanno già iniziato ad abbracciare, come dimostra il trattato di libero scambio firmato con la Cina nell’ambito dell’ASEAN ed entrato in vigore dal primo gennaio di quest’anno. Un accordo che stimola non poco gli appetiti di Pechino per le cospicue risorse energetiche indonesiane e che, inevitabilmente, allarga anche a quest’area nevralgica del continente asiatico la crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti d’America di cui Obama dovrà tenere conto nella sua visita a Jakarta.