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di Carlo Musilli
Si chiamava "Dream Act" ed è rimasto un sogno. Il Senato degli Stati Uniti ha respinto la proposta di legge più progressista degli ultimi anni in tema d’immigrazione. L'obiettivo era di concedere la cittadinanza americana a quei clandestini che, arrivati negli Usa ancora in fasce, hanno ormai portato a termine il servizio militare o almeno due anni di college.
Si trattava di regolarizzare centinaia di migliaia di persone, per lo più studenti, che da tutta la vita negli Stati Uniti si sentono a casa. Molti di loro scoprono di essere immigrati illegali soltanto quando fanno richiesta di ammissione all'università. Per avere un'idea: ogni anno nei licei americani si diplomano circa 65.000 immigrati illegali. Tirano anche il cappello in cielo.
Ma naturalmente tutto questo ai senatori non interessa. In 55 hanno votato a favore, 41 i contrari. Peccato che per far andare avanti la legge servissero almeno 60 voti. Peccato davvero, soprattutto perché 5 Democratici hanno votato con i Repubblicani.
Il "Dream Act" non era positivo "solo per i giovani che vogliono servire un paese a cui sentono di appartenere - ha commentato Obama - ma anche per gli Stati Uniti, che traggono profitto dai loro successi" sotto il profilo della "competitività economica e militare". Purtroppo, ai conservatori la legge è sembrata un'amnistia inaccettabile. Secondo Jeff Sessions, senatore dell'Alabama e leader della fazione contraria al provvedimento, approvare il "Dram Act" sarebbe stato come "premiare l'immigrazione clandestina", "incoraggiando così una pratica illegale".
L'amministrazione Obama si ritrova così impantanata su un nuovo, delicatissimo fronte. I Democratici ripetono di voler tornare nei prossimi mesi sul tema "prioritario" dell'immigrazione, ma sanno benissimo che quella appena sfuggita era l'ultima occasione. Da gennaio, infatti, in virtù dei risultati delle elezioni di medio termine, il Congresso passerà in mano ai Repubblicani. E allora non solo sarà impensabile rispolverare il povero "Dream Act", ma ci si ritroverà a discutere se approvare o meno leggi da età della pietra. Per fare solo un esempio, i conservatori hanno in mente di abrogare la legge che, a oggi, concede la cittadinanza automatica ai bambini nati su suolo americano da genitori clandestini. In poche settimane si tornerà indietro di decenni.
Era proprio quello che Obama voleva evitare. Per tutto il 2010 la sua amministrazione ha fatto il gioco del bastone e della carota con i Repubblicani: controlli più rigidi hanno portato al record di 390mila espulsioni in 12 mesi, nella speranza che questo ammorbidisse l'opposizione in sede legislativa. Nella mente utopica degli obamiani, infatti, il "Dream Act" doveva essere solo la parte più indolore di una riforma generale che avrebbe portato a regolarizzare la situazione di 11 milioni di immigrati illegali.
Ma qualcosa è andato storto e, per il momento, Obama si ritrova ad essere solo il presidente che detiene il record d'espulsioni. Un problema bello grosso, perché si gioca sul fronte elettorale. Sono in ballo milioni di voti per le elezioni presidenziali del 2012. Le comunità d'immigrati, soprattutto ispanici (i "Latinos"), stanno col fiato sul collo del Presidente. Proprio loro, gli stessi che hanno salvato i Democratici alle ultime consultazioni di medio termine, evitando che finissero in minoranza anche al Senato. I "Latinos" hanno già attaccato Obama per non aver affrontato il problema dell'immigrazione in estate, come aveva promesso. Non accetterebbero di essere dimenticati ancora.
Certo, ormai gli spazi di manovra per i Democratici sono più che limitati. Alla prossima riunione del Congresso saranno presenti diverse new-entry elette proprio sulla base di programmi anti-immigrazione. Un paio di nomi: Lamar Smith e Steve King, due repubblicani purosangue che con ogni probabilità siederanno rispettivamente sulle poltrone della Commissione Giustizia e della Sottocommissione per l'Immigrazione.
A questo punto gli scenari possibili sono diversi. I Democratici saranno costretti a tentare di nuovo con il "Dream Act" ("approvarlo è il minimo che possiamo fare", ha detto l'ottimista Obama), ma è probabile che nel lungo periodo sceglieranno di proporre una legge più generale e light rispetto a quella concepita in origine, per evitare di mettere sul tavolo le questioni più controverse ed essere nuovamente umiliati al momento del voto.
D'altra parte, nonostante tra le loro fila trovino posto quegli xenofobi scalmanati del Tea Party, nemmeno ai Repubblicani farebbe comodo inimicarsi l'elettorato ispanico. E' quindi verosimile che alla fine decidano di mettere la museruola ai soggetti più agguerriti (alcuni provengono dai movimenti suprematisti bianchi) e ridimensionare le proposte più rischiose, come quella sulla cittadinanza ai bambini.
Per non scontentare l'elettore medio-bigotto, potrebbero comunque proporre le leggi dall'impatto emotivo più debole, come quella con cui si vorrebbe obbligare i datori di lavoro a verificare la condizione amministrativa dei propri dipendenti per via telematica, invece della solita carta ingiallita.
Comunque vadano le cose, è certo che a gennaio negli Stati Uniti si parlerà ancora d’immigrazione. Entrambi gli schieramenti dovranno tener presente che "la bocciatura del 'Dream Act' non sarà dimenticata dalla comunità dei Latinos - come ha sottolineato Robert Mendez, senatore del New Jersey dal cognome non propriamente anglosassone - una comunità che sta crescendo non solo nelle dimensioni, ma anche sotto il profilo del potere e della coscienza politica".
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di Michele Paris
Tra i documenti pubblicati a getto continuo da Wikileaks, negli ultimi giorni spiccano alcuni cablo redatti tra il 2005 e il 2007 dall’ambasciata statunitense a Nuova Delhi, che descrivono la condizione dei diritti umani in Kashmir. I resoconti in questione parlano apertamente di torture e abusi, eseguiti impunemente dalle forze di sicurezza operanti nell’unico stato indiano a maggioranza musulmana con la connivenza del governo centrale. Perfettamente a conoscenza dei fatti, gli Stati Uniti hanno tuttavia deciso di tacere su questi crimini, continuando a perseguire una politica di avvicinamento verso l’importantissimo alleato asiatico.
Nel primo cablo riservato, inviato dall’allora ambasciatore David C. Mulford al Dipartimento di Stato americano nell’aprile del 2005, si fa riferimento a un rapporto confidenziale del Comitato Internazionale della Croce Rossa consegnato ad alti funzionari dell’ambasciata. In esso vengono descritte le “gravi e diffuse torture nelle prigioni indiane del Kashmir tra il 2002 e il 2004”. Nonostante il consolidato dialogo tra l’istituzione umanitaria e il governo indiano, prosegue l’ambasciatore, “il persistente abuso dei detenuti ha spinto la Croce Rossa a concludere che Nuova Delhi approva la tortura”.
Secondo quanto riferito ai diplomatici americani dalla Croce Rossa, ad essere sottoposti ai metodi di tortura non sono tanto i militanti anti-indiani (i quali generalmente vengono giustiziati sommariamente dalle forze di sicurezza) quanto piuttosto cittadini comuni accusati o sospettati di aver fornito assistenza agli stessi attivisti, oppure di possedere preziose informazioni su di essi.
Lo stato indiano di Jammu e Kashmir è situato all’estremo nord del paese ed è conteso tra India e Pakistan (e in parte dalla Cina), i quali hanno combattuto almeno tre conflitti a partire dalla partizione dell’India britannica nel 1947. Dopo le contestate elezioni del 1987, nella regione si crearono vari gruppi militanti, che condussero ben presto alla nascita di un movimento di resistenza armato contro il dominio indiano.
Il rapporto diffuso da Wikileaks continua poi con il riassunto da parte dell’ambasciatore americano a Nuova Delhi dei dati forniti dalla Croce Rossa nella sua attività tra i centri di detenzione del Kashmir. L’indagine coinvolge 177 carceri con 1.491 interviste a detenuti. Di questi, ben 852 hanno subito una qualche forma di abuso, come elettro-shock, percosse e fratture, simulazione di annegamento e abusi sessuali. Delle torture, sottolinea la Croce Rossa, si sono resti protagonisti indistintamente tutti i reparti delle forze di sicurezza indiane.
Del trattamento riservato al Kashmir dai governi della cosiddetta più grande democrazia del pianeta, rendono conto in realtà da tempo svariate organizzazioni a difesa dei diritti umani. La pubblicazione dei documenti da parte di Wikileaks testimonia tuttavia in maniera inequivocabile di questi orrori, grazie all’accesso diretto garantito alla Croce Rossa nelle carceri indiane. Tale concessione viene infatti riservata dai governi all’associazione con sede a Ginevra, in seguito alla tradizionale politica di non divulgare pubblicamente i risultati dei sopralluoghi effettuati, così da rimanere neutrale e conservare appunto la possibilità di accedere alle strutture detentive per svolgere la propria attività umanitaria.
Nel caso del Kashmir, però, al Comitato Internazionale della Croce Rossa la situazione appariva talmente seria da dover informare gli americani. Il ricorso ad abusi e torture durante gli interrogatori dei detenuti - ribadisce la Croce Rossa - era stato segnalato al governo indiano da almeno dieci anni, senza che tali pratiche fossero state interrotte.
La consegna del rapporto all’ambasciata USA a Nuova Delhi, coerentemente con la retorica di un governo come quello di Washington che si proclama difensore dei diritti umani in tutto il pianeta, nelle intenzioni della Croce Rossa doveva verosimilmente spingere le autorità americane a denunciare pubblicamente gli abusi, ma il rapporto sul Kashmir è caduto invece nel vuoto.
L’attività repressiva in Kashmir, nonostante tutto, appariva a metà di questo decennio relativamente attenuata rispetto agli anni Novanta del secolo scorso, quando ad esempio i militari indiani erano soliti invadere villaggi nelle ore notturne, arrestando arbitrariamente centinaia di persone. Questo giudizio della Croce Rossa, in ogni caso, deve tener conto del fatto che non le fu mai concesso di visitare il cosiddetto “Cargo Building”, cioè il più famigerato carcere del Kashmir, situato nella capitale dello stato, Srinagar.
Il divieto imposto dalle autorità centrali indiane faceva parte di una strategia mirata a restringere le attività della Croce Rossa stessa, secondo la quale “il Ministero dei Affari Esteri si era lamentato della presenza del Comitato Internazionale della Croce Rossa a Srinagar”, chiedendo “la conclusione delle sue operazioni e mettendo in guardia da contatti non autorizzati con elementi separatisti”.
L’assenso alla repressione in Kashmir anche da parte della politica locale è confermato da un secondo cablo reso noto da Wikileaks e datato 2007. In esso, l’ambasciata americana riferiva a Washington di un deputato del Parlamento del Jammu e Kashmir, Usman Abdul Majid, definito il leader di una milizia filo-indiana, “nota per l’impiego di metodi di tortura, uccisioni extra-giudiziali, stupri ed estorsioni ai danni di civili sospettati di proteggere o assistere terroristi”.
Se anche a Washington si era ben consapevoli delle gravissime violazioni dei diritti umani in Kashmir, nulla è stato fatto per richiamare il governo indiano. Anzi, dagli Stati Uniti si è continuato ad esaltare pubblicamente le solide fondamenta democratiche dell’India, anche per questo un naturale alleato degli Stati Uniti in Asia. L’amministrazione Bush, addirittura, nel 2008 premiò Nuova Delhi con la stipula di un accordo del tutto eccezionale per l’accesso al nucleare civile, nonostante l’India non avesse mai ratificato il Trattato di Non Proliferazione.
Allo stesso modo, Barack Obama ha recentemente ribadito l’importanza strategica della partnership indo-americana. Nel corso della sua visita lo scorso novembre, il presidente democratico ha anche appoggiato pubblicamente l’assegnazione all’India di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mentre ha accuratamente tralasciato qualsiasi riferimento alla situazione in Kashmir.
Le rivelazioni di Wikileaks rendono così ancora una volta giustizia di una diplomazia americana interamente contraddistinta dalla doppiezza e dall’ipocrisia, indipendentemente dal partito e dal presidente al potere. Se condanne esplicite per la violazione dei diritti umani vengono emesse di frequente dal Dipartimento di Stato e dalla Casa Bianca - cui fa seguito una puntuale campagna mediatica - esse sono rigorosamente risparmiate ai paesi alleati.
La difesa dei diritti umani nel mondo da parte degli USA è del tutto subordinata alla difesa dei propri interessi strategici, come dimostra la questione del Kashmir. L’India risulta infatti sempre più un partner fondamentale per il contenimento dell’espansionismo cinese nel continente asiatico.
I documenti appena diffusi sul Kashmir dal sito fondato da Julian Assange, infine, non hanno sollevato particolari polemiche sui media indiani, né reazioni troppo spazientite nel mondo politico. Le autorità locali si sono più che altro rimbalzate le responsabilità per abusi che continueranno a rimanere impuniti.
L’attuale partito al governo nella regione ha accusato per le torture commesse nel recente passato l’opposizione. Quest’ultima ha ribadito a sua volta di non volere accettare lezioni sui diritti umani. Non più tardi dell’estate scorsa, d’altra parte, le forze di sicurezza hanno represso nel sangue le dimostrazioni spontanee degli abitanti del Kashmir, scoppiate in seguito all’assassinio di un ragazzo da parte della polizia indiana, provocando oltre un centinaio di morti.
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di mazzetta
La vicenda di Wikileaks e del disvelamento dei cablo diplomatici americani offre molti spunti per riflessioni che vanno oltre l'ovvio e si spingono molto più in là delle analisi fin qui offerte dalla maggior parte dei commentatori e dei media. L'accoglienza riservata alla massa d'informazioni diffuse da Wikileaks meriterebbe lunghe discussioni, perché a tratti la reazione di media e politici è sembrata ancora più importante dello stesso contenuto dei documenti riservati.
Ufficialmente gli Stati Uniti hanno assunto una posizione contraddittoria, oscillando tra il "non c'è niente di nuovo nei cable" e "Quello di Wikileaks è terrorismo". Delle due una, no? Ma gli Stati Uniti non sono certo nuovi a ipocrisie e contraddizioni evidenti e non deve stupire che l'unica cosa che si capisce di fronte a due affermazioni del genere è che Wikileaks ha ferito l'amministrazione americana, ben oltre la figuraccia insita nella “perdita” di una tale massa di materiali riservati.
Il fatto che gli Stati Uniti minaccino Assange senza trovare un appiglio giuridico per muovergli guerra, è una dimostrazione indubbia che Wikileaks non ha messo in atto alcun comportamento illegale. Il fatto che gli Stati Uniti detengano - in condizioni che infrangono lo stesso diritto statunitense - il soldato Manning, ritenuto la fonte dell'ultima ondata di segreti, non fa che confermare la natura piratesca dell'amministrazione americana, che negli ultimi anni non ha avuto ritegno a far stracci del diritto nazionale ed internazionale per perseguire scopi inconfessabili, travestiti malamente da azioni contro i cattivi.
Allo stesso modo sembrano ragionare molti paesi alleati degli USA, l'Italia su tutti, che ripetono come pappagalli le parole d'ordine diramate da Washington con il sostegno dei media compiacenti. Non deve stupire: le colpe di Washington sono le stesse colpe di Roma o Londra. Ecco allora che il tentativo di ridurre le rivelazioni a qualcosa di noto assume il sapore della censura, perché quello che emerge dai cablo e smentisce questa conclusione viene sistematicamente ignorato.
Così alle opinioni pubbliche si propinano le opinioni delle ambasciate, evitando però di sottolineare l'emersione di fatti incontrovertibili e decisamente incompatibili con la narrazione americana degli ultimi decenni. Se l'ambasciatore che riferisce dello stile di vita di Berlusconi riprendendo i giornali italiani è acqua fresca, in quell'acqua i media allineati cercano di annegare l'attenzione dell'opinione pubblica, trascurando ben più solide rivelazioni.
Non è un caso che sia passato quasi inosservato il cablo nel quale il ministero della signora Clinton ordinava ai diplomatici di raccogliere ogni genere d'informazione, comprese le impronte digitali e campioni del DNA, sui dignitari stranieri che incontrano. Ma se è passato inosservato agli occhi delle opinioni pubbliche, non si può dire lo stesso per le diplomazie, che ora si rifiutano d'incontrare gli inviati americani in presenza dei loro staff.
Se n'è lamentato il vicepresidente Biden, ma anche il suo lamento ha avuto scarsa eco, perché è molto difficile convincere le opinioni pubbliche che è colpa di Wikileaks se i capi di stato stranieri non vogliono esporsi a questo tipo di spionaggio americano ed è ancora più difficile spiegare a cosa serve raccogliere impronte e DNA di ministri e capi di stato.
Così come non è strano che sia passata inosservata la rivelazione per la quale furono gli Stati Uniti a ordinare all'Etiopia l'invasione della Somalia. Uno scherzo costato centomila vittime e due milioni di profughi, peggio dell'Afghanistan o come il Darfur, che però ha avuto una copertura mediatica senza paragoni, forse perché lì la guerra è stata scatenata e sostenuta dall'alleato confinante (il Ciad) contro un governo ostile e “islamico” è stata trasformata in una catastrofe umanitaria per colpa dei soliti musulmani cattivi. È bene ricordare che l'invasione etiope della Somalia fu presentata ufficialmente come un'iniziativa del governo etiope e che gli Stati Uniti finsero addirittura di criticarla, mentre bombardavano i somali per aiutare gli etiopi.
Una terza guerra americana che ha avuto una tale copertura mediatica da non essere dibattuta nemmeno di striscio, sparita tra l'indifferenza e qualche balla. Mitico è il caso caso del Corriere della Sera, dove Magdi Allam scrisse che era sostenuta dall'Unione Africana il giorno stesso che l'UA diffondeva una dura condanna destinata a non raggiungere mai le opinioni pubbliche occidentali. Un fallimento totale, perché dopo due anni d'occupazione gli etiopi si sono ritirati e gli USA hanno promosso un governo tra l'UIC (Unione delle Comunità islamiche, che avevano preso il potere prima dell'attacco etiope) e i signori della guerra che Washington sponsorizza da anni.
Solo che nel frattempo la resistenza nazionale all'invasione etiope ha dato vita a formazioni “islamiche” ancora più estremiste di quelle che si voleva cacciare. Un fallimento che non può essere considerato tale solo perché non se n'è accorto nessuno (somali a parte) o perché quei pochi che se ne sono accorti hanno preferito parlare d'altro o mentire secondo convenienza.
Allo stesso modo non deve stupire che gli interventi americani in Yemen e Pakistan soffrano degli stessi vizi, con governi inetti e corrotti che permettono agli americani d'intervenire bombardando sul loro territorio cercando disperatamente di negare l'intervento agli occhi dei propri concittadini. Così come non deve stupire il sostegno a dittatori e sovrani assoluti in giro per il mondo, almeno fino a che si adeguano alle esistenze statunitensi e lo spietato cinismo con il quale la diplomazia americana ignora massacri e infrazioni dei diritti umani nei paesi che ritiene amici.
Una tradizione che dura almeno dai tempi di Kissinger. Così i crimini di guerra del governo dello Sri Lanka non arrivano mai all'attenzione pubblica, nessuno discute dell'assistenza militare a spietate dittature, nemmeno quando gli Stati Uniti fanno i salti mortali e infrangono le loro stesse leggi per sostenere veri e propri criminali, come nel caso del dittatore del Ciad Deby, al quale gli Stati Uniti forniscono assistenza nonostante una legge americana proibisca il finanziamento dei paesi che impiegano i minori in guerra.
Si potrebbe continuare a lungo con la lista delle ipocrisie e delle truffe che le amministrazioni statunitensi hanno propinato, soprattutto ai propri cittadini, negli ultimi anni. Siamo arrivati solo alla pubblicazione di una frazione dei cablo sottratti al segreto, ma già è chiaro che la loro pubblicazione sarà depotenziata secondo queste linee d'azione, fidando anche sul fatto che ben pochi governi avranno voglia di reagire con decisione a comportamenti che per lo più condividono.
Non sarà certo la Gran Bretagna, che i cablo rivelano impegnata ad addestrare squadre della morte nel Sud-Est asiatico, a scagliare la prima pietra; è determinante per Londra il ruolo ancillare e l'evidente desiderio di andare a ruota degli americani, conquistando il ruolo di alleato privilegiato di Washington a costo di danneggiare l'Unione Europea per compiacere i cugini americani.
E si può star certi che non sarà la dittatura egiziana a dare risonanza ai cablo che inguaiano Tel Aviv, così come ugualmente ritrose si sono rivelate la monarchia saudita e la dittatura clericale iraniana, che hanno preferito deplorare le rivelazioni, piuttosto che utilizzarne alcune ed esporsi così alla vergogna veicolata da altre.
Se c'è una verità che emerge dalla (parziale) diffusione dei cablo americani, è la tragica visione d'insieme, che restituisce un mondo animato da governi lontanissimi dal rispetto della legalità nazionale e internazionale, un mondo nel quale gli Stati Uniti intervengono quasi ovunque a tutela dei propri interessi (soprattutto economici, arrivando senza problema a supportare le peggiori dittature criminali quando conviene.
Un'immagine molto diversa da quella (già poco credibile) degli esportatori di democrazia, che restituisce una politica estera improvvisata, di volta in volta affidata a qualche geniale stratega, convinto che il fine giustifichi i mezzi (qualsiasi mezzo) , ma che proprio sui fini spesso sembra confusa, quando i fini non sono addirittura inconfessabili.
Un'immagine dilettantesca e a tratti criminale, con gli Stati Uniti immersi fino al collo in relazioni e operazioni illecite, spesso intraprese senza alcun motivo apparente che non sia il mantenimento di un dominio e di un controllo che poi sono tali solo all'apparenza, visto che nonostante l'invadenza del Dipartimento di Stato e delle numerose agenzie, i simpatici alleati fanno comunque come credono in funzione dello loro rispettive agende interne.
Quello che si evince dalla vicenda Wikileaks è che la prima e unica potenza planetaria non ha una politica estera, non agisce per promuovere la democrazia e i diritti umani, non rispetta le leggi, nemmeno le proprie. Sostiene e nutre spietate dittature, pratica costantemente il doppio standard con alleati e nemici e, quando è all'angolo, ricorre alla violenza o a metodi da mafiosi per uscirne. Proprio la vicenda Wikileaks conferma il ricorso a metodi da mafiosi, perché per danneggiare Wikileaks (che nessuno ha accusato di nulla d'illegale) il governo americano ha sollecitato l'intervento di numerose corporation che hanno negato i loro servizi a Wikileaks sulla base di una semplice adesione ai desideri di Washington.
Peggio del peggio, bullismo dei peggiori unito al totale disprezzo della legge e della cultura giuridica moderna e a un'ipocrisia plateale; perché oggi tocca a Wikileaks e domani potrebbe toccare al New York Times o agli altri media, che pure hanno diffuso i cablo senza finire all'indice, che risulteranno sgraditi al governo perché ne esporranno crimini, errori od orrori. Oggi non si scandalizza nessuno, ma che direste se le banche chiudessero i conti a La Repubblica perché pubblica rivelazioni sgradite al governo italiano?
Sì, il materiale pubblicato da Wikileaks è roba seria e le conseguenze della sua diffusione dovrebbero essere serie, se solo avessimo a che fare con classi dirigenti serie e responsabili, controllate da media indipendenti e sistemi giudiziari più sensibili alla regola della legge che ai desideri dei potenti.
Putroppo non esiste niente di tutto questo e anche le opinioni pubbliche sono da tempo sedate e ridotte a pubblico televisivo, incapaci di giudicare questioni per le quali non sono preparate, preferiscono giudicare i leader (di quello si sentono capaci) come giudicano i personaggi televisivi. Per questo sono poche le persone che hanno un'idea di cosa ci sia nelle carte di Wikileaks, mentre sono tantissime quelle che esprimono giudizi a caso, preferibilmente sul suo portavoce Assange, o che sbrigano la questione abbracciando almeno uno dei punti di vista di Washington, di preferenza il "non c'è niente di nuovo nei cablo”, che da noi si traduce nel berlusconiano “è solo gossip”. La magica frase con al quale si liquidano gli scandali di Berlusconi, funziona benissimo anche per Wikileaks.
Tanto i cablo non li legge nessuno, nemmeno i giornalisti nostrani, che ne riferiscono parzialmente cogliendo fior da fiore, solo dopo che qualche giornale straniero se n'è occupato. La maggior parte dei giornalisti italiani sono notoriamente allergici ai fatti, alle verifiche documentali e alla coerenza; ma per rendersene conto non serviva certo Wikileaks.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Ha 47anni. Si chiama Michail Borisovic Chodorkovskij. E’ uno dei massimi oligarchi della nuova Russia. Opera nel campo dell’industria petrolifera ed è stato alla testa di quella compagnia-piovra chiamata “Yukos”. Ed è appunto al vertice di questa impresa che ha operato come un monarca accumulando ricchezze incredibili ricorrendo a impressionanti evasioni fiscali. Tutto nel segno d’intrighi politici e diplomatici.
E’ così divenuto il simbolo di una Russia arrogante, mafiosa, basata sulle tangenti e sull’uso politico dell’economia. Di qui - favorito dalla sua origine ebraica e di conseguenza appoggiato dalle potenti lobby israeliane presenti nel paese - ha dato il via a una campagna di attacchi nei confronti del Cremlino. E ha individuato in Putin - altro oligarca allevato però nel settore della nomenklatura poliziesca - il vero nemico.
E’ cominciata così la lotta tra i due. Con Chodorkovskij che ha sempre apertamente affermato di voler arrivare alla poltrona presidenziale. Un concorrente forte non solo economicamente, ma anche appoggiato da lobby internazionali, negli Usa e in Israele. Tutto ok sino al 25 ottobre del 2003, quando per lui scattano le manette. Perché la sua compagnia Yukos (ai primi posti nel mondo per produzione ed esportazione) finisce nel mirino degli organi statali di controllo che scoprono un giro di evasioni per gli anni dal 2001 al 2003. E l’oligarca, mentre si dispiega una guerra di posizioni, finisce nel carcere di Chita, in Siberia.
Comincia il processo. A difendere l’oligarca corrono tutti gli uomini della lobby israeliana, che puntano a presentare il giudizio come una vera resa dei conti messa in atto da Putin contro un eventuale concorrente. Processo politico, quindi, con le tangenti e le evasioni che passano in secondo piano. Accanto a Khodorkovski (in galera insieme al suo partner Platon Leonidovi? Lebedev) arriva l’avvocato Vadim Kljuvgand, il quale concentra la difesa accentuando il fattore politico dell’intero processo. La procura ha chiesto 14 anni di carcere e, puntuale, è arivata la condanna per sottrazione di petrolio e riciclaggio.
Ma le acque dell’intera vicenda sono più che mai torbide. Nella scena generale c’è anche il recente licenziamento del tanto chiacchierato sindaco di Mosca, Jurij Luskov. E nella capitale non a caso ci si chiede cosa abbia accelerato i tempi della sua cacciata...
Forse la causa - anche in questo caso - è la corruzione, oggetto ufficiale delle crociate di Medvedev. Che evidenziano in primo luogo come la famiglia di Lužkov, attraverso la compagnia di costruzioni della moglie, l'Inteko, abbia beneficiato grandemente della sua carica. E così in questo momento due sono le questioni che battono alle porte del Cremlino. Per Putin c’è la resa dei conti con Khodorkovski e per Medvedev il contenzioso con l’eredità mafiosa di Luzkov e compagni vari.
E siamo alle nuvole di tempesta dell’oggi, con il processo d’appello sul caso Khodorkovski nelle aule del tribunale di Chamovniceskij - sempre a Mosca - con il giudice Viktor Danilkin. I due oligarchi vengono ancora una volta condannati pur se cadono alcuni capi d’accusa.
Il caso, quindi, continua e per il premier russo c’è sempre la cappa di questa arma letale che si chiama Khodorkovski. Perchè attorno all’oligarca (che è, ripetiamo, una delle figure più odiose e corrotte del firmamento russo attuale) si vanno raccogliendo lobby mafiose ed ebraiche che hanno una notevole influenza nella vita politica ed economica della Russia. Tanto è vero che nei picchetti in difesa dell’oligarca condannato figurano cartelli di questo tipo: “Cambio Putin per Khodorkovski”.
E’ anche questa la prova che si è nel pieno di un processo politico dove Putin individua l’arma letale che molti vorrebbero far esplodere sul suo cammino. Ecco perché il premier nei giorni scorsi, con una battuta da caserma (com’è nel suo stile poliziesco) ha affermato che “i ladri devono stare in galera”. E il Tribunale, rispettoso della legge, ha fornito subito una sentenza adeguata al diktat.
Eppure, uscendo dal Tribunale, la società russa di questi giorni si trova a dover affrontare domande di questo genere: siamo già all’inizio della fine del regime putiniano? Come mai oggi Medvedev decide di andare allo scontro con Putin? Le prossime elezioni registreranno una lotta all’interno del Cremlino? La Russia è pronta a mutamenti radicali? L’elite russa sarà incorporata nel tessuto della società occidentali?
Le risposte che vengono avanti sono molte e spesso di diverso orientamento. Una cosa sembra però chiara: in Russia si è di fronte ad una classe dirigente carica di paradossi con un ceto tutt’altro che compatto e uniforme. Con Medvedev che si presenta come leader di una possibile modernizzazione, facendo nascere una nuova speranza di “disgelo”. Con Putin che si presenta invece come un castigatore, duro, tutto teso a difendere le strutture del Cremlino.
Ed ecco che c’è anche chi sostiene che questo tandem Putin-Medvedev (un conservatore e un riformatore moderato) potrebbe anche essere un vero gioco delle parti: una sorta di forma efficace per la conservazione del potere e del conseguente prolungamento della vita di una gestione personalistica e pluralistica. I teorici del Cremlino, non a caso, ricordano i pericoli di quella “sindrome gorbacioviana”, cioè la perdita del monopolio del potere. E così, nonostante la stanchezza nei confronti di Putin, evidentemente c’è chi preferisce il noto all'ignoto.
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di Eugenio Roscini Vitali
Mentre l’Argentina e l’Uruguay riconoscono la Palestina come Stato indipendente, nel vicino Medio Oriente la tensione torna ad essere alta: come riferito dal portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, la scorsa settimana circa 26 razzi Aqsa3 e diversi colpi di mortaio hanno colpito il Negev occidentale. Negli attacchi, rivendicati dai gruppi Ayman Jawda, cellule combattenti delle Brigate dei martiri di al-Aqsa, è stato centrato l’asilo d’infanzia del kibbutz di Zikim, pochi chilometri a sud della città portuale di Ashkelon, dove è rimasta ferita una ragazzina.
Pronta la reazione dello Stato ebraico: otto sortite aeree contro i tunnel scavati lungo sotto la Philadelphi Route, zona cuscinetto ad ovest di Rafah che divide l’Egitto dalla Striscia di Gaza e su un campo di addestramento delle Brigate Ezzedin al Qassam, situato nei pressi della città Khan Yunis, dove secondo fonti locali sono rimasti feriti due miliziani del braccio armato del movimento di resistenza islamico. Gli F-16 avrebbero poi bombardato un’area ad est di Beit Lahiya, dove i miliziani sarebbero miracolosamente scampati all’attacco, una serra agricola e un caseificio nella cittadina di Asda al-I’lamiya, sempre ad ovest di Khan Yunis, e altri quattro raid sarebbero stati compiuti ad est del quartiere di az-Zaytun, distretto orientale di Gaza, contro il vicino campo profughi di Jebaliya e nell’area di Beit Hanoun, la città palestinese situata a pochi chilometri dal valico di Erez.
A quasi due anni dall’operazione Piombo Fuso, la campagna militare lanciata il 27 dicembre 2008 contro Hamas dalle Forze armate israeliane durante la quale sono morti 13 israeliani e 1417 palestinesi, 926 dei quali civili, nella Striscia di Gaza è tornato l’incubo della guerra. Secondo fonti palestinesi, dalla fine di novembre i bombardamenti avrebbero causato 12 morti e 28 feriti e, in previsione di nuovi attacchi, le autorità ospedaliere avrebbero annunciato lo stato d’allerta. Il 23 dicembre si tornato a sparare anche nella zona agricola a ridosso della linea di confine, la fascia di trecento metri sul lato palestinese interdetta alla popolazione araba: nel corso di uno scontro a fuoco con l’esercito israeliano avvenuto ad est di Beit Lahiya un uomo sarebbe stato ucciso ed altri tre sarebbero rimasti feriti.
L’episodio ha fatto salire ulteriormente la tensione, ma in realtà la tregua entrata in vigore il 18 gennaio 2009 non è mai stata rispettata: nonostante il cessate il fuoco i miliziani del movimento islamico hanno continuato a lanciare i razzi Grad e Qassam contro le aree abitate di Ashkelon, Sderot, Eshkol e Ofakim, mentre i raid aerei israeliani hanno portato a termine violente rappresaglie che, nel solo 2010, hanno causato la morte di almeno 68 persone oltre ai dirigenti dei gruppi radicali e le basi del movimento combattente ma hanno colpito anche la popolazione civile.
Per disinnescare le tensioni delle ultime settimane Hamas sarebbe pronto ad aprire un tavolo di trattative per concordare una tregua reciproca, una proposta già avanzata altre volte ma che non ha poi trovato riscontro nei fatti. Nei giorni scorsi il capo dell’esecutivo, Ismail Haniyeh, ha lanciato un appello pubblico alla comunità internazionale affinché contribuisca a fermare l’escalation militare e dopo le preghiere del venerdì, davanti ad una folla di sostenitori, il leader Mahmoud Al-Zahar ha detto che, ad eccezione di gruppi minori, il movimento di liberazione e le altre fazioni presenti nella Striscia di Gaza si sono già impegnati per un cessate il fuoco, a patto che Israele lo rispetti: «Siamo impegnati nella moderazione, se non ci saranno oppressione e aggressione».
Anche il capo negoziatore dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), Saeb Erekat, ha definito la situazione di Gaza “pericolosa”, soprattutto per le ripercussioni che potrebbe avere un’eventuale operazione militare israeliana nel Territorio controllato Hamas: «Un attacco contro la Striscia complicherebbe la situazione e trascinerebbe la regione nella completa anarchia, nella violenza e nel sangue».
Secondo una fonte militare israeliana della BBC «finché Hamas resterà al potere nella Striscia di Gaza, una nuova guerra nel territorio palestinese è solo questione di tempo». Negli ultimi due anni il movimento di liberazione si sarebbe riarmato ed avrebbe ora a disposizione un consistente numero di missili 9M133 Kornet (nome in codice NATO AT-14 Spriggan), sistema d’arma anticarro di fabbricazione russa con guida laser a fascio, raggio d’azione di 5,5 chilometri e testata a carica cava di tipo HEAT (High Explosive Anti-Tank), con capacità di penetrare una corazza reattiva-esplosiva (ERA) e un’armatura in acciaio di 1200 mm.
Le numerose informative dell’intelligence israeliana e il tank danneggiato il 6 dicembre scorso da un Kornet lanciato dalla Striscia di Gaza, hanno indotto il comando delle forze armate israeliane a dispiegare lungo il confine con il territorio palestinese il 9° Battaglione corazzato della 401^ Brigata, il primo e fino ad ora unico reparto dotato dei carri armati Merkava Mk-4 equipaggiati con il nuovo sistema di difesa antimissilistica Windbreaker.
Il Windbraker non è la classica corazza applicata ormai su tutti i carri armati per proteggerli dalle armi a carica cava e dai missili anticarro, protezioni passive in molti casi efficaci ma che appesantiscono e rallentano i mezzi: è un vero e proprio sistema d’arma dotato di piccoli radar sistemati sui quattro lati che neutralizza la minaccia prima ancora che questa raggiunga il bersaglio; una volta intercettato l’ordigno in arrivo un computer elabora i dati e a un lanciatore apre il fuoco sul missile facendolo esplodere.
Il Windbraker, prodotto e collaudato nel 2005 dalla Rafael di Haifa con l’indicativo ASPRO-A Trophy (Active Protection System for AFVs), è in grado di colpire più missili contemporaneamente e per la sua efficacia è stato utilizzato in Iraq sui blindati statunitensi Striker; ogni kit ha un costo di circa 300.000 dollari ma in futuro potrebbe essere sviluppata una versione Light che l’esercito israeliano potrebbe installare sui veicoli cingolati da combattimento, sui blindati e sui mezzi utilizzati per il trasporto truppe.