di Fabrizio Casari

Con voti entusiastici di alcuni ed astensioni con mal di pancia di altri, l’Onu ha votato la risoluzione che autorizza l’intervento militare occidentale in Libia. In teoria, quella approvata al palazzo di Vetro sarebbe solo la richiesta di applicazione della “No fly zone”, ma la sostanza è decisamente diversa. Quello che infatti si capisce, sia dal testo della risoluzione che dalle reazioni politiche successiva, è che la “No fly zone” non sarà quello che la sigla indica, cioè il divieto di sorvolo della zona sotto copertura della risoluzione; non sarà, cioè, un’operazione di pattugliamento armato dei cieli destinata ad impedire che i caccia libici bombardino Bengasi, ma ben più e ben altro.

I caccia di Francia e Gran Bretagna, Stati Uniti e un paio di emirati satelliti faranno ben altro: attaccheranno le truppe di terra del regime libico per favorire la controffensiva di quelle dell’opposizione monarchica che, nonostante l’aiuto egiziano e occidentale, non solo non erano riusciti ad arrivare a Tripoli, ma stavano per capitolare di fronte alla controffensiva lealista.

Per rimuovere gli ultimi ostacoli all’interno del Consiglio di Sicurezza per il voto sulla mozione sono stati determinanti due aspetti: l’impegno a non utilizzare truppe di terra e le minacce di Gheddafi all’universo mondo. Per Mosca e Pechino il problema era tutto politico: stabilire che a fronte di una crisi politica interna che assume risvolti militari, la comunità internazionale possa prendere parte direttamente alle ostilità, ad evitare l’abuso della forza da parte dei governi, è un precedente pericoloso. Cecenia e Tibet, oltre che il Mar della Cina, sono zone nelle quali potrebbe riproporsi un conflitto di natura simile a quello libico.

Contemporaneamente, però, l’isolamento internazionale di fronte ad una risoluzione che non era il frutto dell’interventismo unilaterale della Nato, ma una richiesta di molti dei paesi membri delle Nazioni Unite, avrebbe esposto Russia e Cina ad aspre critiche e, soprattutto, ad accostamenti d’immagine con Gheddafi dall’insidioso sapore mediatico.

D’altra parte, in precedenza, i due paesi avevano annunciato l’intenzione di porre il diritto di veto in sede di Consiglio, non potendo condividere l’idea ipocrita della “guerra umanitaria”. Si trattava, dunque, per i due paesi, di trovare una via d’uscita che riducesse al minimo le possibilità di ampliamento dell’intervento militare internazionale e, con esso, l’impraticabilità di riprodurlo in modo più ampio per altri scenari.

Il divieto d’intraprendere operazioni di terra, cioè sbarco di truppe sul suolo libico, è stato il punto di mediazione offerto da un Occidente che ha vinto la partita a scacchi nel palazzo di Vetro. Non ci pensavano minimamente, infatti, Washington, Parigi e Londra, ad inviare truppe a terra: ma tanto è stato messo nero su bianco per permettere a Cina e Russia di recitare la parte di chi sì è distinto e, con una mediazione, si è reso coprotagonista di una risoluzione Onu, invece che di subirla.

Questa la mediazione. E d’altra parte, se ci fossero state ancora resistenze da parte di Mosca e Pechino, a togliere definitivamente ogni dubbio ci ha pensato Gheddafi.

Infatti, mentre il Consiglio di Sicurezza si riuniva, il raìs libico si esibiva in minacce truculente contro gli insorti e contro ogni paese e Cina e Russia, infatti, hanno scelto di astenersi per far passare la risoluzione. Annunciando “nessuna pietà per i vinti”, Gheddafi ha inevitabilmente accelerato l’urgenza politica della risoluzione. Errore grave, soprattutto se è vero che in poche ore la controffensiva militare delle sue truppe avrebbe riconquistato Bengasi.

Il leader libico ha annunciato il "cessate il fuoco" in adempimento alla risoluzione dell'Onu, ma Francia, Gb e Usa non si fidano. La decisione appare un tentativo di riaprire i giochi, ma non é detto che, giunti a questo punto, sia sufficiente. Al rais sarebbero state necessarie ore e a Mosca e Pechino avrebbero potuto scegliere di temporeggiare. Ancora una volta, però, Gheddafi si è confermato fanfarone e incapace della dose minima di abilità politica. Il “Generale Tempo”, come avevamo già detto, ha avuto la meglio sul Colonnello.

 

di Eugenio Roscini Vitali 

Riproponendo alcuni passi di un articolo del direttore del progetto per lo studio dell’Islam e del mondo musulmano, Reuven Paz, pubblicato nel 2001 dal Washington Institute for Near East Policy, il Jerusalem Post descrive lo sceicco Yusuf Al Qaradawi come “un uomo per tutte le stagioni”, un religioso dalle dichiarazioni contraddittorie che condanna l’11 Settembre e la strage di Bali, che nel 2008 definisce gli ebrei affiliati alla setta Neturei Karta, il gruppo che in nome di una propria interpretazione della Torah e del Talmud rifiuta l’autorità e l’esistenza dello Stato di Israele, come credenti vicini al mondo musulmano.

Ma è lo stesso sceicco che, a pochi mesi di distanza, in una trasmissione ospitata dalla rete satellitare Al-Jazeera, da un’interpretazione agghiacciante della storia e parla dell’Olocausto come una di punizione divina: «Allah ha imposto Hitler sugli ebrei per punirli, e se Allah lo vuole, la prossima volta, sarà per mano dei Credenti». Due facce della stessa medaglia quindi, che ritroviamo nelle parole di altri ideologi del più grande e vecchio movimento islamico del mondo, la Società dei fratelli musulmani, l’organizzazione politico-religiosa nata nel marzo del 1928 come opposizione alle storiche tendenze secolaristiche delle nazioni islamiche.

Guida spirituale dei Fratelli musulmani, Yusuf Al Qaradawi si proclama un conservatore moderato, un ideologo capace di riprendersi la scena dopo quasi cinquant’anni di esilio e di penetrare nelle pieghe della società, parlando agli egiziani come alle comunità degli immigrati islamici in occidente. Attraverso la Da’wa, il proselitismo e la propaganda, Al Qaradawi ha contribuito in maniera determinante al successo politico di un’organizzazione che, raccogliendo i lamenti della povera gente, ha dimostrato di poter diventare una forza di opposizione capace di influenzare gli eventi e l’agenda politica egiziana.

E’ stato proprio lui che al Cairo, pronunciando il sermone del venerdì, di fronte a decine di migliaia di persone accorse  in piazza Tahrir per celebrare la Giornata della Vittoria, ha sollecitato i leader islamici ad ascoltare le richieste del popolo e ad annunciare che « il mondo è cambiato, è andato avanti, e con esso è cambiato anche il mondo arabo».

Lo stesso uomo capace però di rifiutare l’incontro con uno dei principali registi della rivolta anti Mubarak, Wael Ghonim, il responsabile del marketing di Google per il Medio Oriente e il Nordafrica cacciato dal servizio d’ordine del religioso prima che potesse salire sul palco di piazza Tahrir; capace di invocare l’assassinio del leader libico Gheddafi, di riproporre la presa di Gerusalemme e di inneggiare al sacrificio degli attacchi suicidi contro Israele.

Gamal Al-Banna, fratello i Hassan, fondatore della Società dei Fratelli musulmani, esclude il rischio di radicalizzazione dello scontro e rigetta l’ipotesi di una jihad. Gamal ritiene che la confraternita rappresenti una realtà sociale sempre in crescita, un elemento politico organizzato e strutturato, ed  è certo che in occasione delle prime elezioni libere la fratellanza sarà in grado di raccogliere non meno del 25% dei consensi.

Negli ultimi dieci anni la facciata “riformista” dei Fratelli Musulmani ha permesso all’organizzazione di avanzare politicamente, soprattutto grazie ad una serie di candidati “indipendenti” che sono riusciti ad accedere al parlamento aggirando i divieti imposti dal regime Mubarak. La coscienza politica sviluppata in questi anni dalla confraternita non esclude comunque la recrudescenza dei sentimenti revanscisti espressi nel passato dalle frange più radicali ed estreme: non professano la guerra santa né hanno mai teorizzato il ricorso alla violenza per islamizzare la società egiziana, ma è un fatto comunque che considerano Israele come una presenza coloniale inaccettabile posta al centro del mondo arabo.

Anche se dai microfoni di al-Arabiya il portavoce dei Fratelli musulmani, Essam al-Erian, ha riaffermato il diritto del popolo a decidere se mantenere o revocare il trattato di pace con lo Stato ebraico, per ora Israele segue la transizione egiziana senza porre limiti a quella che potrebbe essere una trasformazione epocale. Gli sviluppi che coinvolgono quella che al momento può essere definita l’unica vera forza di opposizione, rappresentano comunque un gigantesco punto interrogativo: a Tel Aviv temono che la confraternita possa diventare un partito di governo e che l’ala più radicale, oltre ad influenzare i rapporti con Israele, possa alimentare la resistenza palestinese ed aiutare Hamas ad imporsi anche in Cisgiordania.

I Fratelli musulmani potrebbero diventare un prezioso interlocutore anche per Hezbollah; potrebbero indurre il prossimo governo a ridiscutere le forniture di gas verso lo Stato ebraico, bloccate dopo il sabotaggio che il 5 febbraio scorso ha danneggiato la stazione di El Lahafan, riaprire  le relazioni diplomatiche con Teheran e rafforzare i legami con Damasco e Khartoum.

I primi frutti di questo nuovo scenario potrebbero essere già maturi. Secondo fonti israeliane (notizia pubblicata dal sito intelligence Debka) la strage avvenuta durante la notte dell’11 Febbraio a Itamar, insediamento ebraico vicino Nablus, e per la quale è arrivata la rivendicazione della Brigata dei martiri di al Aqsa, braccio armato di Fatah, sarebbe infatti stata preparata ed organizzata in Sudan. Nel gravissimo attacco, il primo registrato negli ultimi mesi contro coloni israeliani e il primo di questo tipo da anni, è stata uccisa un’intera famiglia di coloni: i genitori e tre figli, un bambino di 11 anni, il fratello di tre e l’ultimo nato di circa tre mesi.

Il massacro, definito dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen «un gesto spregevole, immorale ed inumano», potrebbe infatti essere il primo risultato di un meeting segreto organizzato la settimana precedente a Khartoum da agenti iraniani e al quale avrebbe preso parte una delegazione di Hamas guidata da Mahmoud A-Zahar (Gaza) e Khaled Meshaal (Damasco), e  i rappresentanti dell’ala radicale delle varie componenti della Fratellanza, provenienti  dall’Egitto, Iraq, Tunisia, Siria, Giordania e Gran Bretagna.   

 

 

di Michele Paris

Nella giornata di lunedì, circa duemila soldati dell’esercito saudita e degli Emirati Arabi hanno attraversato i confini della piccola monarchia affacciata sul Golfo Persico. Quella che in molti già definiscono come una vera e propria invasione militare del Bahrain, giunge con la benedizione dei paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), decisi a tutto pur di porre fine alle proteste che da settimane minacciano l’esistenza stessa della monarchia regnante e rischiano di diffondersi a macchia d’olio in un’area strategicamente fondamentale negli equilibri dell’intera regione mediorientale.

Quegli stessi paesi del GCC (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar e lo stesso Bahrain) che hanno dato il via libera all’invio di forze armate in Bahrain per reprimere le manifestazioni democratiche, curiosamente fanno tutti parte anche della Lega Araba, che lo scorso 13 marzo ha appoggiato formalmente l’imposizione di una “no-fly zone” sulla Libia per fermare i massacri compiuti dagli uomini fedeli a Gheddafi.

Le agitazioni in Bahrain erano scaturite a metà febbraio in seguito alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto e si sono da allora concentrate nella capitale, Manama. Mentre le richieste iniziali dei manifestanti si erano limitate a qualche concessione democratica, il pugno di ferro del regime sunnita, in un paese a maggioranza sciita, ha finito con il radicalizzare la protesta. Dopo i sette morti e le centinaia di feriti causati dall’intervento delle forze di sicurezza durante i primi scontri, l’opposizione ha iniziato così a chiedere la dissoluzione della monarchia del sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa.

Proprio mentre a Manama il Segretario alla Difesa americano, Robert Gates, avvertiva il re del Bahrain della necessità di riformare il proprio regime, venerdì scorso i dimostranti mettevano in scena la protesta più imponente dall’inizio della rivolta. Dal centro nevralgico delle proteste, Pearl Square, i manifestanti sono infatti giunti fino ai cancelli del Palazzo Reale, prima di essere accolti con proiettili di gomma, gas lacrimogeni e dalle cariche dei sostenitori della monarchia armati di spade e bastoni.

L’intervento militare saudita e degli altri paesi del Golfo è stato richiesto dallo stesso monarca del Bahrain e la coincidenza di questa decisione con la visita del numero uno del Pentagono rende estremamente probabile un qualche coordinamento con Washington. Gli Stati Uniti, d’altra parte, considerano il piccolo Bahrain un alleato essenziale nella regione. Qui si trova infatti il quartier generale della Quinta Flotta della marina americana, di vitale importanza per il controllo del Golfo Persico, ma anche del resto del Medio Oriente e della costa africana orientale.

Secondo un ufficiale saudita citato dalla stampa americana, l’invio di militari lungo l’arteria stradale che collega l’Arabia al Bahrain sarebbe solo la prima fase di un’operazione dai tratti ancora da definire. I militari stranieri sarebbero stati incaricati ufficialmente di sorvegliare i siti petroliferi e le istituzioni finanziarie del paese, anche se il governo del Bahrain ha dichiarato apertamente di aver richiesto l’intervento per aiutare le forze di sicurezza locali a ristabilire l’ordine. Fonti saudite e del GCC hanno assicurato che i loro soldati non verranno in contatto con i dimostranti, i quali peraltro hanno finora dato vita a manifestazioni del tutto pacifiche.

I legami tra la casa regnante del Bahrain e quella dell’Arabia Saudita sono molto profondi e Riyadh rappresenta, assieme agli Stati Uniti, uno dei pilastri della stabilità della monarchia al-Khalifa che guida il paese del Golfo Persico da oltre due secoli. Già nel 1994 i militari sauditi entrarono nel Bahrain per soffocare una serie di proteste che erano scoppiate contro il regime autocratico. L’insofferenza diffusa da tempo nel Bahrain deriva dalla puntuale discriminazione messa in atto dalle élite che detengono il potere nei confronti della maggioranza sciita della popolazione, in gran parte tagliata fuori dalla distribuzione delle ricchezze di un paese che esporta quantità ingenti di petrolio e gas naturale.

Se a scatenare la rivolta è stata proprio la condizione degli sciiti, l’atteggiamento dei manifestanti nel corso di queste settimane in Bahrain non ha tuttavia avuto un carattere settario, come ha cercato invece di far credere la propaganda del regime. Come altrove in Medio Oriente e in Africa settentrionale, gli obiettivi delle proteste sono piuttosto il rovesciamento del regime, l’istituzione di un governo democratico, maggiore giustizia sociale e pari opportunità per tutti i cittadini a prescindere dall’appartenenza settaria.

L’Arabia Saudita e gli altri membri del GCC hanno infine deciso di intervenire in Bahrain per il timore che la caduta della monarchia al-Khalifa possa ispirare movimenti di opposizione più consistenti anche all’interno dei loro confini. Oman, Kuwait e la stessa Arabia Saudita, ad esempio, hanno già dovuto fare i conti con sporadiche manifestazioni in queste settimane, tutte duramente represse. Un successo politico per gli sciiti in Bahrain, inoltre, potrebbe dare ulteriore coraggio alla minoranza sciita che vive entro i confini sauditi e che è concentrata nelle province orientali dove si trovano i principali giacimenti petroliferi.

Per i vicini del Golfo, anche un accordo pacifico tra il regime di Hamad bin Isa al-Khalifa e le opposizioni a maggioranza sciita - sostenuto a livello ufficiale da Washington - rappresenta un rischio che potrebbe, da un lato, alimentare le tensioni interne e, dall’altro, andare a tutto favore dell’Iran. Proprio da Teheran, che considera il Bahrain parte del proprio territorio, è giunta infatti la reazione più dura all’intervento militare saudita. Il Ministero degli Esteri iraniano, in una nota ufficiale, ha parlato apertamente di “invasione” e ha definito la presenza di forze straniere in Bahrain “inaccettabile”; una mossa insomma che rischia di “complicare ulteriormente la situazione” del vicino meridionale. In seguito a queste dichiarazioni, il Bahrain ha immediatamente richiamato il proprio ambasciatore a Teheran.

L’iniziativa saudita riaccende pericolosamente le profonde rivalità tra Riyadh e le monarchie sunnite da una parte e la Repubblica Islamica dall’altra. Come ampiamente testimoniato dai cablo diffusi recentemente da Wikileaks, la monarchia saudita e i suoi vicini sunniti esercitano da tempo pressioni sugli Stati Uniti per contenere anche con la forza le ambizioni regionali dell’Iran con il pretesto di frenarne il discusso programma nucleare. L’evoluzione delle rivolte nel mondo arabo in questo 2011 ha inoltre beneficiato notevolmente proprio l’Iran, danneggiando un’Arabia Saudita - già penalizzata dalla caduta del governo filo-saudita di Saad Hairi in Libano per mano di Hezbollah - che ha visto sparire un importante alleato come Hosni Mubarak in Egitto.

Sulla posizione interventista saudita sono sembrati convergere dunque anche gli Stati Uniti, come conferma la già ricordata visita di Gates in Bahrain. Un atteggiamento quello di Washington che contrasta con gli appelli alla moderazione e per la ricerca di una soluzione concordata, così da riformare il regime in senso democratico, lanciati più volte da vari esponenti dell’amministrazione Obama.

L’importanza strategica di un Bahrain - e, di conseguenza, di un’Arabia Saudita - fermamente nella sfera statunitense è d’altra parte testimoniata anche dal differente approccio di Washington ai movimenti di protesta esplosi a febbraio. Mentre in Tunisia, Egitto e Libia gli USA hanno più o meno rapidamente preso le parti dei manifestanti scesi in piazza, in Bahrain si continua a puntare sulla famiglia regnante, sostenendo al massimo la necessità di concedere qualche modifica tutt’altro che sostanziale alla struttura del regime.

Il panico diffuso a Riyadh e a Washington, che ha portato ad un’invasione militare del Bahrain, sia pure su richiesta della monarchia regnante, rischia tuttavia di rendere ancora più difficili i negoziati per una possibile soluzione pacifica della crisi. Di fronte alla presenza di forze armate straniere, le opposizioni hanno infatti subito reagito con nuove proteste che hanno spinto il regime a dichiarare lo stato di emergenza e l’imposizione di fatto della legge marziale. In questo scenario, il rischio concreto è che si giunga ad un bagno di sangue e che le rivalità regionali in gioco nel piccolo paese del Golfo Persico sfocino in un conflitto di ben più ampie proporzioni.

di Michele Paris

La fonte dei 250 mila documenti diplomatici statunitensi che Wikileaks ha recentemente iniziato a pubblicare è con ogni probabilità il soldato americano Bradley Manning. 23 anni, ex analista dell’intelligence in Iraq, ha fornito un contributo di grandissimo valore alla conoscenza degli eccessi e dei crimini commessi da Washington in mezzo mondo nell’ultimo decennio. Per il governo americano, tuttavia, Bradley Manning rappresenta una grave minaccia, come dimostrano le condizioni disumane in cui è stato costretto in dieci mesi di carcere e le recenti pesantissime accuse sollevate nei suoi confronti che potrebbero addirittura sfociare in una condanna alla pena capitale.

I guai con la giustizia militare per il “Private First Class” (Pfc.) Bradley Manning erano iniziati nel maggio del 2010. L’arresto per lui era scattato in Iraq in seguito alle rivelazioni dell’ex hacker Adrian Lamo, il quale in una chat aveva raccolto alcune frasi dello stesso giovane soldato americano che indicavano la sua responsabilità nella pubblicazione di un video scottante. Il filmato in questione, scaricato senza autorizzazione dai terminali del Pentagono e pubblicato da Wikileaks nel mese di aprile con il titolo di “Collateral Murder”, riprendeva elicotteri americani che facevano fuoco su civili inermi a Baghdad nel 2007. In quella circostanza, furono assassinati anche due giornalisti della Reuters.

A Bradley Manning vennero contestati dodici capi d’accusa e per lui fu l’inizio di una detenzione in stato di isolamento che dura tutt’ora, nonostante nessuna condanna sia stata emessa né esista alcun precedente penale a suo carico. Presso una base dei Marines a Quantico, in Virginia, Manning è tenuto segregato per 23 ore al giorno, con una sola ora concessagli per qualche esercizio in una stanza vuota. I contatti con il mondo esterno sono severamente ristretti, così come l’accesso a qualsiasi materiale di lettura, mentre non gli è nemmeno consentito dormire durante il giorno.

Anche se nessun medico ha certificato tendenze suicide, Manning è poi imprigionato secondo procedure che dovrebbero impedirgli gesti autolesionisti. A partire dalla scorsa settimana, ad esempio, gli viene imposto di dormire completamente nudo. Una misura presa, secondo quanto scritto in un blog dal suo legale, avvocato David Coombs, in seguito ad un commento sarcastico fatto dallo stesso Manning sulla possibilità di tentare il suicidio utilizzando i propri indumenti intimi.

Quest’ultimo episodio rappresenta solo il più recente in una serie di trattamenti che sconfinano spesso nella tortura e appare mirato a debilitare la resistenza fisica e mentale di un giovane contro il quale il governo e i militari americani intendono vendicarsi in maniera esemplare.

Secondo alcuni, questi metodi servirebbero a convincere Manning ad accusare Julian Assange di complicità nell’impossessarsi dei documenti segreti pubblicati da Wikileaks, così da poter formulare una qualche accusa nei confronti di quest’ultimo e chiederne l’estradizione verso gli Stati Uniti. A dicembre dello scorso anno, infatti, il quotidiano britanno The Independent scrisse che il Dipartimento di Giustizia americano aveva proposto a Manning un accordo che prevedeva il suo trasferimento alla giustizia civile in cambio di un’accusa esplicita per coinvolgere il fondatore di Wikileaks.

Il caso di Bradley Manning ha suscitato le proteste di numerose organizzazioni a difesa dei diritti umani, mentre l’ONU sta conducendo un’indagine per stabilire se la giustizia militare statunitense abbia adottato metodi di tortura nei suoi confronti. Per il Pentagono, secondo le parole di una portavoce,” le condizioni di detenzione di Manning sono determinate dalla serietà delle accuse mossegli contro, dalla pena potenzialmente molto lunga che lo attende, dalle implicazioni per la sicurezza nazionale del suo caso e dal danno che potrebbe arrecare a se stesso o ad altri”.

In questi lunghi mesi di carcere, intanto, le sue energie sono state fiaccate e la sua lucidità appare seriamente compromessa. Uno dei pochi autorizzati a vistare Bradley Manning a Quantico è l’amico David House, ricercatore del MIT, il quale dopo un recente incontro ha detto alla stampa di avere l’impressione di assistere alla sua trasformazione “da giovane vivace e intelligente ad una persona a volte apatica e con serie difficoltà a sostenere una banale conversazione”.

Come se non bastasse, settimana scorsa la giustizia militare ha formulato 22 nuovi capi d’accusa contro Bradley Manning. L’accusa più grave è quella di “collaborazione con il nemico”, secondo quanto contemplato dall’articolo 104 del codice militare, un crimine che può prevedere anche la pena di morte. Quale sia il nemico che Manning avrebbe favorito non è però specificato dai militari, tanto che potrebbe essere addirittura Wikileaks. Una designazione questa che esporrebbe lo stesso Julian Assange a possibili azioni, anche militari, da parte americana.

Se i nemici in questione fossero invece i Talebani oppure i membri di Al-Qaeda o altri gruppi estremisti, l’accusa sollevata contro Manning potrebbe essere facilmente estesa, non solo nuovamente a Wikileaks, ma anche agli stessi giornali (New York Times, Guardian, ecc.) che hanno pubblicato i cablo riservati delle ambasciate USA negli ultimi mesi.

I militari, da parte loro, hanno affermato di non riferirsi a Wikileaks ma continuano a non voler rivelare l’identità del “nemico” che avrebbe beneficiato del comportamento di Manning, poiché il caso in questione ha a che fare con la “sicurezza nazionale e, in tempo di guerra, rivelare questa informazione potrebbe compromettere le operazioni sul campo attualmente in corso”.

Molte delle altre recenti accuse, peraltro, si ripetono e sono soltanto formulate in maniera diversa, così da poter presentare un numero maggiore di imputazioni ed accentuare il presunto comportamento criminale di Bradley Manning. Tra di esse vi è anche l’accusa di aver utilizzato un software non autorizzato sui computer della Difesa per accedere a informazioni segrete.

Se è vero che l’accusa ha anticipato che non intende chiedere la pena di morte, la decisione finale su questo punto spetterà in ogni caso all’ufficiale incaricato di supervisionare il caso di Manning, generale Karl Horst. La corte marziale per Manning terrà l’udienza preliminare tra maggio e giugno e solo in quella sede sarà possibile conoscere con certezza tutti i capi d’accusa e la pena richiesta ufficialmente.

Gli abusi nei confronti di Bradley Manning rappresentano una chiara intimidazione verso chiunque intenda portare alla luce le atrocità commesse dal governo americano. La colpa del giovane militare statunitense sarebbe quella di avere smascherato i veri e propri crimini degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan e la doppiezza di una politica estera i cui obiettivi e metodi sono tenuti nascosti alla gran parte dei cittadini americani.

La persecuzione di Bradley Manning appare in tutta la sua gravità a fronte di un’amministrazione come quella di Barack Obama che aveva promesso un cambiamento epocale. Al contrario, fino dall’inizio del suo mandato il presidente ha fatto di tutto per nascondere le responsabilità di chi lo ha preceduto negli eccessi della guerra al terrore e nello scatenare una guerra illegale in Iraq sulla base di menzogne somministrate impunemente ai propri cittadini.

L’atteggiamento odierno del governo americano è pressoché identico a quello tenuto da Richard Nixon nel 1971 al momento dell’esplosione del caso dei cosiddetti Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam. Quando l’ex analista militare Daniel Ellsberg passò i documenti riservati al New York Times e al Washington Post, i media e l’opinione pubblica si mobilitarono in massa, finché la Corte Suprema finì per garantire il diritto alla pubblicazione, impedendo di fatto al governo di perseguire Ellsberg.

La situazione odierna appare tuttavia deteriorata e i principali giornali americani, controllati da grandi interessi economici e finanziari, risultano ormai docili di fronte al potere. Il New York Times, ad esempio, già baluardo del progressismo d’oltreoceano, poco dopo aver iniziato a diffondere i cablo di Wikileaks ha pubblicato svariati editoriali nei quali ha preso le distanze dal sito di Assange, mentre il direttore Bill Keller è giunto ad ammettere candidamente di aver concordato con la Casa Bianca l’occultamento di determinate informazioni, dal momento che a suo dire la libertà di stampa consisterebbe nella libertà di non pubblicare ciò che il governo ritiene possa danneggiare la sicurezza nazionale.

In questo scenario inquietante s’inserisce anche il sostanziale silenzio sulla sorte di Bradley Manning da parte di quei gruppi della società civile che fino a poco più di due anni fa protestavano contro i metodi dell’amministrazione Bush e che ora assecondano colpevolmente quegli stessi eccessi solo perché a macchiarsene è un presidente democratico.

di Carlo Musilli 

Lo hanno battezzato il "Giorno della Rabbia", ma per ma per molti è stato soprattutto "Il Giorno dell'Angoscia". Le manifestazioni organizzate ieri in Arabia Saudita hanno generato preoccupazioni di diversa natura. Politiche, sul fronte interno. Economiche, per il resto del pianeta. Le dimensioni della protesta non contano. Era assolutamente scontato che i sauditi non potessero organizzarsi in oceani di manifestanti furibondi stile Egitto o Tunisia. Tantomeno era lecito aspettarsi uno scontro armato alla maniera libica.

In Arabia, infatti, il cuore della rivolta è costituito dalla minoranza sciita, che rappresenta appena il 10% della popolazione. Fatto sta che il monarca assoluto del Paese, re Abdullah, non aveva mai dovuto fronteggiare un'opposizione del genere in precedenza.

Il bilancio fino ad ora é di tre manifestanti sciiti feriti ad al Qatif, nell'est dell'Arabia saudita, dalla polizia che ha aperto il fuoco per disperdere una manifestazione. “Gli spari sono arrivati quando fra 600 e 800 manifestanti sciiti, fra cui delle donne, marciavano ad al Qatif per chiedere la liberazione di nove detenuti sciiti”, ha riferito un testimone all'Afp. “Quando la marcia stava per terminare nel centro della città, dei soldati hanno cominciato a sparare sui dimostranti e in tre sono rimasti feriti”, ha aggiunto la stessa fonte. Le autorità saudite hanno ribadito più volte negli ultimi giorni che le manifestazioni erano vietate nel Regno e che la polizia era autorizzata ad intervenire per far rispettare la legge.

Ma nonostante la violenta repressione dell'esercito, i manifestanti non mollano. Spalleggiati dai correligionari del vicino Bahrein, anch'essi in rivolta da circa un mese, continuano a chiedere riforme politiche. Vogliono la monarchia costituzionale, un governo eletto liberamente, la liberazione dei prigionieri politici e il riconoscimento dei diritti delle donne. Il contenuto della protesta ha trovato appoggio anche fuori dalla comunità sciita, fra i sauditi più liberali, che vorrebbero sfruttare il momento di crisi del sistema per realizzare le proprie aspirazioni di cambiamento.

In questo senso, fino ad ora diverse petizioni e lettere aperte sono state indirizzate a re Abdullah. Com'è ovvio, il sovrano non ha risposto a nessuno pubblicamente, ma durante la settimana ha incontrato in privato i leader tribali sciiti e sunniti. Quello che succederà nelle prossime settimane è difficile da prevedere. Ma bisogna tener presente che difficilmente vedremo una nuova piazza Tahir. La popolazioni saudita è molto più ricca di quella nordafricana e le casse del re sono abbastanza piene da raffreddare a suon di dollari più di una testa calda.

Veniamo al resto del mondo. Numero uno fra gli esportatori di petrolio, l'Arabia Saudita è il paese arabo più vicino agli Stati Uniti. Negli ultimi tempi ha svolto il ruolo di baluardo per la stabilità dei mercati energetici mondiali, innalzando la produzione di greggio in modo da sopperire al mancato apporto di barili dalla Libia, circa 750 mila al giorno. La paura più grande è proprio che la rivolta possa compromettere la produttività petrolifera del Paese. Gli sciiti sono infatti concentrati nella provincia orientale dell'Arabia Saudita, la più ricca di idrocarburi e di compagnie petrolifere. Qui sono custodite le più grandiose riserve d'oro nero che il pianeta conosca. Qualcosa come 260 miliardi di barili.

Se la situazione degenerasse e la ribellione si trasformasse in vera e propria rivoluzione, il prezzo del petrolio arriverebbe a toccare delle vette che finora gli economisti non avevano ipotizzato nemmeno nei loro incubi più neri. Per questo i trader di tutto il mondo hanno iniziato una speculazione a rotta di collo sui futures del petrolio.

Negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli investitori pronti a scommettere che le vicende interne dell'Arabia Saudita faranno schizzare il prezzo di ogni singolo barile oltre la soglia siderale dei 200 dollari. E' un po' come scommettere sul collasso economico della Terra. Il record, fino ad oggi, è di 147 dollari al barile. Si è registrato nell'estate 2008, quando si cominciava a vedere il fungo atomico della crisi finanziaria mondiale.  Rispetto ad allora, secondo quanto riportato recentemente della Cnn, il fervore speculativo è oggi talmente elevato che i grandi istituti finanziari detengono il doppio dei contratti di lungo periodo sul petrolio.

Tanto per rendere le prospettive ancora più buie, la Goldman Sachs ha accusato l’Arabia Saudita di truccare i dati sul livello reale di produzione di petrolio. Secondo la banca d'affari statunitense, i sauditi "dallo scorso novembre stanno producendo da mezzo milione a un milione di barili di petrolio al giorno in più rispetto alle cifre ufficiali. Questo vuol dire che la loro capacità in eccesso è significativamente più bassa dei numeri ufficiali". Se l'ipotesi di Goldman Sachs fosse vera, la capacità in eccesso dell'Opec scenderebbe sotto i 2 milioni di barili al giorno. Un livello così basso é stato raggiunto l'ultima volta nella famigerata estate del 2008.

Tutto questo accade in un momento in cui diversi paesi europei fanno ancora molta fatica a finanziare i propri debiti pubblici. La gara a collocare titoli di Stato sul mercato è già abbastanza estenuante. Una crisi petrolifera delle proporzioni paventate potrebbe significare l'armageddon economico. Certo, è una possibilità non facile a realizzarsi. Ma rimane una possibilità.


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