di Eugenio Roscini Vitali

Il Partito democratico del Kosovo (Pdk) di Hashim Thaci ha vinto le elezioni legislative del 12 dicembre scorso, le prime dopo la proclamazione unilaterale d’indipendenza avvenuta il 17 febbraio 2008. La formazione guidata da “Gjarpëri” (il serpente) ex capo dell’Uck noto alle cronache per le attività criminali svolte durante e dopo la guerra e per i suoi legami con la mafia albanese, ha ottenuto il 33,5% dei voti.

Sono dieci punti in più di quelli raccolti dalla Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Isa Mustafa, sindaco di Pristina, che si è fermata al 23,6%; terzo il movimento nazionalista VeteVendosije del giovane radicale Albin Kurti (12,2%) che facendo leva sull’insoddisfazione dei giovani e catalizzando il voto degli elettori delusi da Thaci si è rivelato il vero vincitore delle elezioni.

Gli altri due partiti che hanno superato la soglia di sbarramento del 5% sono stati l’Alleanza per il futuro del Kosovo (Aak) di Ramush Haradinaj (10,8%), unica formazione che per tutta la durata del precedente mandato ha esercitato una vera opposizione al governo, e l’Alleanza Nuovo Kosovo del discusso miliardario Behgjeti Pacolli  che si è fermata al 7,1% delle preferenze.

Per ora l’unico dato ufficiale riguarda l’affluenza che si è attestata al 47,8%; i risultati preliminari, annunciati dalla Commissione elettorale, presieduta dalla signora Valdete Daka, diventeranno definitivi solo dopo il 9 gennaio, giorno in cui si tornerà a votare in cinque municipalità del Paese. La decisione è sta presa in seguito ai 171 ricorsi presentati dall’opposizione, brogli che secondo Ilir Deda dell’FeR (2,2%) hanno trasformato le elezioni del 12 dicembre come le più irregolari nella storia del Kosovo, una sconfitta per l’intero Paese.

Le pesanti manipolazioni denunciate dall’opposizione sono state confermate dallo stesso ambasciatore americano Dell e riguardano la gestione dei seggi e la compravendita dei voti, soprattutto in riferimento all’enorme affluenza registrata nella regione di Drenica, che in alcuni seggi avrebbe addirittura sfiorato il 90%, e i fatti relativi alle circoscrizioni di Skenderaj e Gllogovc, comini tradizionalmente vicini all’ex leader dell’Uck, dove le persone recatesi alle urne sarebbero state più di quelle ufficialmente registrate tra gli aventi diritto.

Quello che fino ad ora appare chiaro è che in Kosovo le prime elezioni parlamentari post-indipendenza si sono trasformate in una vera e propria scommessa, con il primo ministro uscente che ha approfittato della crisi di governo per indire elezioni anticipate. Pressato dai sondaggi che davano l’Ldk in netta crescita e preoccupato per la perdita di consensi dovuta alla mancanza di capacità nel contrastare la crisi economica e creare posti di lavoro (in generale in Kosovo il tasso di disoccupazione è pari al 50%), Thaci ha rischiato la carta del voto anticipato.

Lo ha fatto per vincere con un margine sufficiente per formare un esecutivo monocolore attraverso il quale avrebbe potuto tenere in pugno il Paese per altri quattro anni e ha usato tutti i mezzi possibili: dalla promessa di aumentare del 50% lo stipendio ai poliziotti e ai dipendenti pubblici alla privatizzazione degli asset statali al visti di viaggio gratuiti per gli Stati Uniti.

Si è servito anche del controllo sulla Corte costituzionale per costringere il capo dello Stato e numero uno della Ldk, Fatmir Sejdiu, alle dimissioni, ma questo non ha impedito al partito fondato da Ibrahim Rugosa di  proporre un figura altrettanto carismatica quale Isa Mustafa, sindaco di Pristina ritenuto dai sondaggi l’uomo politico più popolare del Kosovo.

In realtà, aldilà dei brogli e della ripetizione del voto in cinque municipalità decisa dalla Commissione elettorale, per Hashim Thaci la vittoria del 12 dicembre potrebbe essere solo all’inizio di quella che alcuni definiscono la fine della sua carriera politica. Anche se i risultati fossero confermati, per l’ex premier formare una maggioranza non sarà infatti facile e, qualsiasi siano gli alleati, la sua posizione non sarà certo più solida di quanto lo sia stata fino ad ora.

Esclusa una coalizione con Ldk, l’ex leader dell’Uck sarà infatti costretto a trattare con l’ultranazionalista Albin Kurti, che al primo punto del suo programma elettorale ha posto la creazione della Grande Albania e che deve molto del suo successo alle crescenti frustrazioni della società kosovara, e con le formazioni minori, compresi i due partiti che a sud del fiume Ibar rappresentano la minoranza serba.

Nel Kosovo meridionale i serbi non hanno infatti seguito l’invito di Belgrado e l’affluenza, che negli enclavi ha sfiorato addirittura il 40%, ha permesso alla lista unitaria la conquista in Parlamento di un numero di seggi superiore ai dieci previsti dalla Costituzione.

Nonostante la forte rivalità, la coalizione più probabile rimane quindi quella tra il Pdk e l’Aak di Haradinaj, ai quali si dovrebbero poi aggiungersi alcuni rappresentanti delle minoranze nazionali. Una volta riuscito a formare il nuovo esecutivo, per Tachi sarà comunque difficile realizzare il programma estremamente “aggressivo” indicato in campagna elettorale. La lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, cresciute esponenzialmente nel corso del suo precedente mandato, e il rilancio di un’economia che ai tempi della vecchia Jugoslavia era la più povera e sovvenzionata della Federazione, sono obiettivi a breve termine praticamente irraggiungibili.

Così come è impossibile sovvertire in pochi mesi il sistema socio-politico, basato soprattutto sui legami con le istituzioni e con chi amministra la cosa pubblica, fatto che di per se ha aiutato non poco la retorica populista e nazionalista del movimento VeteVendosje. E c’è poi il rapporto redatto per conto del Consiglio d’Europa e presentato a Parigi dal senatore svizzero Dick Marty sui “Trattamenti disumani e i traffici illeciti di organi in Kosovo”, uno scandalo che vede sul banco degli accusati l’ex capo dell’Uck e che parla di detenzioni, maltrattamenti, espianti d’organi e sepolture che portano ben oltre il confine “kosovaro-albanese”.

 

di Michele Paris

Nell’attesa del prossimo annuncio da parte del Tribunale Speciale per il Libano (STL) delle accuse formali in merito all’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri, il travagliato paese mediorientale continua a vivere un delicatissimo equilibrio. Nel caso, come previsto, l’organo internazionale con sede a L’Aja dovesse finire per mettere sul banco degli imputati membri di rilievo di Hezbollah, la conseguenza più immediata potrebbe essere la caduta del governo di unità nazionale guidato da Saad Hariri ed una probabile nuova esplosione di violenza nel paese.

Per evitare il conflitto in Libano si sta muovendo la diplomazia di mezzo Medio Oriente, a cominciare dai principali protettori delle due anime del governo di Beirut, Siria e Arabia Saudita, i cui leader sono stati protagonisti recentemente di un’eccezionale visita congiunta nel paese. Il gabinetto del premer Hariri si trova infatti in un situazione estremamente delicata. Già costretto a tenere assieme una coalizione nella quale dopo le elezioni del luglio 2009 a Hezbollah è stato garantito il diritto di veto su ogni decisione del governo, Hariri si trova ora a dovere gestire la patata bollente del Tribunale che indaga sulla morte del padre.

La sua Alleanza 14 Marzo aveva inizialmente fornito tutto il proprio sostegno all’indagine patrocinata dall’ONU, ma l’evoluzione della situazione interna ha dettato al premier un comportamento sempre più pragmatico e un approccio più sfumato al Tribunale. In un difficile equilibrismo, Hariri ha da un lato evitato di sconfessare apertamente lo stesso STL, come chiesto insistentemente da Hezbollah e dalle altre formazioni vicine al “Partito di Dio”, mentre dall’altro ha lanciato segnali di tregua verso gli sponsor di Hezbollah, Siria e Iran.

Alla visita del presidente Ahmadinejad in Libano dello scorso ottobre, nonché all’apparizione del premier turco Erdogan, ha fatto seguito quella recentissima di Hariri a Teheran dove, tra l’altro, l’ayatollah Ali Khamenei lo ha invitato a consolidare i rapporti con Hezbollah. In precedenza, oltre a varie trasferte a Damasco, il primo ministro libanese aveva sorprendentemente ritrattato le accuse al regime siriano circa il suo presunto coinvolgimento nell’assassinio del padre, fatto saltare in aria assieme ad altre 22 persone il giorno di San Valentino del 2005. Un cambiamento di rotta verosimilmente dettato da Riyadh, dove i regnanti sauditi appaiono disposti a sacrificare il Tribunale pur di conservare l’ordine a Beirut.

Saad Hariri, d’altra parte, è ben consapevole di non avere alcuna possibilità di ridurre l’influenza di Hezbollah, né tantomeno di disarmare la milizia sciita. Tanto più che negli ultimi mesi nel panorama politico libanese si sono moltiplicate le voci di quanti chiedono una condanna del Tribunale Speciale, tra cui l’influente leader druso Walid Jumblatt, numero uno del Partito Socialista Progressista e già co-fondatore della coalizione dell’attuale premier. “L’obiettivo del tribunale è la destabilizzazione del Libano piuttosto che la ricerca della verità”, ha dichiarato Jumblatt, dando voce ad un sospetto più che giustificato sulla natura politica dell’organo presieduto dal giurista italiano Antonio Cassese.

Se l’istituzione del Tribunale nel maggio del 2007 sembrava presagire un’accusa preconfezionata nei confronti del governo siriano, da qualche tempo esso appare piuttosto uno strumento per colpire Hezbollah, i cui effetti andrebbero a tutto beneficio di Washington e, soprattutto, di Tel Aviv. Senza mezzi termini, il leader di Hezbollah, Sayed Hassan Nasrallah, ha accostato il lavoro dell’STL agli interessi di Israele, da dove si auspicherebbe un’accusa esplicita contro la “Resistenza” in modo da costringere le forze di sicurezza libanesi ad agire per assicurare alla giustizia gli indagati.

Un tale scenario scatenerebbe quasi certamente un sanguinoso scontro tra sunniti e sciiti. Dal momento poi che il Tribunale è stato istituito sotto il Capitolo 7 dell’ONU, la prevedibile reazione di Hezbollah potrebbe essere contrastata dall’intervento di forze armate internazionali, autorizzate ad implementare con la forza qualsiasi verdetto verrà emesso.

Lo schermo dell’ONU serve insomma a dare il via libera ad un assalto a Hezbollah, contro cui è già in corso una campagna mediatica internazionale che, con ogni probabilità, finirà per intensificarsi in vista dell’annuncio ufficiale dei sospettati della morte di Rafiq Hariri. Le previsioni che Nasrallah continua a ripetere da alcuni mesi a questa parte, circa le incriminazioni che verranno formulate per alcuni membri della sua organizzazione, erano già state confermate da varie testate occidentali. L’ultima uscita in ordine di tempo è stata quella della televisione pubblica canadese CBC, che ha pubblicato un’indagine basata su fonti anonime che proverebbe la responsabilità di Hezbollah nei fatti del febbraio 2005.

Mentre il Tribunale ha fondato la sua inchiesta su testimonianze tese ad incriminare la Siria che si sono successivamente dimostrate false, si è al contrario rifiutato anche solo di prendere in considerazione altre evidenze che condurrebbero ad una pista differente. Già la scorsa estate era stato Hassan Nasrallah a presentare al pubblico e al governo libanese alcune registrazioni di agenti israeliani che, a suo parere, dimostravano come Tel Aviv avesse monitorato i movimenti di Rafiq Hariri fin dagli anni Novanta per inscenare il suo assassinio e incolpare poi Hezbollah.

Credibili o meno, le accuse lanciate da Nasrallah sollevano la questione innegabile della parzialità di un Tribunale Speciale che continua ad escludere dalle indagini ogni ipotesi di coinvolgimento israeliano. Nessun rilievo è stato dato, ad esempio, allo smantellamento di una rete spionistica in Libano che ha portato all’arresto di un centinaio di agenti infiltrati al servizio del Mossad, così come pressoché ignorata è stata la rivelazione da parte di Hezbollah che Israele aveva penetrato il proprio sistema di telecomunicazioni.

La compromissione di quest’ultima struttura risulta di particolare rilievo, dal momento che, come sembra, le eventuali prove delle responsabilità di Hezbollah nella morte di Hariri sarebbero basate proprio su dati raccolti dai tracciati telefonici. Come hanno confermato le autorità libanesi, Israele ha avuto la facoltà di controllare buona parte della rete di telecomunicazioni del vicino settentrionale. In questa situazione, confermano gli esperti del settore, è teoricamente possibile clonare telefoni e falsificare conversazioni o SMS sia in uscita che in entrata.

Un’ipotesi questa ribadita anche dal Ministro delle Telecomunicazioni libanese, Charbel Nahhas, nel corso di una recente conferenza stampa e rafforzata dall’arresto qualche mese fa di quattro spie piazzate da Tel Aviv all’interno della compagnia telefonica Alfa. Oltre a ciò, sempre il segretario generale di Hezbollah ha mostrato un filmato registrato da ricognitori israeliani che seguivano l’identico tragitto percorso dal convoglio al seguito di Rafiq Hariri il giorno stesso del suo assassinio. Un insieme di indizi, insomma, che dovrebbe quanto meno richiamare l’attenzione di un tribunale teoricamente incaricato della ricerca della verità dei fatti, soprattutto alla luce del lungo elenco di omicidi mirati portati a termine da Israele sul suolo libanese nei passati decenni.

A Beirut, in ogni caso, si assiste ad una corsa contro il tempo per cercare di mettere al riparo il governo dagli effetti di un’incriminazione che metterebbe a rischio la stabilità del paese. Lo stesso Saad Hariri, pur non potendo ripudiare apertamente un tribunale sul quale molti dei suoi alleati hanno scommesso il proprio futuro politico, si è dato da fare per cercare almeno un rinvio dell’annuncio ufficiale dei sospettati. Per liquidare del tutto l’STL sarebbe necessario d’altronde un improbabile voto del Consiglio di Sicurezza del’ONU.

Una possibile via d’uscita per il premier libanese, con il beneplacito saudita, potrebbe essere quella di lasciare ad un voto del Parlamento la condanna del Tribunale Speciale. Questa soluzione è stata proposta qualche giorno fa dal presidente del parlamento Nabih Berri e consentirebbe a Saad Hariri di salvare la faccia e le sorti del proprio gabinetto. Alla Camera dei Deputati di Beirut, Hezbollah e i suoi alleati, che controllano direttamente 57 seggi su 128, sarebbero infatti in grado di raccogliere i voti sufficienti ad una mozione contro il Tribunale. Un espediente che non farebbe certo la felicità di Stati Uniti e Israele ma che appare forse l’unico modo per evitare che la violenza settaria riesploda nuovamente nel paese dei cedri.

di Carlo Musilli 

Venivano rapiti e portati in prigioni segrete nel nord dell'Albania, dove subivano trattamenti disumani. Di qui, erano condotti in una clinica vicino Ushe Kruje, a 20 chilometri da Tirana. Un colpo di pistola alla nuca ed erano pronti per l'espianto degli organi. Reni, per lo più. Da vendere sul mercato nero delle cliniche private europee. Gli autori di questa vergogna erano i guerriglieri dell’UCK kossovari, guidati da Haslim Thaci, detto “il serpente”.

A subire questo trattamento erano principalmente prigionieri di guerra serbi ed alcuni kosovari albanesi moderati. Le altre vittime erano semplici civili, uomini e donne accusati a vario titolo di tradimento o collaborazionismo. In tutto sono scomparse 470 persone.

La denuncia arriva dal deputato svizzero Dick Marty, che indaga su questi crimini per conto del Consiglio d'Europa. Nei prossimi giorni, il suo ultimo rapporto sarà discusso in Assemblea parlamentare. In ventisette pagine, Marty ha puntato il dito contro i leader di etnia albanese dell'Uck, l'Esercito di liberazione del Kosovo.

Sarebbero appunto loro i responsabili dei sequestri, degli omicidi, del commercio di esseri umani fatti a pezzi. Ma non basta: questi delitti risalgono all'estate del 1999. Il conflitto con la Serbia si era formalmente concluso il 9 giugno ed il Kosovo era pieno zeppo di forze e autorità internazionali. Nessuno di loro fece niente. Eppure, sempre secondo Marty, i traffici erano evidenti.

La notizia è stata resa nota nei giorni scorsi da un'emittente di Belgrado, ma al momento il rapporto è liberamente consultabile anche in rete. Rivelazioni pesanti per l'esecutivo kosovaro, che appena domenica scorsa è stato riconfermato alle urne. Si è trattato delle prime elezioni libere nel Kosovo dopo l'indipendenza, arrivata nel 2008. Ma i brogli denunciati sono stati tantissimi.

A nemmeno una settimana di distanza, le accuse più pesanti arrivano a colpire il vertice della piramide: Hashim Thaci, primo ministro del Paese e leader del Partito democratico del Kosovo. Uno dei suoi più stretti collaboratori è ancora oggi Shaip Muja, che nel 1999 era comandante medico (chirurgo) dell'Uck in Albania.  Nello stesso periodo, Thaci era a capo di una fazione dell'Uck chiamata "Gruppo di Drenica", che secondo Marty è stata la vera responsabile dei delitti legati al traffico d'organi.

Nel suo rapporto, il deputato svizzero precisa che "questa attività criminale è proseguita, in alcune forme fino ad oggi, come dimostrano le indagini Eulex sulla clinica Medicus a Pristina", che di recente ha portato all'arresto di quattro persone per traffico d'organi. Ebbene, le nuove prove portate oggi da Marty, relative a un caso analogo e contemporaneo, hanno spinto il Consiglio d'Europa a intimare all'Albania di "collaborare senza riserve con Eulex e le autorità serbe". Sembra che le due vicende siano strettamente collegate. Purtroppo, fino ad ora, l'Albania ha sempre negato l'autorizzazione a indagare sul proprio territorio.

Ma da Pristina arrivano voci di protesta. Il neonato governo fa già una gran fatica a respingere le accuse di brogli elettorali, figuriamoci se può tollerare di essere infangato da un'infamia del genere. "Calunnioso", così l'esecutivo kosovaro ha definito il rapporto di Marty, specificando quindi che ricorrerà a qualsiasi "azione e misura legale e politica" contro chiunque abbia contribuito alla stesura di quelle pagine così offensive.

Pristina si è spinta al limite, sapendo di giocarsi il tutto per tutto in un momento decisivo per la storia politica del Paese, ed ha esortato direttamente il Consiglio d'Europa a ignorare il rapporto.

Ma il Consiglio non ci pensa per niente e nemmeno l'Ue, che intende invece scavare a fondo per approfondire le accuse rivolte a Thaci. Per questo, Catherine Ashton, portavoce del’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, ha esortato Dick Marty a presentare a Bruxelles le prove da lui raccolte a sostegno delle teorie che ha avuto il coraggio di sostenere.

Comunque vada a finire, è già triste vedere come un Paese appena divenuto indipendente tenti senza successo delle prove generali di democrazia, non riuscendo nemmeno a mettere in piedi delle elezioni credibili agli occhi della comunità internazionale.

Ma ben altra cosa sarebbe scoprire che il premier appena riconfermato è stato prima responsabile, poi spettatore silenzioso di crimini terrificanti. E forse non si tratterebbe proprio di una scoperta, dal momento che le informazioni sugli affari e sui metodi di Thaci e dei suoi manutengoli erqano note a tutte le cancellerie europee e agli Stati Uniti.

Che però, con il recentemente defunto Holbrook, preferivano farsi ritrarre in foto con “il serpente” Thaci, piuttosto che portare alla luce quanto la Nato già sapeva. La guerra “umanitaria”all’ultimo brandello di Jugoslavia, non voleva intoppi dal vago sapore umanitario.

di Michele Paris

A suggello di una serie di iniziative adottate nelle ultime settimane a favore delle imprese americane, Barack Obama mercoledì scorso è stato protagonista di un faccia a faccia estremamente cordiale con i vertici delle più influenti corporation del paese. Nell’incontro, il presidente si è scusato per gli occasionali sfoghi anti-business di questi primi due anni del suo mandato ed ha garantito ai veri padroni di Washington un ulteriore sforzo da parte della sua amministrazione per un futuro dedicato sempre più alla difesa degli interessi del capitalismo a stelle e strisce.

L’incontro voluto da Obama è andato in scena alla Blair House, prestigiosa residenza a due passi dalla Casa Bianca dove trovano solitamente alloggio i dignitari stranieri in visita negli Stati Uniti. Ad accompagnare il presidente c’erano alcuni membri del suo staff, a cominciare da Valerie Jarrett, top manager nel settore immobiliare e responsabile dei rapporti tra Obama e la comunità degli affari.

Seduti dall’altra parte del tavolo c’erano venti rappresentanti dell’élite economica e finanziaria USA, tra cui Eric Schmidt (presidente e amministratore delegato di Google), Greg Brown (Motorola), John Chambers (Cisco System), Kenneth Chenault (American Express), Scott Davis (UPS), Paul Otellini (Intel), Jeffrey Immelt (General Electric), Ellen Kullman (DuPont), Robert Wolf (UBS), Andrew Liveris (Dow Chemical), James McNerney (Boeing) e Indra Nooyi (Pepsi).

Secondo le fonti ufficiali, in quasi cinque ore e a porte chiuse la discussione ha affrontato svariati temi, come il sistema fiscale, l’export, la regolamentazione dell’economia e l’educazione. In pratica, Obama e i suoi hanno illustrato recenti o imminenti provvedimenti che spaziano dai tagli alle tasse per le grandi compagnie a un allentamento del già debole controllo pubblico sul business privato; dal nuovo impulso alle esportazioni (grazie alla compressione dei salari dei lavoratori per rendere più competitive le merci americane) al rinvio indefinito delle norme sulla riduzione delle emissioni in atmosfera, considerate un gravoso fardello da tutte le corporation.

Ai manager, Obama avrebbe a sua volta chiesto di tornare ad investire e a mettere in atto una campagna di assunzioni nel paese, così da abbattere un livello di disoccupazione che rimane preoccupante. A questo proposito, il presidente ha fatto riferimento ai circa due mila miliardi di dollari congelati sui quali siedono i consigli di amministrazione delle multinazionali americane, senza però insistere troppo sul fatto che investimenti e posti di lavoro continuano a scarseggiare, mentre si prospettano pesanti tagli alla spesa sociale per far fronte a un deficit gigantesco.

Il summit di Washington è apparso a molti come una delle conseguenze della vittoria repubblicana nelle elezioni di medio termine dello scorso novembre, in seguito alle quali dalla Casa Bianca si è deciso di imprimere una sterzata a destra alla propria azione politica. In realtà, anche se i media istituzionali continuano a sottolineare le frizioni con la comunità degli affari che avrebbero caratterizzato la prima metà del mandato presidenziale, l’agenda avanzata finora da Obama e dal Partito Democratico ha già risposto pressoché unicamente alle richieste dei grandi interessi economici del paese.

Nonostante il piano di salvataggio di svariate centinaia di miliardi di dollari approvato sul finire dell’amministrazione Bush nel 2008, una pseudo-riforma del sistema finanziario che lascia campo libero alle speculazioni dei colossi di Wall Street e il recente annuncio dei profitti record per le compagnie statunitensi, queste ultime hanno ripetutamente espresso il loro malcontento nei confronti di Barack Obama. Questa insofferenza, soprattutto, si è tradotta in un massiccio appoggio al Partito Repubblicano nelle elezioni di medio termine.

Le corporation americane, insomma, vogliono un presidente democratico ancora più attento ai loro appetiti ed è ciò che appunto Obama ha promesso loro, inaugurando una nuova stagione di favori al business USA, preannunciata da iniziative come il recentissimo pacchetto di sgravi fiscali o il trattato di libero scambio appena siglato con la Corea del Sud. A sparire dai discorsi di Obama saranno anche le sfuriate puramente di facciata contro l’irresponsabilità delle multinazionali, destinate solo a tener buona la base sempre più sfiduciata degli elettori democratici.

I finanziamenti milionari elargiti dalle grandi compagnie risultano d’altra parte fondamentali per assicurarsi qualsiasi successo elettorale nel sistema politico degli Stati Uniti. Obama e i suoi strateghi sono ben consapevoli che l’eventuale rielezione nel 2012 dipenderà perciò in gran parte dal denaro sborsato dalle corporation e che riusciranno a dirottare nuovamente verso la sponda democratica.

In ogni caso, sostenere che alla Casa Bianca sia in corso soltanto adesso una svolta pro-business, appare quanto meno discutibile, dal momento che la salvaguardia del profitto delle corporation fa parte del DNA del Partito Democratico e dello stesso Obama. Da qui in avanti, però, c’è da attendersi anche un cambiamento nella retorica del presidente, come già dimostrano numerose dichiarazioni pubbliche dell’ultimo periodo.

Più volte di fronte alla stampa americana, Obama ha tenuto a sottolineare la sua fiducia senza riserve nell’iniziativa privata e nel libero mercato come motori della crescita e del benessere economico, dimenticando qualche effetto collaterale come il continuo deterioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e della classe media, la disoccupazione dilagante e tutte le altre conseguenze della peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione.

La simbiosi tra Obama e i vertici delle multinazionali è risultata evidente persino dall’unico motivo di scontro apparente nel corso del summit. Il presidente si sarebbe cioè lamentato di come nel recente passato alcuni esponenti delle maggiori compagnie americane avessero criticato pubblicamente la politica economica della Casa Bianca dopo che in privato avevano manifestato invece un accordo praticamente completo. Ciò non fa altro che confermare, al di là delle dichiarazioni ufficiali, a quali interessi faccia riferimento Obama nella sua azione di governo.

In un’uscita involontariamente ironica, poi, pochi minuti prima dell’appuntamento con presidenti e CEO, il presidente ha detto ai giornalisti in attesa del suo arrivo che si augurava di carpire qualche idea dai suoi ospiti per rimettere in carreggiata l’economia americana. Tra i destinatari della battuta di Obama, nessuno ovviamente ha fatto notare come la politica economica della sua amministrazione sia già interamente dettata dalle persone che si stava apprestando ad incontrare.

Al termine del vertice, alcuni dei rappresentanti più autorevoli del capitale americano hanno elogiato la disponibilità mostrata dal presidente ad operare di comune accordo con loro. Appresa la lezione della batosta di medio termine e con una partnership con i poteri forti così ristabilita, Obama si appresta allora a cominciare una seconda parte di mandato cruciale per la sua rielezione nel 2012. Se a beneficiare del nuovo corso saranno sempre i soliti, a pagarne il conto si ritroveranno ugualmente quegli stessi americani che in questi due anni hanno sofferto maggiormente delle mancate promesse del presidente democratico.

di Eugenio Roscini Vitali

Il predicatore radicale islamico Omar Bakri è di nuovo libero; condannato in primo grado all'ergastolo, è stato rilasciato dietro il pagamento di una cauzione di cinque milioni di lire libanesi, circa 3.300 dollari. L’ordinanza di scarcerazione è stata firmata dallo stesso tribunale militare di Beirut che il 12 novembre scorso, dopo un processo durato tre anni, lo aveva condannato insieme ad una quarantina di radicali islamici, per possesso illegale di armi ed esplosivi, furto e “appartenenza ad un gruppo armato che avrebbe avuto come obiettivo l’esecuzione di atti terroristici e l’assassinio di soldati libanesi”.

La Corte ha accettato l’istanza presentata dall’avvocato Nawwar al-Sahili, rappresentante di Hezbollah in Parlamento e incaricato dallo stesso Sheikh Hassan Nasrallah di difendere Bakri nel processo di appello. Dopo il verdetto di condanna il predicatore sunnita aveva invocato il leader sciita libanese chiedendo un intervento in suo favore: «Esorto Seyyed Hassan Nasrallah affinché guardi all’ingiustizia che sta subendo Omar Bakri che sostiene tutta la resistenza contro Israele». Solo pochi giorni prima Bakri aveva dichiarato ai media che non avrebbe fatto «un solo giorno di prigione».

Nato nel 1956 in Siria, Omar Bakri Fostock ha vissuto per oltre vent’anni in Gran Bretagna dove, grazie ai suoi sermoni antioccidentali, è diventato una delle figure di punta dell’islamismo radicale europeo. Sono “famosi” i suoi elogi agli attacchi dell’11 settembre 2001 e al gruppo di kamikaze che portò a termine quelle stragi e che lui stesso ha definito i “magnifici 19”. Oltre ad aver militato nelle fila dei Fratelli musulmani, ha fatto parte del movimento islamico Takfir wal-Hijra, nato in Egitto intorno agli anni Sessanta ed oggi presente in numero Paesi, compresa la Spagna dove è conosciuto con il nome di Martiri per il Marocco, e dell’organizzazione  politica Hizb ut Tahrir, formazione pan-islamica fondata nel 1953 a Gerusalemme. L’organizzazione è famosa anche per aver annoverato tra le sue fila personaggi del terrorismo internazionale quali Khalid Sheik Mohammad, reo confesso d’essere stato la mente organizzatrice negli attentati dell’11 settembre e Abu Musab Al-Zarqawi, capo di al-Qaeda in Iraq ucciso nel 2006.

Originario di Aleppo, Bakri lascia la Siria nel 1977, quando a Damasco sta scoppiando l’insurrezione armata dei Fratelli musulmani contro il regime di Hafez al-Assad. Ricercato dalla polizia per aver aderito dai Fratelli musulmani, si trasferisce in Libano, dove inizia gli studi sulla Sharia e diventa membro del movimento semiclandestino Hizb ut Tahrir; nel 1979 approda al Cairo, dove rimane circa sei mesi prima di spostarsi in Arabia Saudita. A Riyadh affianca allo studio religioso la militanza politica e nonostante il divieto delle autorità, nel 1983, con altri 38 militanti, fonda la formazione radicale Al-Muhajiroun.

L’anno successivo, a Jeddah, finisce nel mirino della giustizia e viene arrestato, ma ottiene subito la libertà provvisoria; nel dicembre 1985 viene nuovamente fermato e di nuovo rilasciato. Il 14 gennaio 1986 parte per l’Europa e si stabilisce in Gran Bretagna, dove diventa uno dei referenti di Hizb al-Tahrir; dieci anni dopo, per disaccordi con la dirigenza del movimento, chiude ogni rapporto con la formazione islamica e riprende il percorso iniziato in Arabia Saudita fondando una propria scuola chiamata Al-Muhajiroun, un “centro culturale” situato in un sobborgo di Londra.

Da molti indicato come uno dei “portavoce” di al Qaeda in Europa, il suo nome assurge agli onori della cronaca solo dopo l’11 settembre, quando elogia pubblicamente gli attentati. Nel 2004 inizia la parabola discendente: Al-Muhajiroun viene dichiarato sciolto e l’anno successivo, all’indomani degli attentati del 7 luglio 2005 contro il sistema di trasporti pubblici della capitale inglese, quando il suo nome viene associato agli autori degli attacchi, Londra gli revoca la cittadinanza britannica. Dopo aver ricevuto dalle autorità l’annuncio del divieto di far ritorno in Gran Bretagna, si trasferisce a Tripoli, dove vive una nutrita comunità sunnita e dove ormai l’influenza siriana è al tramonto.

La liberazione di Omar Bakri desta sicuramente interesse, non tanto per il fattore macroconfessionale, che vede il massimo esponente sciita del Libano venire in soccorso di un radicale sunnita, o per l’ipotesi di legami tra il terrorismo qaedista e il fronte filo-iraniano, quanto per la questione politica e per gli equilibri interni di un Paese nel quale le alleanze possono rivelarsi cruciali, siano esse temporanee che di lunga durata. Il caso Bakri arriva proprio nel momento in cui nel Paese del Cedri si sta consumando una battaglia durissima: la questione sulla legittimità del Tribunale speciale per il Libano, incaricato dalle Nazioni Unite di giudicare i colpevoli dell’attacco terroristico del 14 febbraio 2005 nel quale morì Rafiq Hariri, padre dell’attuale premier. 

In attesa che la giustizia renda pubblici i risultati delle indagine anticipati dal report del network canadese Cbc, il Paese vive con il fiato sospeso; diviso tra la necessità di chiudere i conti con il proprio passato e la paura di una nuova guerra civile. Nel luglio scorso il leader del Partito di Dio era stato chiaro: se l’indagine avesse coinvolto qualche membro Hezbollah le conseguenze non si sarebbero fatte attendere.

Una parte degli analisti politici è comunque convinta che se il tribunale dovesse formalizzare delle accuse contro un membro di alto rango del movimento sciita - le incriminazioni dovrebbero essere formalizzate intorno alla metà di dicembre dopodiché si aprirebbe il processo di valutazione giudiziale e dopo circa due mesi potrebbe essere emesso il primo d'arresto - questo non scatenerebbe alcuna reazione. Intanto, in attesa che questo avvenga, Hassan Nasrallah potrebbe aver deciso di giocare il primo tempo di questa partita intorno al destino l’infaticabile Omar Bakri, un “martire” del fronte anti-israeliano per capire con chi sta realmente il Paese. 

 


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