di Fabrizio Casari

Anche ieri gli scontri stra militari e rivoltosi hanno contrassegnato le manifestazioni ormai quotidiane che chiedono la fine del regime di Mubarak. All'esercito, che aveva chiesto ai dimostranti di tornare a casa, é stato invece risposto picche: la rivolta non si ferma. L'Egitto rifiuta gli appelli ad una transizione immediata del potere: lo ha detto il portavoce del ministero degli Esteri. Gli Usa si dicono preoccupati per l'evolversi della situazione ed il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon definisce “inaccettabili” gli attacchi contro i manifestanti. Le pressioni internazionali sembrano quindi indicare una scarsa disponibilità a correre in aiuto del fido alleato di un tempo. L'alunno per eccellenza del FMI, alleato fedele della pax occidentale, sembra ormai fuori gioco.

E quanto avviene in Egitto è ormai tema ineludibile per i media, le cancellerie internazionali, le opinioni pubbliche di ogni latitudine e longitudine. Ma se per queste ultime c’è solo la possibilità di accedere a parole ed immagini di una rivolta, per la diplomazia internazionale e per i mass-media le battaglie nelle strade del Cairo rappresentano invece la conferma ultima della loro inadeguatezza a svolgere il compito al quale sono chiamate.

Sembra quasi che le recenti rivelazioni di Wikileaks abbiano solo fornito con qualche settimana d’anticipo il senso compiuto della perdita di efficacia della diplomazia internazionale. Non una cancelleria, né occidentale, né orientale, aveva minimamente intuito cosa si agitava nel corpo della società egiziana, così come nessun reporter, di nessuna testata al mondo, aveva raccontato delle avvisaglie di una crisi profonda che avrebbe fatto saltare il coperchio sotto al quale ribolliva e ribolle tutto il paese.

D’altra parte entrambe le categorie vivacchiano osservando il mondo dai salotti e dalle piscine degli hotel di lusso, difficile che colgano quanto vive nelle strade caotiche, che pulsano fame e disperazione. L’Egitto è un paese di ottanta milioni di abitanti. La sua popolazione, con una crescita demografica impressionante, detiene due dati che meglio di ogni altro spiegano queste giornate: il 70 per cento della popolazione ha meno di 25 anni e l’ottanta per cento della popolazione è situata nella fascia più bassa di reddito. Non è quindi propriamente una nazione: è piuttosto una bomba a tempo. Milioni e milioni di giovani laureati vedono come prospettiva la disoccupazione. La povertà estrema riguarda il 40% della popolazione e la casta che domina il Paese rappresenta il 3% dello stesso.

Mentre si agitava lo spettro dell’integralismo islamico, si scopre che le rivolte hanno al centro la rivendicazione di democrazia, più precisamente del modello liberale della stessa. Altro che isterìa religiosa: si tratta di rivendicazioni sociali e politiche che riguardano proprio la mancata democrazia, formale e sostanziale.

Elezioni farsa e sistema di potere dittatoriale di riproduzione delle caste, peso preponderante dei militari e delle strutture d’intelligence nel controllo sociale e politico verso l’interno; questa l’essenza del sistema che ha reso i paesi maghrebini dominati dall’estero e dominanti verso l’interno. Le popolazioni di quei paesi, ricchi di passato, sono ormai masse di disperati senza alcun futuro.

L’Egitto ne è un esempio evidente: la sua economia, diretta dal Fondo Monetario Internazionale e parzialmente sussidiata dall’estero, tramite i circa due miliardi di dollari annui di aiuti Usa e gli otto miliardi di dollari provenienti dalle rimesse dei suoi emigranti (otto milioni circa, il 10% dell'intera popolazione) ha nello sfruttamento del gas e nel turismo le due uniche voci significative per le entrate, atteso che la produzione industriale non presenta cifre degne di nota in rapporto all’ampiezza e alla scala demografica della nazione.

Se poi si considera che, eccezion fatta per le rimesse dall’estero, i proventi del turismo e del gas, così come i sussidi internazionali vanno ad ingrassare i portafogli del 10 per cento della popolazione, cioè dell’elite economica e sociale che è padrona del Paese, si capisce come il livello di povertà della stragrande maggioranza degli egiziani sia irrisolvibile senza un cambio di regime.

Le elites egiziane mandano all’estero i propri figli a studiare; su di loro s’investe per la formazione della futura classe dirigente, direbbero gli economisti, ma sarebbe meglio dire che i fortunati pargoli altro non sono che i predestinati a ricevere in dono il Paese. Oltreconfine ci vanno anche i denari che le elites saccheggiano dall’estero e all’interno. Mentre quindi il paese è schiacciato verso il basso, denari e figli prediletti volano verso l’alto. Una sostanziale partita di giro che trasforma la ricchezza nazionale in patrimoni privati e le speranze nel futuro di decine di milioni di giovani in privilegi acquisiti per poche migliaia di rampolli. L’umiliazione di un paese che è stato culla della civiltà, risiede nei numeri infamanti che connotano le ingiustizie più profonde.

Quella in corso in Egitto è una rivolta, non una rivoluzione: la prima si differenzia in toto dalla seconda perché completamente diversi sono gli obiettivi. La rivoluzione ha come obiettivo quello di abbattere un sistema, di rovesciare la piramide sociale, economica e politica che quel sistema sorregge e che da quel sistema si alimenta. La rivolta ha obiettivi diversi: chiede la riformabilità di quel sistema, ma non ne mette in discussione il modello. Ne chiede semmai l’applicazione corretta, la compensazione e il riequilibrio delle storture che la sua degenerazione ha provocato e provoca.

Mubarak ha tentato di tenere a sé le forze armate e l’intelligence del Paese, nominando il suo capo a primo ministro e proponendo una sostanziale chiamata di correità a tutta l’elite dominante. Ma ha perso: l’esercito si rifiuta di usare ancora la forza e le elites economiche sono già con la valigia in mano. La sua capacità di coagulo è finita e, con essa, quella di mantenersi al comando. Che El Baradei, figlio dell’alta borghesia egiziana ma tenuto ai margini del potere e relegato ad un ruolo di rappresentanza internazionale di lustro per il Paese delle Piramidi, sia oggi il candidato più forte alla successione non è strano, è semmai l’unica opzione.

Non solo perché può contare sull’appoggio internazionale, ma anche perché gli stessi Fratelli Musulmani, come le altre organizzazioni della società civile egiziana, trovano in lui l’unico possibile compromesso tra passato e futuro, l’unica possibilità di mediazione tra le istanze di rinnovamento e il tentativo di accomodamento proposto dal dittatore in crisi. E trovano in El Baradei l’unico riferimento possibile in assenza di partiti politici capaci di farsi interpreti (e di essere riconosciuti come tali) delle istanze di rivolta.

Per questo l’uscita dalla crisi porterà uomini nuovi e nuovi assetti, non un nuovo sistema. E questo sembra averlo ben compreso Obama, che “gattopardescamente” ha capito che l’unico modo per mantenere il sistema è quello di riformarlo. Opporsi alla domanda di democrazia, difendere oltre l’indifendibile i raìs ormai odiati, avrebbe come unico effetto la radicalizzazione del conflitto e l’inserimento nello stesso delle forze politiche e religiose ostili agli interessi occidentali.

Resta da vedere se Mubarak sarà disponibile a lasciare il dominio sul Paese senza combattere fino all’ultimo. In fondo, sa perfettamente che la proposta di indire nuove elezioni e di non ricandidarsi non è sufficiente a fermare la sommossa. La scelta che l’opposizione gli pone è quella tra un aereo e l’esilio o il rimanere ed affrontare il giudizio che, immancabilmente, verrà. Perché ogni rovesciamento ha bisogno di una vittima sacrificale.

L’Egitto non è la Tunisia e nemmeno il Marocco. Il peso specifico dei militari è infinitamente più grande. A determinare lo sviluppo della situazione saranno dunque l’esercito e la polizia. Se si fideranno delle garanzie offerte da El Baradei, allora per il Raìs le ore sono contate. Se invece, a fronte delle loro richieste di cambiare il Presidente ma non il regime - e soprattutto il loro ruolo al suo interno - El Baradei dovesse opporre un rifiuto, allora i trecento morti contati fino ad ora potrebbero risultare solo la prima parte di una repressione sanguinosa di una rivolta che chiede solo di restituire l’Egitto agli egiziani.

 

 

 

 

 

 

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. L'onda è partita e non si può più arrestare. Come tessere del domino, i regimi del mondo musulmano si stanno sgretolando come sabbia di fronte al vento della rivolta popolare. Dopo la Tunisia, l'Egitto sta per capitolare e in Yemen, Giordania, Algeria e Sudan, finanche in Albania, già si sente la brezza del cambiamento. Gli Stati Uniti questa volta hanno davvero esportato la democrazia. Ma invece di farlo con centinaia di migliaia di morti, come in Iraq e Afghanistan, lo hanno fatto con centinaia di miliardi di debiti. La crisi finanziaria globale, nata in America ed esportata in tutto il mondo, ha causato una sofferenza tanto profonda nei Paesi in via di sviluppo da portare le classi popolari e i giovani alla rivolta di piazza, al grido di pane e lavoro, ma prima di tutto libertà.

Cosa succede in Egitto? Il Paese dei faraoni è alla fame. Lunghe file di centinaia di persone aspettano quotidianamente che i camion del governo distribuiscano il pane. Il prezzo del pane al dettaglio é ben dieci volte quello del pane distribuito dallo Stato, e tre egiziani su quattro non possono permetterselo, ma ora persino i sussidi statali non bastano più. Il rincaro dei prezzi del grano dovuto alla corsa ai futures dei beni di prima necessità, l'ultima speculazione finanziaria made in USA, ha messo in ginocchio la popolazione.

Un particolare salta subito all'occhio. La rivoluzione è digitale. Laddove i media tradizionali, tv e radio, sono strumento di propaganda e vengono facilmente controllati dai governi, gli sms e i nuovi media, Internet, Twitter, Facebook, con la loro proliferazione orizzontale, sono l'arma tecnologica che ha permesso di organizzare le rivolte in Iran prima e ora in Tunisia ed Egitto.

In queste febbrili settimane dalla cacciata di Ben Alì in Tunisia, le immagini delle rivolte si sono propagate come un virus, sconfiggendo le censure governative. I dittatori dei Paesi musulmani non dispongono di mezzi tecnologici tali da bloccare il traffico sul web in base al suo contenuto, come invece fanno i cinesi. Sono costretti a chiudere in blocco sia Internet che le reti telefoniche, ma possono farlo solo per brevi periodi, dunque la censura è inefficace.

Ma cosa succede negli altri Paesi della regione? In Algeria, il governo ha abbassato il prezzo del pane per fermare le rivolte popolari, scoppiate dopo la rivoluzione in Tunisia, che hanno già causato almeno quattro morti e centinaia di feriti. Anche in Albania l'opposizione socialista cerca di rovesciare il governo scendendo in piazza, ma la polizia di Berisha spara e uccide almeno tre manifestanti, ferendone una sessantina. In Yemen, mentre il Presidente in carica da trentadue anni cerca di passare una legge che gli garantirebbe il potere a vita, decine di migliaia di persone scendono in piazza nella capitale e si scontrano con le forze del governo.

La rivolta popolare arrotola le sue spire attorno ai confini israeliani. Il secondo alleato cruciale dello Stato ebraico potrebbe infatti seguire la sorte egiziana, con un debito record da quindici miliardi di dollari e riforme liberiste che stanno precipitando le classi più povere nella disperazione. Re Hussein di Giordania sente vacillare il trono sotto i piedi dopo che anche qui i Fratelli Musulmani, portando ogni giorno migliaia di persone in piazza, hanno a sorpresa ottenuto che il re dimissionasse il governo.

Quello che finora lascia senza parole è la posizione americana. I paladini della democrazia sono rimasti a corto di parole. L'unica voce innovativa viene dall'estrema destra del Tea Party: Rand Paul al Congresso ha chiesto di cancellare l'aiuto militare a Egitto e Israele; in tempi di crisi nera non bastano i soldi nemmeno in patria, figuriamoci regalargli oltreoceano.

Obama si è limitato a dire di aver telefonato a Mubarak e di avergli consigliato di non partecipare alle prossime elezioni presidenziali. Un po' debole come ardore per la libertà. Mentre in live streaming su Al Jazeera i manifestanti egiziani dal Cairo mostravano infuriati alle telecamere i lacrimogeni usati dalla polizia di Mubarak, su cui campeggia la scritta Made in USA. “Avrebbero almeno potuto metterci una finta scritta Made in China,” scherza il comico Jon Stewart.

In un articolo pubblicato sul sito di Al Jazeera, l'ex-direttore della sezione Antiterrorismo della CIA Robert Grenier, sostiene che “gli Stati Uniti sono diventati irrilevanti” nella regione. Con il loro sostegno massiccio ai regimi corrotti di Mubarak e dei principi sauditi si sono alienati le simpatie delle popolazioni arabe. Dopo essersi riempiti la bocca della parola democrazia, hanno preparato le elezioni in Palestina nel 2006, per poi cancellarne il risultato dopo la vittoria di Hamas e continuano ad appoggiare l'abominio dell'assedio di Gaza e delle colonie ebraiche in West Bank.

Il governo americano continua a considerare organizzazioni terroristiche i movimenti politici cruciali per gli equilibri di potere regionali, Hamas ed Hezbollah, invece di apprezzare il fatto che abbiano rinunciato al terrorismo in favore della lotta politica. Dunque nel futuro scenario che queste rivolte stanno già generando non c'è alcuno spazio per gli interessi americani.

Se i moti di piazza riusciranno a rovesciare il regime militare in Egitto, il panorama in Medioriente cambierebbe in modo drammatico. I Fratelli Musulmani, principale movimento di opposizione egiziano, con ogni probabilità vincerebbero le prime elezioni democratiche, con o senza l'outsider ElBaradei. Portando con tutta probabilità alla fine dell'assedio della Striscia di Gaza (Hamas infatti non è altro che la costola palestinese dei Fratelli Musulmani ed ElBaradei sostiene che l'assedio di Gaza è “un timbro d'infamia sulla fronte di ogni arabo, di ogni egiziano e di ogni essere umano”).

Ma ancor più che le conseguenze diplomatiche del cambiamento di regime in Egitto, quel che conta é la potenza simbolica della rivoluzione. I giovani musulmani oppressi da dittatori armati e coccolati dall'Occidente stanno scoprendo che, inshallah!, un altro mondo è possibile. E se quello che sembrava un dittatore inespugnabile, sostenuto da America e Israele, crolla sotto la pressione di due milioni di persone in una piazza pacifica, chi lo sa, forse persino l'esercito israeliano non è invincibile ai check point della West Bank. O persino l'ayatollah e il suo sgherro Ahmadinejad non sono al potere per volontà di Allah...

 

di Carlo Benedetti 

MOSCA. Per la vecchia Urss - da Breznev a Gorbaciov - e per la nuova Russia di Eltsin valeva sempre quella famosa previsione di Michail Lomonosov: “La Russia del futuro si salderà alla Siberia”... E in tal senso la strategia socio-economica veniva indirizzata verso il Pacifico per farne - imitando gli americani - una “Silicon Valley” tutta russa. Ma questi anni di mondializzazione e di modernizzazione post-sovietica hanno mostrato che è meglio, per il momento, restare ancorati alla realtà e che, invece di cercare soluzioni d’avanguardia nel lontano Estremo Oriente, è bene muoversi nel cuore della Russia europea. E su questo Putin e Medvedev (per ora...) vanno d’accordo.

Nasce così il loro “progetto Skolkovo” con un bilancio di partenza di circa sei miliardi di dollari. Un piano avveniristico dove il Cremlino si appresta a giocare le carte del futuro mettendo in campo le maggiori attività di cinque importanti settori: energia, informatica, comunicazione, ricerca biomedica e tecnologie nucleari. In tal senso il governo varerà - per superare resistenze ed ostacoli - una legislazione ad hoc per questa cittadella del futuro, in modo da snellire la burocrazia e incentivare gli investimenti dall’estero.

E’ lo stesso Medvedev che, in proposito, denuncia le pecche che il sistema mostra sempre più evidenti. Sceglie, come luogo dell’accusa, uno dei templi della scienza locale, la città di Arzamas situata nella parte centro-orientale della Russia dove si trovano alcune delle più importanti strutture scientifiche del Paese. Agli esponenti locali e agli scienziati convocati per una riunione straordinaria il Presidente russo fa notare che pur essendo in atto forti stanziamenti la situazione industriale e produttiva ristagna: “Pochissimi - dice - sono gli esempi di nostri prodotti altamente tecnologici e competitivi sul mercato mondiale”. La sottolineatura di questo ritardo si inserisce così nel quadro della valorizzazione del nuovo progetto scientifico-industriale. Quello di Skolkovo.

LA TERRA DI SKOLKOVO. L’area nota con il nome di Skolkovo si trova alle porte di Mosca. E’ un terreno di 370 ettari dove si stanno sviluppando strutture futuristiche: scuole, campus, istituti scientifici. Il progetto riguarda tutta la Russia e le terre della zona vengono ora vendute sul mercato a 2-3 milioni di dollari per ettaro. Si annunciano speculazioni e intrighi internazionali. Ma la Russia - in questo senso - è già vaccinata grazie al potere degli oligarchi che si ritroveranno a fare il bello e il cattivo tempo...

IL PROGETTO. L’idea della dirigenza russa consiste nel creare una vera città del futuro capace, con le sue strutture techiche e scientifiche, di lanciare l’economia russa nella grande scena mondiale. Un salto di qualità in tutti i campi: dalla ricerca di nuovi piani relativi allo sviluppo del mercato delle materie prime alle ulteriori conoscenze ed innovazioni scientifiche.

FINANZE E FINANZIATORI. Per lo sviluppo del progetto il Cremlino chiede idee e collaboratori ma soprattutto fondi. E così arrivano l'impegno personale del governatore della California Schwarzenegger e, soprattutto, le promesse di John Chambers, presidente della Cisco System, a investire in Russia un miliardo di dollari nei prossimi dieci anni. Si muove anche l’oligarca russo Viktor Vekselberg (in Svizzera presiede il suo gruppo “Renova” che tratta alluminio e aziende collegate alle energie rinnovabili) sul quale, appunto, sono concentrate le speranze degli uomini del Cremlino. Sulla scia dell’affarista Vekselberg si sono già collocati colossi come “Cisco” (il gigante degli hardware ha siglato un investimento da un miliardo di dollari in dieci anni) e “Google”. E in lista d’attesa per partecipare all’affare del secolo si ritrova la “Microsoft” pronta con investimenti da decine di milioni di dollari. Anche le maggiori banche d’investimento occidentali cercano di trovare un loro posto nella scalata a questa nuova “Arca di Noè” (tale definizione appare sempre più spesso nella stampa di Mosca...).

IL PARTITO DEI CONTRARI. Non tutto però fila liscio nel programma del Cremlino. Perché per molti scienziati russi, in patria e all’estero, il progetto di Skolkovo non esercita alcuna attrattiva. La stampa moscovita, in proposito, non manca di mettere in evidenza che il “sogno” di Skolkovo rimane solo quello del presidente. Perché tra la gente, il progetto è visto come una follia: nel Paese mancano ancora adeguate infrastrutture di base e nessuno pensa all’innovazione tecnologica come a una frontiera importante.

Diffidenza regna anche nella comunità scientifica. Lo stesso premio Nobel per la fisica 2010, Andrei Geim, originario di Soci ma cittadino inglese, ha dichiarato che non lavorerebbe a Skolokovo, “neppure se ricoperto d’oro”. E ha spiegato che il Cremlino può anche investire soldi nella scienza, ma la ricerca accademica sarà sempre minata da corruzione, pesantezza burocratica, assenza di strutture adeguate e di team di lavoro veramente internazionali. Tutte condizioni che alimentano una preoccupante fuga dei cervelli. Anche Sergej Brin, il matematico russo fondatore insieme a Larry Page dell'impero Google e oggi cittadino americano, ha spesso denunciato l'inefficienza e la corruzione del Paese definendolo una “Nigeria con la neve”.

E così mentre la Russia ufficiale punta a fare cassa con “Skolkovo”, si apre una sorta di fossato tra il mondo politico-economico e quello della scienza. Agli uomini del Cremlino non resta che affrettare i tempi, collegare le idee, le ambizioni e le inquietudini al contesto politico, sociale, culturale ed economico. Comincia su questa piattaforma la corsa verso il “grande gioco” del futuro.

 

 

di Michele Paris

La rivolta popolare che dalla Tunisia si è propagata all’Egitto continua a creare enormi imbarazzi ai governi occidentali che sentono di poter perdere improvvisamente il paese strategicamente più importante di tutto il mondo arabo. Costretti a fare i conti con un movimento di piazza che appare sempre più vicino a dare la spallata definitiva al presidente Hosni Mubarak, da Washington ci si affretta ad organizzare una transizione controllata che sfoci in un nuovo Egitto guidato da un governo ancora attento agli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Al di là dei proclami lanciati, sia pure tardivamente, dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato circa il sostegno americano alle aspirazioni delle masse egiziane, ciò che orienta la condotta degli USA nella crisi del gigante nordafricano è esclusivamente la necessità di giungere ad una soluzione che mantenga Il Cairo nella sfera di influenza occidentale. Quella stessa amministrazione Obama che ora chiede a Mubarak di astenersi dall’usare violenza nelle città egiziane, d’altra parte, solo fino a pochi giorni fa lodava la stabilità di un regime repressivo e il suo contributo agli equilibri dell’intera area mediorientale.

Come già accaduto per la Tunisia e il deposto Zine el-Abidine Ben Ali, gli USA sembrano in ogni caso vicini a scaricare lo stesso Hosni Mubarak. Un cambiamento di rotta, quello degli Stati Uniti, annunciato dall’onnipresenza nei talk show americani di domenica scorsa del Segretario di Stato, Hillary Clinton, e dettato dall’evolversi della situazione in Egitto. La sorte di Mubarak, così come le richieste dei manifestati egiziani, non sono però al centro dei pensieri di Washington. La preoccupazione principale è piuttosto quella di preservare la stessa struttura di potere, fondata sulle forze armate e di sicurezza, che ha permesso all’uomo forte del Cairo di governare il suo paese con il pugno di ferro per tre decenni.

Quando, insomma, la permanenza di Mubarak al potere diventerà un ostacolo insormontabile per garantire quella “transizione ordinata” di cui ha parlato la Clinton, gli americani non si faranno scrupoli a liquidarlo. Come hanno ripetuto fino alla nausea i media occidentali in questi giorni, il ruolo dei militari - i quali hanno prodotto tutti i presidenti che l’Egitto ha conosciuto a partire dalla rivoluzione del 1952 - risulterà fondamentale per il futuro assetto del paese. Per giocarsi le residue chance di rimanere in sella, con un provvedimento puramente di facciata, Mubarak ha così nominato l’ex generale e capo dei servizi segreti, Omar Suleiman, a vice presidente e l’ex comandate dell’aeronautica, Ahmed Shafiq, a primo ministro.

È molto probabile che la scelta di Suleiman, il candidato più gradito dalle forze armate alla successione di Mubarak già prima della rivolta, sia stata orchestrata proprio da Washington, dove lo scorso fine settimana era in corso il meeting annuale tra il Pentagono e i vertici militari egiziani. Suleiman è inoltre molto stimato dagli americani e, come ha rivelato un cablo appena pubblicato da Wikileaks, si è sempre mostrato disponibile a promuoverne gli interessi, tanto da rappresentare, ad esempio, il punto di riferimento in Egitto per le famigerate “extraordinary renditions” di presunti terroristi destinati ad essere torturati in Egitto.

La promozione di Suleiman, anche se temporanea, difficilmente appagherà gli egiziani che chiedono il rovesciamento del regime. Di questo ne sono consapevoli gli americani che stanno perciò valutando altre alternative percorribili. Insistere su esponenti del regime compromessi comporterebbe il rischio di veder ripetere i fatti del 1979 in Iran, quando gli USA finirono per perdere un alleato fondamentale nel Golfo Persico. Per questo motivo, se sarà necessario, Washington si convincerà a sostenere anche un governo provvisorio di “unità nazionale” sul modello tunisino o comunque composto dalle varie anime dell’opposizione ufficiale. In questo senso va verosimilmente interpretato il documento che ha reso noto ancora Wikileaks e che rivela un qualche presunto appoggio americano a giovani dissidenti egiziani.

Se la situazione lo richiederà, gli Stati Uniti potrebbero puntare sullo stesso Mohamed ElBaradei, per quanto il Premio Nobel ed ex numero uno dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) abbia assunto posizioni relativamente critiche nei confronti della Casa Bianca. Il diplomatico egiziano rappresenta un volto accettabile, secolare e moderato, per l’Occidente, teoricamente in grado di canalizzare le proteste verso un sostanziale mantenimento dello status quo nel paese dietro una facciata democratica.

La praticabilità dell’opzione ElBaradei dipende però da quanto saranno disposti ad accettarlo gli egiziani. Il suo appello alla folla nella piazza Tahrir al Cairo nei giorni scorsi non sembra aver suscitato troppi entusiasmi. ElBaradei, infatti, non ha una sua base popolare in Egitto, dal momento che negli ultimi decenni ha vissuto ben poco nel suo paese d’origine. Solo qualche giorno dopo lo scoppio della rivolta, ElBaradei ha lasciato Vienna, dove risiede, per unirsi alle proteste.

I partiti di opposizione, che più o meno tutti in maniera tardiva si sono accodati alle manifestazioni di piazza, hanno già designato ElBaradei come negoziatore per giungere ad un accordo con il regime. L’ex capo della IAEA da parte sua ha confermato di essere pronto a guidare un governo che dovrebbe traghettare l’Egitto verso le elezioni. Una soluzione di questo genere costringerebbe gli USA a digerire un ruolo di spicco per la principale forza di opposizione, i Fratelli Musulmani, dimostratisi peraltro decisamente moderati in modo da ottenere il via libera di Washington al loro ingresso in un prossimo governo provvisorio.

Alle inquietudini americane vanno poi aggiunte quelle ancora maggiori di Israele. La sicurezza israeliana si basa infatti in gran parte sui buoni rapporti con l’Egitto, suggellati dal trattato di pace del 1979. A Tel Aviv non sembrano essere troppo rassicurati nemmeno dal fatto che il miliardo e mezzo di dollari in aiuti americani destinati annualmente all’Egitto sia vincolato proprio al rispetto del trattato firmato da Sadat e Begin sotto l’egida di Jimmy Carter. Il rischio che un vicino così rilevante possa essere a breve guidato da un governo ostile è troppo grande per far dormire sonni tranquilli al governo ultra-conservatore di Benjamin Netanyahu.

L’incubo di Israele è quello di un Egitto in buoni rapporti con Hamas a Gaza e di ritrovarsi a fronteggiare un pericoloso accerchiamento in un momento già estremamente delicato. I tumulti in Egitto infatti fanno seguito alle crescenti tensioni con la Turchia e alla recentissima creazione di un gabinetto fortemente influenzato da Hezbollah in Libano, ma anche al raffreddamento dei rapporti con la Giordania di re Abdallah, più volte critico nei confronti di Netanyahu, dove oltretutto la più importante forza di opposizione è rappresentata proprio dalla sezione locale dei Fratelli Musulmani.

Le preferenze di Israele riguardo all’Egitto e il panico che angoscia i suoi corridoi del potere in queste ore, è stato espresso chiaramente dall’ex ambasciatore israeliano al Cairo, Eli Shaked, in un editoriale apparso sul giornale Yediot Aharonot: “Le uniche persone che desiderano la pace in Egitto sono quelle che fanno parte della cerchia di Mubarak. Se il prossimo presidente non sarà uno di loro, andremo incontro a problemi seri”. Per Tel Aviv l’avvicendamento di Mubarak con Omar Suleiman sarebbe indubbiamente gradito, ma in Israele sono realisticamente in pochi a credere che questa possa essere una soluzione definitiva.

Ciò che può confortare americani e israeliani è la mancanza di una vera e propria leadership del movimento di protesta in Egitto - di matrice islamica o secolare - realmente alternativa ad un’opposizione più o meno compromessa con il regime o senza profondi legami con il popolo. In questo vuoto è quindi prevedibile che gli sponsor occidentali dell’Egitto riusciranno ad inserirsi in qualche modo, trovando alla fine una soluzione pilotata della crisi che non danneggi più di tanto i loro interessi vitali in Medio Oriente.

di Carlo Benedetti 

MOSCA. Il blitz di Medvedev alla 41ª edizione del Forum economico mondiale di Davos ha riportato la Russia al centro dell’attenzione della diplomazia mondiale. Con un Cremlino che guadagna punti quanto a sovranità e prestigio in un quadro generale di sfide alla modernità. Senza strappi e mosse false. E così, mentre la scena interna è purtroppo dominata dalla tragedia di Domodiedovo (un altro “undici settembre”, scrive la stampa moscovita), il Presidente russo mette sul tappeto della politica e delle relazioni interstatali nuovi e ampi dossier che tendono a fare di Mosca un centro autorevole di una nuova area strategica. E si tratta di dossier che si chiamano Bric, quanto a geopolitica mondiale, e Skolkovo quanto a soluzioni interne.

Di tutto questo Medevedev ha parlato in Svizzera lasciando sul posto, per le ulteriori spiegazioni, il suo diretto portavoce Igor Ivanovic Shuvalov. Due, quindi, nel segno dell’ottimismo, le punte “russe” del nuovo slancio modernizzatore.

BRIC. Questa compagine di grandi paesi emergenti, che si caratterizza con questo acronimo - Brasile, Russia, India, Cina - si è imposta a Davos nel quadro di nuove dinamiche di trasformazione economica. Medevdev si è impegnato, in tal senso, a rappresentare i nuovi modelli di sviluppo economico e politico non tanto con il suo discorso d’apertura (già noto nelle linee generali) quanto con i numerosi incontri, dentro e a lato del Forum, presenti i massimi esponenti dell’economia e della politica.

E in tutti i colloqui - questa la novità sottolineata dagli osservatori economici - si è fatto sempre riferimento alla Cina, che in termini di dati guida di fatto l’area Bric. D’altro canto Pechino è un grande acquirente di titoli pubblici americani e dell’euro: e quando si parla di deficit pubblico americano o di crisi dei debiti pubblici dell’area euro, c’è anche lì, indirettamente, un riferimento al capo pattuglia dei Bric.

Quanto all’attuale processo di modernizzazione, Medvedev ha voluto scoprire (presenti oltre duemila rappresentanti delle maggiori economie) alcune carte relative alla situazione interna,  sottolineando che la Russia ha esaurito le possibilità di crescita basate sulle materie prime. Il che - ha detto - viene compreso dalla stragrande maggioranza della popolazione. Comunque sia negli ultimi tempi - ha aggiunto - è stato possibile introdurre modifiche significative nella legislazione per puntare alla modernizzazione e alla razionalizzazione industriale. E per mettere un punto fermo su tale questione ha detto che d’ora in poi si farà del tutto per rendere possibile l’applicazione delle leggi dell’UE in Russia.

SKOLKOVO. Altro punto sul quale il Cremlino di Medvedev insiste particolarmente riguarda gli investimenti stranieri. E qui il riferimento è al progetto “Skolkovo”, cioè a quel centro scientifico tecnologico, alle porte di Mosca, costituito per portare le innovazioni sui binari seguiti in tutto il mondo. Il discorso in merito è servito al leader russo per ribadire le linee portanti del suo programma per la privatizzazione di grandi asset statali. Infatti, la lista delle imprese strategiche della Russia, in forza di un decreto presidenziale, è stata ridotta di cinque volte. Nei prossimi tre anni saranno così privatizzati i pacchetti azionari delle maggiori compagnie del settore bancario, infrastrutturale ed energetico per un importo complessivo di decine di miliardi di dollari. Nella gestione di questo processo di privatizzazione saranno poi coinvolte le maggiori banche del mondo.

Uno degli obiettivi che perseguono le misure indicate da Medvedev consiste nell’incrementare l’attrattiva d’investimento del Paese. Il programma prevede, in particolare, la formazione di un fondo speciale destinato a condividere i rischi con gli investitori stranieri. E questo vorrà dire che l’economia russa dovrà ricavare dei consistenti vantaggi dallo sviluppo del settore finanziario.

La Russia - anche questo à stato detto a Davos - non intende limitare in via supplementare la sua attività finanziaria; al contrario, dal 1 gennaio è stata abolita l’imposta sui redditi dalla distribuzione dei titoli a fronte degli investimenti a lungo termine. Inoltre, è in fase di realizzazione il progetto per la trasformazione di Mosca in un centro finanziario internazionale, destinato a diventare non solo un nucleo del sistema finanziario ma anche un catalizzatore dello sviluppo dei mercati finanziari di tutto lo spazio postsovietico. E probabilmente anche dell’Europa Centrale e Orientale.

Grandi novità, quindi, e tutte nel segno di una ampia strategia economica. La Russia sta infatti provvedendo a creare nuovi grandi mercati con norme uniche  in materia di regolamentazione per renderli più attraenti per gli investitori. A dire del Presidente, il Paese già da tempo è pronto all’ingresso nella WTO e conta di concludere questo processo entro la fine di quest’anno. In tal senso va ricordato che Mosca ha già formato l’Unione Doganale con la Bielorussia e il Kazachstan e sta provvedendo a formare insieme a loro uno “Spazio Economico Unico”. Con l’obiettivo finale di estendere l’iniziativa dall'Atlantico al Pacifico.

Sempre a Davos, Medvedev ha posto l’accento sul valore economico che avranno le Olimpiadi del 2014 a Soci, i Mondiali di calcio e, soprattutto, si é soffermato sull’importanza del vertice dell’Associazione per la Cooperazione nell’Asia e nel Pacifico in programma ad Honolulu per il prossimo novembre. In pratica il presidente del Cremlino, parlando agli uomini di Davos, ha inteso anche rivolgersi al suo pubblico per far capire che se la Russia non entrerà sempre più a testa alta nel gruppo dei paesi leader del mondo, sarà destinata a scendere in basso. Come del resto sta avvenendo per quei paesi asiatici dello spazio post-sovietico, ancora in preda alle convulsioni di una troppo rapida e imprevista disgregazione dell’Unione di un tempo.


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