di Eugenio Roscini Vitali

La Costa d'Avorio è di nuovo sull’orlo della guerra civile, ostaggio di una situazione paradossale nella quale il presidente uscente, Laurent Koudou Gbagbo, si rifiuta di accettare la sconfitta elettorale e l’Onu ribadisce e “certifica” la vittoria del candidato dell’opposizione, Alassane Ouattara. Lo scenario è quello di un Paese nel caos, uno stallo politico alimentato dalle decisioni del Consiglio Costituzionale che ha invalidato una buona parte dei voti espressi nelle regioni settentrionale ed ha rovesciato il verdetto della Commissione elettorale indipendente (Cei) imposta dalla comunità internazionale.

Gbagbo, che negli ultimi cinque anni era riuscito a rinviare le elezioni per ben sette volte, ha subito approfittato della confusione e, per rimanere in sella, ha nominato un nuovo premier, l’economista e docente universitario Gilbert Marie N'gbo Ake. La decisione ha subito scatenato la furia di Guillaume Soro, ex primo ministro di un governo di unità nazionale e nemico giurato di Gbagbo, che dopo aver riconosciuto la vittoria di Ouattara ha minacciato il ritorno in campo delle milizie. Intanto, i sostenitori del neoeletto presidente hanno annunciato la costituzione di un nuovo governo e la lista di tredici ministri, tutti alleati di Ovattare, che dovrebbero costituire l’esecutivo guidato dallo stesso Soro, fresco anche lui di nuova nomina a premier.

Nei giorni scorsi, parlando all’emittente francese Europe 1, Guillaume Soro aveva detto che il presidente uscente deve ormai rinunciare ad ogni velleità e che la Costa d’Avorio si deve preparare ad un trasferimento dei poteri. Pur rimanendo convinto che la divisione del Paese è fuori discussione, l’alleato di Ouattara aveva affermato che per defenestrare Gbagdo sarebbe pronto a riorganizzare il disciolto Movimento Patriottico, il gruppo ribelle che nel 2002 fu protagonista della rivolta che spaccò in due la Costa d'Avorio tra nord islamico e sud cristiano.

«Se lui ci costringe a tanto - ha affermato Soro - non avremo altra scelta. Il suo regime è ormai finito, è stato condannato da tutti. Il suo destino è stato deciso dal sovrano popolo ivoriano. Gli saranno comunque garantite le prerogative di un ex capo dello Stato». Soro aveva anche assicurato che nel caso in cui Gbagbo avesse lasciato il potere, non ci sarebbero state «rappresaglie» contro i suoi sostenitori e i ministri del suo partito sarebbero stati i benvenuti nel nuovo governo.

Nonostante la presenza delle comunità internazionale e le misure speciali prese dalle autorità ivoriane, la tensione in Costa d’Avorio rimane altissima e gli scontri e gli atti di violenza hanno già causato numerose vittime. Quattara, che può contare sull’appoggio dell’ex-rivale nonché ex-presidente Henri Konan Bédié, sa che se lo scontro dovesse degenerare i suoi avrebbero probabilmente la peggio e per questo ha sempre invitato le fazioni che lo sostengono a non rispondere alle aggressioni dei gruppi armati fedeli Gbagbo, i Jeunes Patriotes, che secondo alcuni testimoni si sono già resi responsabili di gravi atti di violenza.

Il 1° dicembre, quando i risultati non erano ancora ufficiali, un commando di una cinquantina di uomini, vestiti con divise della Gendarmeria e a volto coperto, è penetrato nella sede del partito di Ouattara, nella parte ovest di Abdjan, e ha fatto fuoco sui presenti uccidendo otto persone e ferendone altre 14. Il giorno successivo, nel quartiere di Yopougon, nelle vicinanze del più grande seggio del partito di Laurent Gbgabo, i gendarmi, intervenuti per disperdere alcuni manifestanti armati, avrebbero aperto il fuoco causando 4 vittime e numerosi feriti. Incidenti simili sarebbero occorsi anche nella località centro-occidentale di Bonon, in uno dei feudi elettorali di Gbagbo, dove gruppi di militanti della coalizione di opposizione, armati di bastoni e machete, avrebbero cercato di intimidire la popolazione.

La situazione sulla sicurezza e gli sviluppi del dopo elezioni preoccupano anche le Nazioni Unite, che hanno deciso di ritirare 460 membri non essenziali dello staff. Il personale Onu non militare verrà temporaneamente trasferito in Gambia mentre i Caschi blu continueranno a garantire il cessate il fuoco lungo tutta la zona cuscinetto che dal 2004 divide in due il Paese. Il 24 novembre scorso, per far fronte ad una crisi annunciata, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva adottato una Risoluzione con la quale aveva stabilito il  trasferimento di un contingente della Missione Onu in Liberia (Minul) a sostegno alla Missione Onu in Costa d’Avorio (Onuci), tre battaglioni di fanteria e due elicotteri da trasporto militare rischierati in Costa d’Avorio per un periodo massimo di quattro settimane. La missione Onuci, autorizzata in seguito al tentato colpo di stato del 2002, è attualmente composta da 8.000 soldati di 41 Paesi che operano in Costa d’Avorio con il supporto di 4.000 militari francesi dell’Operazione Licorne.

Durante la campagna elettorale Gbgabo, che rischia sempre si essere coinvolto nel  processo per corruzione nel settore caffè-cacao che vede alla sbarra 28 imputati, aveva accusato il rivale Ouattara di essere il responsabile della ribellione scoppiata nel 2002 e delle successive violenze, causa principale della crisi economica in cui versa il Paese.

In realtà il declino dei quello che tra gli anni Sessanta ed Ottanta è stato considerato il più prospero dei Paesi dell'Africa Occidentale Francese, è iniziato con il governo di Houphouët-Boigny (partito unico, i progetti faraonici e la recessione internazionale) ed è esploso con il successore Henri Konan-Bédié (aumento della corruzione, nepotismo e conflitto etnico, dovuto essenzialmente al concetto di ivorianità che ha portato gran parte della popolazione del nord ad essere esclusa dai posti guida del Paese).

Sul putch del 19 settembre 2002 ci sono poi versioni contrastanti, con testimoni indipendenti che hanno parlato di ribelli mercenari pagati dal governo francese per destabilizzare un sistema politico indipendente ed intellettualmente autonomo che minava gli interessi economici francesi in Costa d'Avorio.

Per cercare di risolvere la crisi post-elettorale, l’Unione Africana ha inviato nella regione l’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki, giunto ad Abidjan per mediare una situazione sempre più complicata, uno stallo istituzionale che potrebbe indurre la Banca Mondiale e la Banca Africana di Sviluppo a rivedere i programmi di prestito al Paese. Mbeki non ha certo un compito facile e anche se c’è chi parla ancora di pragmatismo, i titoli dei giornali ivoriani parlano ormai di “un Paese con due presidenti.

Fino ad ora l’elezione di Ouattara è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea, dall’Unione Africana da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, ma nonostante ciò Gbagdo non sembrare intenzionato a cedere il timone. Oltre al sostegno di Cina e Russia, che in Africa sono sempre a caccia di buoni affari,  il fondatore del Fronte popolare ivoriano (Fpi) può sempre contare sull’appoggio del presidente del Consiglio Costituzionale, Paul Yao ‘Ndrè, suo fedelissimo alleato che ancora detiene il controllo dell’esercito e della gendarmeria.

La preoccupazione principale rimane comunque legata alla paura che qualcuno soffi sul fuoco ed alimenti la crisi sostenendo i falchi di entrambe i fronti dell’occasione. Nonostante la crisi economica, gli interessi sono enormi: la Costa d’Avorio è il primo produttore al mondo di cacao e tra i primi posti per il caffè, l’olio di palma e il mogano; notevoli i giacimenti di notevoli quantità di diamanti, manganese, nichel e bauxite e recentemente la compagnia petrolifera francese Total ha siglato un accordo con l’uomo d’affari Pierre Fakhoury da cui ha rilevato il 55% di una società  petrolifere che gestisce il giacimento off-shore “Block CI 100”, un impianto situato a un centinaio di chilometri al largo delle coste ivoriane che secondo gli esperti potrebbe arrivare ad avere una capacità di almeno un miliardo di barili di greggio.

 

 

di Mario Braconi

Israele l’ha fatto capire chiaramente: la legge britannica che consente ad un qualunque cittadino di adire le vie giudiziarie denunciando o addirittura chiedendo l’arresto di uno straniero di passaggio sul suolo del Regno Unito, qualora questi si sia reso responsabile di crimini di guerra, ai suoi politici proprio non piaceva; figuriamoci ai militari. Uno di questi ultimi, il generale di "Tsahal", Doron Almog, certamente non ha dimenticato la sua indigesta gita a Londra del settembre del 2005.

A dispetto del fatto che il suo viaggio in Gran Bretagna fosse ufficialmente motivato da scopi sociali e benefici, verso i quali é obiettivamente sensibile per motivi personali, sul campo di battaglia Almog non è esattamente un bonaccione.

Secondo gli avvocati dello studio londinese Hickman & Rose, assunto dagli attivisti filo-palestinesi, nel 2002 avrebbe ordinato la distruzione di una cinquantina di case private palestinesi, quale rappresaglia per un attacco. E’ una violazione delle leggi internazionali di guerra che tutelano le proprietà dei civili (anche se Israele annovera questa misura tra i mezzi leciti per proteggere i suoi cittadini).

In un primo momento, la Metropolitan Police ha cercato di dribblare una situazione potenzialmente esplosiva dal punto di vista diplomatico, ma alla fine non ha potuto che dare seguito alle richieste degli avvocati, che pretendevano semplicemente il rispetto della legge; è così che i poliziotti si sono decisi a prelevare Almog dall’aereo, con l’idea di condurlo in una stazione di polizia.

Proposito mai divenuto realtà grazie all’intervento di uno zelante funzionario, rimasto ovviamente senza nome e senza volto, che ha prontamente avvisato l’Ambasciata israeliana di Londra di quanto si stava verificando in aeroporto. A quel punto, Almog si è rifiutato di scendere dall’aereo della EL AL e, dopo due ore di trattative, è riuscito a rimpatriare. Si dice che la polizia britannica non si sia decisa a salire sull’aereo per prelevare Almog anche per motivi di sicurezza (il generale viaggiava infatti con una scorta armata e non era esclusa, almeno secondo gli atti di un’inchiesta sull’incidente, la possibilità di un confronto armato con la Met...).

Secondo i giornali britannici, anche Tzipi Livni, ex Ministro degli Esteri (2006-2009) del Governo israeliano, e “mente” (per così dire) dell’operazione Piombo Fuso, che portò morte e distruzione indiscriminate nella striscia di Gaza tra il dicembre del 2008 e il gennaio del 2009, ha rischiato di farsi arrestare in Gran Bretagna, meta di una sua visita ufficiale programmata per il dicembre del 2009. Anche se la Livni se l’è cavata, annullando in extremis il suo viaggio, tra i due Paesi è comunque scattato l’incidente diplomatico.

Secondo Associated Press, inoltre, non solo Israele avrebbe rinviato sine die la visita di un certo numero di ufficiali di alto grado in Gran Bretagna nel timore di possibili arresti, ma ha anche sospeso polemicamente qualsiasi dialogo “strategico” (leggi militare) con il Regno Unito fino a che non venga rimosso quello che i politici dello stato ebraico considerano un imbarazzante e pericoloso impaccio da parte delle autorità britanniche.

In concreto, l’interpretazione che Londra dà al principio di giurisdizione universale, secondo cui i suoi tribunali si riservano di giudicare, in alcuni casi specifici (tortura, genocidio, terrorismo), anche su crimini commessi all’estero su cittadini esteri da un cittadino estero,  purché quest’ultimo si trovi in Gran Bretagna al momento in cui l’azione giudiziaria viene intrapresa.

Nel corso della sua visita in Israele del mese scorso, il capo del Foreign Office, il conservatore William Hague, ha preso finalmente un impegno definitivo, promettendo al primo ministro Benjamin Netanyahu di tagliare le unghie ad una legge da lui stesso definita “indifendibile”. Ed ecco che nel progetto di “riforma della polizia e di responsabilità sociale”, che ha iniziato il 30 novembre il suo percorso parlamentare, salta fuori un “punto” che non sembra avere molto a che fare con l’obiettivo generale dichiarato per la legge (rendere la polizia più responsabile di fronte alle autorità locali e gestire il problema del crimine legato all’abuso di alcol): “Modificare la procedura per ottenere un mandato di arresto per reati internazionali, in modo tale che esso possa essere spiccato solo quando vi sia una ragionevole probabilità di un’accusa sostenibile davanti ad un tribunale”. Nel concreto, se la proposta di legge dovesse essere approvata, prima di poter arrestare un criminale di guerra in Gran Bretagna, si dovrà ottenere l’approvazione del Procuratore Generale del Regno (scelto dall’Attorney General, a sua volta nominato dal Primo Ministro).

E’ possibile che l’estrema facilità con la quale si può procedere oggi contro un cittadino straniero di passaggio nel Regno Unito lasci spazio a qualche strumentalizzazione: ma è anche vero che i casi concretamente verificatisi (Pinochet, Almog, Livni) - al di là di come sia poi andata a finire, ché questa è un’altra storia - non sembrano proprio il parto di qualche avvocato esaltato ed esibizionista, tutt’altro.

Tuttavia, la riforma che Cameron vuole mettere in piedi in fretta e furia per compiacere gli amici israeliani, distrugge uno strumento potentissimo nelle mani delle vittime dei tiranni, che oggi possono agire in modo veloce per incastrare despoti, assassini seriali e generali con la mano pesante e la coscienza leggera.

Senza contare che, di fatto, su futuri casi di giurisdizione universale a decidere sarà, anche se indirettamente, il governo in carica; il che ovviamente vuol dire che saranno ufficialmente “crimini contro l’umanità” solo quelli che il governo deciderà di considerare tali, ovvero quelli commessi dai suoi nemici. E’ su questa falsariga il commento a caldo di Kate Allen, direttore di Amnesty International UK: “Si tratta di un cambiamento non necessario e pericoloso. A meno che non si includa nella proposta di legge uno strumento per assicurarsi che i sospetti non si dileguino, il Regno Unito avrà conseguito l’obiettivo di aver indebolito la lotta per la giustizia internazionale fornendo ai criminali di guerra un biglietto gratis per sfuggire alla giustizia”. Sembra insomma che a tutti i dittatori con le mani lorde di sangue non verrà negato qualche rilassante weekend di shopping a Londra.

di Michele Paris

Uno dei principali obiettivi di Barack Obama nella difficile operazione di rilancio della sua amministrazione in politica estera è la ratifica definitiva del trattato New START, siglato ufficialmente a Praga con il presidente russo Medvedev lo scorso mese di aprile. La versione più recente del trattato tra USA e Russia per la riduzione delle testate nucleari dei due paesi si trova tuttavia di fronte ad un percorso accidentato a Washington, dove un rinvigorito Partito Repubblicano non perde occasione per ostacolare i progetti della Casa Bianca.

Per incassare l’approvazione conclusiva, il successore dei trattati START 1 (1991) e START 2 (1993) necessita dell’appoggio di almeno i due terzi del Senato americano, cioè 67 voti. Nella camera alta del Congresso i democratici controllano però solo 59 seggi, che si ridurranno oltretutto a 53 dal prossimo gennaio, quando i nuovi senatori usciti vincitori dalle recenti elezioni di medio termine prenderanno possesso dei loro scranni. Fino a pochi giorni fa, il partito di maggioranza sembrava poter contare su circa 14 repubblicani per il passaggio a breve del New START, ma gli ultimi sviluppi hanno lasciato Obama e i suoi praticamente con un solo esponente dell’opposizione disposto a dare il via libera immediato all’accordo bilaterale, il senatore dell’Indiana Richard Lugar.

L’opposizione più dura ai piani di Obama è giunta dal veterano senatore dell’Arizona, John Kyl, il quale ha escluso la possibilità di prendere in considerazione il trattato nel corso della cosiddetta “lame-duck session” del Congresso uscente. Secondo il numero due dei repubblicani al Senato l’agenda già fin troppo folta del ramo del Congresso di cui fa parte non consentirebbe l’analisi del nuovo START nelle prossime settimane. Dunque, il voto ritenuto cruciale da Obama andrebbe rinviato al 2011, con lo spettro di ulteriori ritardi in seguito al prossimo allargamento dei ranghi del Partito Repubblicano.

La ferma resistenza di John Kyl ha finito così per convincere anche quei compagni di partito che avevano inizialmente assicurato il loro sostegno al trattato con Mosca. Dietro alla riluttanza del senatore dell’Arizona c’è il desiderio di ottenere dal presidente Obama svariate decine di miliardi di dollari per rimodernare le testate nucleari risparmiate dalla riduzione prevista dal New START. A tal scopo, la Casa Bianca aveva già stanziato circa 70 miliardi di dollari da spendere entro il prossimo decennio, ai quali ne sono stati aggiunti altri 14 nell’ambito di un vero e proprio corteggiamento nei confronti del senatore Kyl che ha visto impegnati tutti i pezzi grossi dell’amministrazione Obama.

Anche se il New START dovesse essere approvato a breve, il presidente americano si troverebbe così in una situazione quanto meno singolare, essendo costretto ad investire ingenti somme nel rinnovamento e nella produzione di nuovi ordigni letali proprio mentre cerca di presentarsi come il paladino di un mondo senza armi nucleari. Le concessioni a John Kyl significherebbero in definitiva una resa sostanziale alla posizione dei falchi del Partito Repubblicano. Nostalgici della Guerra Fredda, questi ultimi continuano a vedere con sospetto qualsiasi limitazione degli strumenti di promozione dell’imperialismo statunitense su scala planetaria, come lo è appunto l’arsenale nucleare di cui tuttora dispone Washington.

In ogni caso, Obama sembra deciso a forzare un voto al Senato entro la fine dell’anno e, per convincere l’opposizione ad appoggiarlo, la scorsa settimana è stato protagonista di un evento pubblico a sostegno del New START in cui è apparso al fianco di esponenti di spicco delle passate amministrazioni, come Henry Kissinger e gli ex segretari di Stato Madeleine Albright e James Baker. Nell’operazione propagandistica non si è mancato poi di ricordare che precedenti trattati con la Russia - come il Trattato di Mosca del 2003 tra Bush e Putin e lo stesso START 1 - erano stati approvati dal Senato dopo pochi giorni di dibattito e con un appoggio bipartisan.

L’accordo sul nuovo START tra Stati Uniti e Russia era giunto dopo lunghe negoziazioni tra le delegazioni delle due superpotenze e nel suo aspetto finale prevede il taglio di circa il trenta per cento delle armi nucleari possedute da entrambi i paesi. Ciò significherebbe la diminuzione dei rispettivi arsenali fino a quota 1.550 per le testate nucleari e 700 per i vettori nucleari, una quantità di armi comunque in grado abbondantemente di cancellare ogni forma di vita sulla faccia della terra. Inoltre, vengono fissate nuove norme per la riattivazione delle ispezioni reciproche che erano state interrotte l’anno scorso per la prima volta dal crollo dell’Unione Sovietica.

Definito un punto cruciale per la sicurezza nazionale USA, il New START rientra nella strategia di Obama per “resettare” le relazioni con la Russia dopo le frizioni che hanno segnato il rapporto tra George W. Bush e Vladimir Putin. Il tentativo di riavvicinamento a Mosca, ribadito anche durante il recente summit della NATO a Lisbona, ha come obiettivo in realtà il coinvolgimento del governo russo su varie questioni importanti per gli interessi americani. In primo luogo, per aumentare le pressioni sull’Iran intorno all’annoso problema del nucleare. Poi, per evitare un pericoloso avvicinamento della Russia alla Cina in una situazione di crescente attrito tra Washington e Pechino e, da ultimo, per assicurarsi le linee di rifornimento privilegiate verso l’Afghanistan che passano per la stessa Russia in Asia centrale.

Mentre in Russia sono in molti a nutrire dubbi sulle effettive possibilità di approvazione del nuovo START in tempi ragionevoli dopo il successo elettorale repubblicano dei primi di novembre, il presidente Medvedev ha ottenuto nelle ultime settimane la promessa di Obama per un suo impegno a tutto campo a Washington, così da convincere i senatori recalcitranti. Con un’atmosfera politica sempre più avvelenata nella capitale americana, le prospettive per la Casa Bianca non sembrano però delle migliori e ulteriori ritardi rischiano di trasformare un successo annunciato nell’ennesimo flop dell’amministrazione Obama in politica estera.

A rompere gli indugi dei repubblicani potrebbe essere allora proprio la carta iraniana, già agitata dagli Stati Uniti a Lisbona per promuovere il nuovo sistema di difesa missilistico della NATO in Europa. Il giro di vite su Teheran, caldamente sostenuto dai repubblicani e messo in atto insistentemente per giungere al cambiamento di regime, risulterebbe infatti ben poco efficace senza la collaborazione dell’alleato russo.

Mosca da parte sua ha già dimostrato la propria disponibilità ad assecondare i desideri di Washington, dapprima votando a favore delle sanzioni licenziate qualche mese fa dal Consiglio di Sicurezza ONU e più recentemente cancellando un contratto di vendita all’Iran per il sistema di difesa missilistico S-300. Quest’ultimo avrebbe permesso alla Repubblica Islamica di scoraggiare un eventuale aggressione israeliana contro le proprie installazioni nucleari.

Un favore fatto alla Casa Bianca, credono in molti, proprio in cambio di una rapida approvazione del New START, ma che potrebbe rientrare in fretta se a Washington non saranno in grado di mettere assieme i voti necessari al passaggio del trattato.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Non può più tornare in Svezia, dove verrebbe arrestato con l'accusa di molestie sessuali; non può andare in Francia, perché il governo ha messo al bando Wikileaks.org; non può girare per l'Europa, dopo che la Svezia ha esteso il mandato d'arresto all'Interpol; persino la nativa Australia minaccia di arrestarlo su richiesta dell'Interpol, unico caso di collaborazione poliziesca interplanetaria. Non può nemmeno scappare in America, perché il governo americano lo accusa di spionaggio e verrebbe arrestato come terrorista. Appare in Inghilterra, dove rilascia interviste ai principali quotidiani americani. L'ultimo rifugio per Assange rimane l'Islanda, l'unica terra libera dell'intero pianeta.

Nonostante la bancarotta finanziaria, gli Islandesi si stanno adoperando per trasformare il loro Paese nel paradiso della stampa e offrono un porto sicuro all'attivista australiano. I server di Wikilieaks si trovano al sicuro in Islanda e in Svezia, dove un sito appartenente al Partito Pirata (con un mirror in Svizzera) li ospita e protegge dagli attacchi dei governi di mezzo mondo. Assange dichiara che nel caso questa caccia contro di lui dovesse proseguire, metterebbe online una montagna di segreti di stato e di corporations.

Forse è stata proprio la sua ultima minaccia a far scattare la caccia all'uomo. Assange, che crede nel libero mercato, è diventato il paladino della trasparenza. Nel suo mondo ideale, dove mille Wikileaks locali mettono alla berlina i misfatti dei politici e delle aziende, la minaccia della trasparenza sarebbe un incentivo in favore di un comportamento onesto.

Nella recente intervista alla rivista americana Forbes, Assange annuncia che dopo il Cablegate la prossima mossa è mettere online la corrispondenza interna e i documenti riservati di una grande banca americana. Il suo scopo è esporre al pubblico massicce frodi finanziarie. Finché si tratta di divulgare note del Dipartimento di Stato americano, va bene, ma ora che il supereroe cibernetico minaccia Goldman Sachs e compari, la pacchia è finita. Dopo questa minaccia, è scattata la caccia all'uomo planetaria.

Proprio come Assange, il sito di Wikileaks.org sta subendo una caccia senza quartiere, costretto a cambiare casa digitale a ripetizione. Wikileaks.org e i suoi mirror sono al momento inaccessibili. Gli hackers al servizio di governi e corporations sono riusciti a bloccarli temporaneamente. Allo stesso tempo è impossibile fare donazioni al sito tramite PayPal, da quando il servizio di pagamento online ha congelato l'account, citando violazioni di norme contrattuali.

La settimana scorsa il sito era ospitato in Inghilterra (come il suo fondatore), ma EveryDNS di Manchester lo caccia dopo aver subito attacchi online. In questa vera e propria guerra digitale, Wilikeaks.org emigra in Svizzera, dove cambia il proprio cognome in .ch, ma il server svizzero li dirotta in Francia, dove subito il governo francese lo mette fuori legge. Wikileaks.org decide di saltare sulla groppa del nemico e chiede asilo ad Amazon.com. Ma l'azienda intasca i soldi e poi, sotto pressione dell'amministrazione americana, li espelle.

In questo momento i file segreti si trovano sullo svizzero Wikileaks.ch, che appartiene al Partito Pirata svedese. Tuttavia nelle ultime ore anche questo sito è inaccessibile. Al momento in cui scriviamo l'indirizzo possibile per connettersi a Wikileaks.org è http://213.251.145.96/

Nonostante le minacce di arresto e di oscuramento, Assange si è premunito di un'assicurazione sulla vita. Ha fatto scaricare a migliaia di sostenitori un enorme file criptato, contenente a suo dire delle rivelazioni di portata epocale. Nel caso venga arrestato o rapito o ucciso, la password verrà pubblicata sul sito e tutto il mondo verrà a sapere di cosa si tratta.

Il New York Times, in un editoriale, ha sostenuto che nessuna delle rivelazioni di Assange mette in imbarazzo il governo americano e si tratta di notizie già note. Negli Stati Uniti hanno fatto un certo scalpore le rivelazioni sull'Italia e sui rapporti tra Putin e Berlusconi, ma la maggior parte dei documenti riguardanti la politica americana parlano di cose già note. Nonostante questa apparente irrilevanza politica, pare si sia formato un vero e proprio complotto globale per fermare Assange.

Nemmeno per arrestare Bin Laden le polizie mondiali sono riuscite a sincronizzarsi in una caccia all'uomo di queste dimensioni. Nei tv show americani, Assange è il nuovo passatempo nazionale: sul manichino di Bin Laden si apre una cerniera e spunta Assange, il nuovo nemico “terrorista” della destra repubblicana. In un presente dominato da una nuova entità poliziesca globale, che chiude siti e arresta persone in qualsiasi parte del pianeta, a chi crede nella libertà di espressione rimane almeno un'opzione. Emigrare nella meravigliosa terra d'Islanda, paradiso della stampa libera.

di Carlo Musilli

La Corea del Nord continua a sbandierare i suoi progressi nucleari. Pochi giorni fa il quotidiano Rodong Sinmun ha fatto sapere al mondo che "migliaia di centrifughe" sono entrate in funzione per l'arricchimento dell'uranio, da utilizzare come combustibile per un reattore "ad acqua leggera", cioè finalizzato alla produzione di energia elettrica. Nelle stesse ore, l'agenzia ufficiale Kcna ha specificato che "il progetto di sviluppo di energia nucleare a scopo civile sarà accelerato".

Una comunicazione insistita da parte di Pyongyang, il cui obiettivo è quello di continuare a tenere sotto pressione Stati Uniti e Corea del Sud. Non ci sono infatti garanzie che la Corea del Nord non aumenti l'arricchimento dell'uranio dal 3% al 95%, cosa che consentirebbe di passare dalla produzione di elettricità a quella di bombe atomiche.

I timori sono stati alimentati dalla relazione fatta alla Casa Bianca da Siegried Hecker, il professore americano che a inizio novembre ha visitato il nuovo sito nucleare di Yongbyon. Appositamente invitato dalle autorità nordcoreane, Hecker è tornato in patria pieno di sospetti sulla reale funzione di quel reattore. Pyongyang gioca a spaventare il mondo. Probabilmente lo scopo è di usare la denuclearizzazione come moneta di scambio per ottenere maggiori aiuti dalla comunità internazionale, attualmente limitati dalle sanzioni Onu.

Ma nel Mar Giallo la tensione è alta, soprattutto sul fronte militare. Nel corso di un'audizione parlamentare, Won Sei-hoon, capo dei servizi segreti di Seul, ha messo tutti in allarme affermando di ritenere "altamente probabile" un nuovo attacco della Corea del Nord, dopo il bombardamento di martedì scorso contro l'isola sudcoreana di Yeonpyeong, costato la vita a quattro persone. Secondo Won Sei-hoon, inoltre, le recenti azioni militari di Pyongyang sarebbero legate "alla successione al vertice" del regime.

In effetti, il "caro leader" Kim Jong-il non gode ormai da tempo di buona salute e sta per essere sostituito dal suo terzogenito Kim Jong-un, che a fine settembre è stato nominato generale. In molti credono che il bombardamento della settimana scorsa abbia avuto offrire anche questo messaggio: nonostante l'imminente cambio di leadership, nulla cambia nella politica della Corea del Nord.

Di fronte a tale situazione di crisi, l'unica azione diplomatica possibile sembra essere quella della Cina, storico alleato di Pyongyang. Attraverso il suo ministro degli Esteri Yang Jiechi, Pechino continua a ribadire la necessità di riprendere le trattative a sei fra le due Coree, la Russia, gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina stessa. Si tratterebbe di riunire per una consultazione d'emergenza il tavolo già indetto per cercare di convincere Pyongyang ad abbandonare la strada del nucleare.

Un'iniziativa che, fino ad ora, non ha trovato seguito. Tutti gli altri paesi preferiscono la linea dura: il Giappone ha definito "poco opportuna" la ripresa delle trattative in questo momento, mentre il Segretario di Stato americano Hilary Clinton e il Ministro degli Esteri sudcoreano Kim Sung-hwan hanno specificato dal Kazakistan, dov'è in corso il vertice Osce, che prima del dialogo è necessario che Pyongyang abbandoni ogni atteggiamento aggressivo e dimostri un reale impegno per la denuclearizzazione. Affermazioni giunte proprio mentre nel Mar Giallo si stavano chiudendo i quattro giorni di esercitazioni militari congiunte degli eserciti di Washington e di Seul. Manovre che riprenderanno entro breve: fine dicembre o inizio 2011.

Nella risposta secca della Clinton alla proposta di Yang Jiechi si può leggere il disappunto degli Stati Uniti per il ruolo che la Cina ha scelto di svolgere in tutta la vicenda. Gli Usa avrebbero voluto un segnale forte contro l'aggressività nordcoreana, ma da Pechino non si sono mai sbilanciati, evitando perfino di attribuire a Pyongyang la responsabilità degli scontri a fuoco di martedì scorso.

Il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha detto chiaramente che la Cina "ha il dovere di intervenire su Pyongyang". Un'affermazione che ha reso chiaro a tutti come il pallino del gioco sia interamente in mano a Pechino. La Cina potrebbe. Gli Stati Uniti, semplicemente, non possono.

Oltre a mostrare i muscoli sfoggiando nelle acque coreane la mostruosa portaerei George Washington, gli Usa sanno di non avere alternative. Senza un'attiva collaborazione di Pechino, non c'è nulla che possano fare per fermare l'escalation nordcoreana.

Forse per prendere atto di questa situazione e stabilire mosse comuni, i ministri degli esteri di Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone s’incontreranno lunedì prossimo a Washington. Un estremo tentativo, in realtà, si è già consumato. L'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Susan Rice ha chiesto di intensificare l'applicazione delle sanzioni contro la Corea del Nord. Purtroppo per lei, aveva in mano una pistola scarica. Sulle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, la Cina ha potere di veto.

 


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