di Eugenio Roscini Vitali

Nell’agenda dei paesi mediorientali il nucleare è ormai uno dei punti di maggiore interesse e, in questa ottica, l’Arabia Saudita è senza dubbio il paese più attivo. O almeno quello che nelle ultime ore sembra essere il più deciso ad utilizzate l’atomo non solo per produrre energia civile ma anche, e soprattutto, per contrastare l’egemonia militare iraniana in abito regionale.

Secondo quanto pubblicato dal sito d’intelligence israeliano Debka, Ryadh starebbe consolidando con il Pakistan la collaborazione militare iniziata alcuni anni fa e ora sarebbe sul punto di acquisire da Islamabad due bombe atomiche e un lotto di missili balistici a medio raggio, come l’ultima versione dei Ghauri-II, vettore con range operativo di 2300 chilometri e testata da 750-1200 chilogrammi prodotto nella provincia del Punjab dall’industria bellica Kahuta Research Laboratories (KRL).

Mentre i due ordigni nucleari non avrebbero ancora lasciato la base aerea di Kamra, distretto settentrionale di Attock, nel Pakistan settentrionale, un numero non precisato di Ghauri-II sarebbe già stato consegnato e stoccato nei silos sauditi di Al-Sulaiyil, complesso missilistico situato 500 chilometri a sud della capitale.

Il fatto che Ryadh fosse in procinto di munirsi di armi atomiche era in parte trapelato dalle dichiarazioni di alcuni funzionari sauditi, che nelle settimane scorse, durante un giro di riunioni all’estero, hanno più volte ribadito come il Regno abbia per ora preferito rivolgersi ad altre fonti piuttosto che dotarsi della capacità di costruire un proprio arsenale nucleare.

Secondo le fonti israeliane il sospetto che le due bombe atomiche stiano per lasciare la Repubblica Islamica è confermato comunque dalla permanenza di due grossi velivoli da trasporto parcheggiati da alcuni giorni sulle piazzole si sosta dell’aeroporto di Kamra. Gli aerei, civili e sprovvisti d’insegne di riconoscimento, sarebbero pronti al decollo, ma per effettuare il volo l’equipaggio avrebbero bisogno di un doppio codice di autorizzazione, quello del Direttore generale dell’intelligence saudita, il principe Muqrin bin Abdel Aziz, e quello dello stesso re Abd Allah.

Per l’Arabia Saudita la corsa al nucleare risale agli anni Ottanta, quando le incertezze strategiche lasciano spazio alla Cina. Mentre nel caso del Pakistan l’obbiettivo predominante era quello di creare una piattaforma tecnologica capace di produrre autonomamente un arsenale di armi nucleari, l’Arabia Saudita era stata attirata dalla fornitura dei missili balistici a medio raggio CSS-2 (IRBM), 50 vettori a propellente liquido con la possibilità di installare testate nucleari e un raggio d’azioni di quasi 2.800 chilometri.

Alla collaborazione con Pechino ha poi fatto seguito il partenariato strategico con il Pakistan, un rapporto che Ryadh ha spesso utilizzato per controllare la politica interna pakistana e per diffondere l’influenza wahabita in Asia meridionale e nel sud-est asiatico. La stretta collaborazione tra i servizi segreti dei due Paesi, le luci e le ombre nei rapporti con Al Qaida e i talebani, hanno fatto da cornice ai piani sauditi riguardo le armi nucleari; cornice che per lungo tempo ha evitato un acquisto diretto degli armamenti, almeno fino a quando l’arsenale atomico iraniano non è diventato una vera minaccia e un’emergenza reale.

Da quando, nell’aprile del 2006, Ahmadinejad ha cominciato a sfidare il mondo ed ha annunciato che Teheran aveva iniziato ad arricchire l’uranio, tredici paesi arabi hanno preso o ripreso la strada del nucleare civile. In alcuni casi si tratta di programmi che puntano a raggiungere una sufficiente autonomia e sicurezza energetica, in altri si ravvede la necessità di far fronte a quella che viene vista come una minaccia alla stabilità dell’area.

L’Egitto ha rianimato un progetto che risale agli anni Ottanta ed ha annunciato che la prima centrale atomica verrà costruita ad el-Dabaa dalla francese Areva dall’americana Westinghouse ed entrerà in funzione nel 2019; gli Emirati Arabi Uniti hanno firmato con un consorzio sud-coreano guidato dalla Kepco, la compagnia elettrica nazionale che per 20 miliardi di dollari ha assicurato la costruzione di quattro reattori entro il 2017; il Kuwait, l’Algeria, la Tunisia, il Marocco e la Giordania stanno trattando con la Areva ed Amman gia ha sottoscritto un’intesa per una prima centrale atomica che dovrebbe entrare in funzione entro il 2020 e per la creazione un centro tecnico di formazione, il tutto in cambio delle licenze per lo sfruttamento dei giacimenti giordani di uranio che secondo le stime ammontano a 140 mila tonnellate.

La Siria è l’unico paese ad essere oggetto di un’inchiesta da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ma il tentativo di dotarsi clandestinamente di un reattore nucleare simile a quello di Yongbyon, in Corea del Nord, potrebbe non essere un impedimento sufficiente a fermare il sogno nucleare del presidente Bashar al-Assar.

Mentre a Ryadh si preparano a difendere il ruolo saudita di superpotenza regionale, a Teheran c’è chi continua la sua affannata corsa al nucleare. Sempre secondo Debka, nei giorni scorsi una delegazione di scienziati e tecnici iraniani sarebbe partita alla volta di Yongbyon, centro di ricerca nucleare nord coreano situato nella contea di Nyongbyon, provincia del Pyongan settentrionale, 90 chilometri a nord di Pyongyang.

Dopo una visita alle centrifughe di arricchimento, la rappresentanza avrebbe fatto tappa al sito di Punggye-ri dove, secondo le ultime foto satellitari raccolte dall’intelligence americano, i nord coreani  starebbero scavando un tunnel sotterraneo ed entro la prossima primavera sarebbero pronti ad effettuare un nuovo test atomico.

Se la presenza degli iraniani fosse confermata, avvalorerebbe l’ipotesi avanzata alcune settimane fa dal vice primo ministro israeliano per gli Affari strategici, Moshe Yaalon, secondo il quale l’Iran non sarebbe ancora in grado di costruire un proprio ordigno nucleare;  le difficoltà tecniche fino ad ora incontrate avrebbero in qualche modo minato lo sviluppo, ma questo non significa che per raggiungere questo obbiettivo Teheran non possa chiedere ed ottenere un aiuto esterno.

 

di mazzetta

La settimana prossima ci sarà probabilmente un nuovo paese al mondo: il Sud Sudan, almeno in attesa di un battesimo diverso. Si tiene infatti nel fine settimana un referendum, con il quale la popolazione della parte meridionale del Sudan dovrebbe scegliere la secessione dal Sudan. La storia di questo referendum è lunga più della ventennale guerra che ha contrapposto gli indipendentisti al governo di Karthoum e ha le sue radici nella colonizzazione britannica del paese, che ha racchiuso in un territorio grande otto volte la Germania riunificata un coacervo di etnie diversissime e consegnato all'indipendenza un paese enorme e molto difficile da gestire.

Ancora di più se quasi subito le ingerenze britanniche ed occidentali hanno brigato per questa secessione, alimentando la guerra destinata a separare la parte del paese con l'80% delle risorse petrolifere dal resto. Il conflitto s è concluso nel 2004, quando il regime sudanese di Bashir ha completato una svolta a 180°, sotto l'influsso delle minacce americane post undici settembre ai paesi troppo vicini all'estremismo islamico.

Nelle more del processo di pace scoppiò in quell'anno la crisi del Darfur, che venne a lungo ignorata dall'Occidente, troppo preso dal sostegno alla secessione sudista per preoccuparsi degli attacchi dei ribelli darfurini sostenuti dal Ciad (e altri attori regionali in maniera più defilata) e della brutale risposta governativa, probabilmente praticata dopo un riservato via libera occidentale.

Il distacco di Bashir dagli islamisti, già maturato ai tempi della cacciata di Bin Laden anteriore al 9/11, si fece allora drastico con l'arresto dell'ideologo islamico al-Turabi, poi passato alla guida di una delle formazioni ribelli del Darfur d'ispirazione islamica. Già questo dettaglio denuncia la falsità della ricostruzione ad uso delle opinioni pubbliche occidentali, alle quali la tragedia del Darfur è stata presentata come un massacro ordito da un regime “islamico” e arabo contro popolazioni di etnia e cultura diversa.

Nemmeno l'evidenza rappresentata da al-Turabi in guerra contro il governo ha avuto ragione di questo falso della propaganda ed è inutile dire che gli abitanti del Darfur non sono stati protetti da nessuno. Anche se persino l'Italia ha inviato una missione militare in Sudan, ma si trattava di un contingente ospitato a Khartoum a garanzia degli accordi di pace con il Sud: se non ne avete mai sentito parlare chiedetevi perché.

La secessione sudista sembra destinata ad andare a buon fine, Bashir ha ribadito anche nei giorni scorsi che rispetterà l'esito del referendum e nulla sembra davvero minacciarne l'esito. I problemi sono semmai attesi in seguito perché i leader del Sud, affermatisi sul campo di battaglia e selezionati tra quelli più duttili alle esigenze occidentali, non hanno sfruttato gli anni trascorsi dagli accordi e i proventi del petrolio per costruire istituzioni o infrastrutture, ma piuttosto per acquistare armi e vecchi carri di produzione sovietica.

Un traffico illegale, perché tutto il Sudan è sottoposto ad embargo, scoperto quando i pirati somali che hanno sequestrato la nave Faina, all'interno della quale c'erano decine di tank di produzione sovietica e documenti di viaggio che indicavano la destinazione finale nel Sud Sudan attraverso il compiacente Kenya. Che poi cercò di attribuirsi l'acquisto senza grande successo. Nessuna condanna venne allora né poi dal Dipartimento di Stato americano o dal Foreign Office britannico, evidentemente consenzienti a quella che comunque ha rappresentato un'infrazione della legalità internazionale e degli accordi di pace.

Il leader del Sud, Salva Kiir, non sembra avere sottomano un esecutivo all'altezza della sfida e il governo provvisorio, composto da per lo più da ex-guerriglieri, in questi anni ha dato una prova pietosa delle proprie capacità. Salva Kir è sicuramente più presentabile di John Garang, leader del Sud in tempo di guerra, iscritto nella lista dei terroristi dall'ONU e opportunamente precipitato con l'aereo che lo trasportava insieme alla sua conoscenza della storia dei rapporti del Sud con l'Occidente; ma agli osservatori indipendenti non sembra all'altezza della sfida, resa ancora più ostica dal fatto che anche il Sud a sua volta ospita una popolazione per niente omogenea e spesso impegnata in conflitti intestini.

Diverse variabili influiranno sul futuro del nuovo Stato e molti problemi dovranno essere risolti privilegiando la costruzione del paese al suo ruolo nello scacchiere regionale. Il pericolo che incombe maggiormente è infatti quello di un'iniziativa del Sud che colleghi il paese, che non ha sbocchi al mare, all'oleodotto che dal Ciad raggiunge il Golfo di Guinea, tradendo così gli accordi con il Nord per la sua distribuzione attraverso gli oleodotti che lo portano fino ai terminal sul Mar Rosso.

Se il Sud riuscirà ad emanciparsi dal Nord in maniera non ostile e a costituirsi come uno Stato con istituzioni solide e leggi moderne, è il vero interrogativo che aleggia su tutta la vicenda. Ed è triste osservare come, ancora una volta, le analisi che circolano nel nostro paese riducano tutto, ancora una volta, alla “minaccia islamica” del Nord. Il Sud Sudan nasce e dovrà camminare con le sue gambe, che per ora appaiono malferme e per niente all'altezza delle sfide all'orizzonte.

Se l'Occidente avesse veramente a cuore la democrazia e lo sviluppo in quelle lande, probabilmente i comportamenti fin qui osservati sarebbero stati diversi, così come sarebbe stata diversa e più genuina la presentazione del suo caso alle opinioni pubbliche occidentali. Il mancato verificarsi delle due condizioni spinge al pessimismo sul futuro del paese, che rischia di scivolare in un'anarchia di stampo somalo ancora prima di nascere. La sua storia comincia oggi e solo il tempo potrà dire se i suoi abitanti riusciranno a emanciparsi da certe ingombranti tutele e trovare un sentiero sicuro in un futuro che si presenta denso d'incognite e di minacce.

di Alessandro Iacuelli

Non è iniziata nel migliore dei modi la presidenza di turno dell'Unione Europea da parte dell'Ungheria, inaugurata il primo gennaio. Subito all'indirizzo del Paese è arrivato un duro monito della Commissione Europea sulla legge che istituisce la nuova Autorità nazionale per i media e le comunicazioni. La Commissaria europea alle Telecomunicazioni, Neelie Kroes, ha chiesto al governo ungherese chiarimenti immediati sulla legge, ribattezzata in tutta Europa "legge bavaglio". A preoccupare é soprattutto "la capacità della nuova autorità di agire in maniera indipendente, principalmente a causa della sua composizione".

La risposta è stata altrettanto dura: Budapest rispedisce al mittente le critiche internazionali alla legge, definendole "assurde e frutto di disinformazione". Viktor Orban, il primo ministro magiaro, non si è spaventato e ha invitato i suoi connazionali ad andare avanti, senza curarsi troppo delle reprimende provenienti dall'Europa occidentale.

Ma i timori in Ungheria non sono affatto sopiti e guadagnano spazio sulle prime pagine di due quotidiani, che hanno parlato di "fine della libertà di stampa" e accusato la legge di "servire esclusivamente i fini autoritari del premier Orban". "Fine della libertà di stampa" è il titolo di prima pagina del Nepszabadsag (indipendente) e del Nepszava (di tendenza socialista), per protestare contro la legge bavaglio, in vigore dal primo gennaio. Oltre che in ungherese, la frase viene ripetuta in tutte le lingue dell’Unione europea, compreso l’italiano.

Il Nepszabadsag, in un articolo di fondo, sottolinea che la controversa legge sui media serve solo alle intenzioni autoritarie del governo del premier Viktor Orban e al suo partito conservatore Fidesz, consentendo loro di controllare, sanzionare e in fin dei conti anche far fallire tutti i media di orientamento contrario. "Dobbiamo difendere i nostri diritti fondamentali, speriamo che l'Europa si renda conto del carattere antidemocratico di questa misura, e farà i passi necessari", scrive dal canto suo il Nepszava.

Il portavoce della Commissione europea, Olivier Bailly, ha spiegato che l'esecutivo europeo ha acceso un riflettore su due contestatissime leggi magiare: la nuova normativa sulla stampa e la legge che impone una tassa speciale anti-crisi sulle banche, sulle compagnie energetiche, su quelle di telecomunicazioni e sulla grande distribuzione. Bruxelles dovrà valutare se i due provvedimenti non violino principi sanciti dalla normativa europea. Già l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), diversi governi europei, le organizzazioni internazionali non governative dei giornalisti, avevano puntato il dito nei confronti di una normativa accusata di limitare fortemente la libertà d'espressione.

I chiarimenti richiesti dall'Unione Europea sono stati sollecitati con una lettera inviata il 24 dicembre, in vista della riunione della Commissione programmata proprio a Budapest, come da prassi quando un Paese assume la presidenza di turno dell'Unione Europea. Intanto, la nuova legge ha già fatto la prima vittima: una radio commerciale è stata ammonita per aver mandato in onda una canzone del noto rocker Ice-T, che secondo l'Autorità rischia di corrompere la moralità dei giovani magiari.

Sul fronte della tassa internazionale, arrivano nuove grane a Budapest. Tredici grandi società europee hanno fatto ricorso alla Commissione Europea contro la legge adottata in ottobre che introduce un'imposta speciale retroattiva sulla grande distribuzione, le telecomunicazioni e le attività legate alla distribuzione dell'energia. L'obiettivo di Orban è di garantire un'entrata straordinaria per colmare il buco di 500 milioni di fiorini, circa 1800 miliardi di euro) nel bilancio pubblico.

Le società europee, in particolare tedesche, austriache, olandesi, francesi e della Repubblica Ceca, tra cui Ageon, Allianz, Axa, Ing, Rwe, EnBw, E.On, Deutsche Telekom, Omv, Cez, accusano il governo ungherese di agire in contrasto con le norme europee sulla concorrenza e non discriminazione tra imprese nazionali e imprese europee. Invece Orban cerca visibilmente di caricare il peso del consolidamento di bilancio sulle società estere. La lettera inviata dai 15 responsabili d'impresa alla Commissione europea dice esplicitamente che la legge magiara "fa torto agli investimenti e alla credibilità dell'impegno ungherese a favore del mercato europeo". Il portavoce dell'esecutivo europeo, a tale proposito, ha dichiarato che la Commissione sta aspettando la risposta puntuale del governo di Budapest e che valuterà il caso sotto il profilo della "non discriminazione" della tassazione in relazione ai diversi settori.

Le tasse speciali anti-crisi non sono una novità per l'Ungheria: già erano state introdotte dal precedente governo socialista nei settori bancario ed energia anche se meno pesanti. Il caso ha creato un gran subbuglio nel mondo imprenditoriale europeo, perché denuncia un problema reale: in tutti i Paesi dell'Europa dell'Est il peso degli interessi d’imprese occidentali è notevole, in alcuni settori come quello bancario talvolta preponderante. A questo si aggiunge la campagna della coalizione di centro-destra contro gli investitori non ungheresi, accusati di aver corrotto il governo socialista precedente per ottenere trattamenti fiscali favorevoli.

Tirando le somme, all'avvio del nuovo semestre a Bruxelles, dopo la legge bavaglio sui mezzi di comunicazione, Budapest è additata come la pecora nera dell'Europa liberale. La Commissione europea non esiterà ad aprire una procedura d’infrazione nei confronti dell’Ungheria se la sua nuova legge sui media dovesse rivelarsi in conflitto con le normative europee in materia. L’ha assicurato il portavoce della commissione Olivier Bailly: “Se c’è un’infrazione del diritto comunitario, la commissione aprirà una procedura e il fatto che l’Ungheria presieda l’Ue non avrà alcuna incidenza”.
 
Ci si chiede già se la presidenza ungherese sia in grado di portare a termine il suo mandato senza clamorosi incidenti in un momento particolarmente difficile, basti pensare alla gestione della crisi dell'Eurozona. Con il fiorino ungherese in caduta libera le difficoltà finanziarie del paese si aggravano, lo spettro di un nuovo declassamento da parte delle agenzie di rating si avvicina e i dubbi sulle prospettive economiche all'origine della decisione del Fondo monetario internazionale di sospendere il prestito di 25 miliardi di dollari non sono stati fugati. Senza parlare dei conflitti con la banca centrale sull'indipendenza e sulla politiche di bilancio.

Il 2011 è da molti considerato come l’anno della verità per l’euro e, più in generale, per il destino dell’Unione Europea. Da presidente dell’Unione, l'Ungheria rischia di doversi impegnare nel suo stesso salvataggio dalla crisi economica. E' difficile in tali condizioni tenere in mano le redini dell'agenda politica ed economica europea.

di Carlo Benedetti

MOSCA. L’Austria, nel segno di una sincera revisione storica, restituisce nome ed onore a quei 60.000 soldati dell’Armata Rossa che caddero sul territorio austriaco durante la seconda guerra mondiale. Non tutti morti in combattimento: alcuni morti di stenti o di malattia nei campi di concentramento, altri giustiziati sommariamente dopo un tentativo di fuga. Nella capitale austriaca c’è un monumento, nella piazza Schwarzenberg, che ricorda i tanti Ivan caduti.

Ma ora il governo di Vienna ha provveduto ad un “censimento” di tutti quei sovietici morti nella battaglia per la liberazione del Paese. L’ha fatto con un lavoro di ricerca a tutto campo curato dallo storico austriaco Stefan Karner e dai collaboratori del Boltzmann Institut für Kriegsfolgenforschung. Le ricerche sul territorio e negli archivi sono durate 12 anni e hanno portato alla pubblicazione di un libro (anche in versione digitale) con l’elenco completo delle vittime e con le informazioni relative alla loro sepoltura.

Tutto questo avviene perché di quelle vittime sconosciute si era perso il ricordo, tanto da non sapere più chi fossero né dove fossero sepolti i loro corpi. Una situazione speculare, in un certo senso, rispetto a ciò che era capitato in Russia ai soldati dell’Armir. Ma ora i caduti dell’Armata Rossa in Austria hanno un nome e un cognome e si sa dove sono sepolti.

Un gesto estremamente significativo che Mosca saluta inserendolo nel quadro di un clima di rinnovata distensione nel cuore del continente. Intanto sono in arrivo nella capitale russa la ministra degli Interni austriaca, Maria Fekter, e lo stesso Karner (l’autore della ricerca) con l’obiettivo di consegnare l’intero elenco al presidente russo Medvedev. In questo modo le famiglie dei caduti potranno consultare l’elenco, che sarà disponibile anche su internet, e sapere finalmente dove riposano i loro caduti.

Forse non sarà possibile per essi andare fino in Austria e portare un fiore sulla tomba dei congiunti ritrovati, ma sarà almeno loro di conforto, dopo tanto tempo, poter guardare la carta geografica dell’Austria e sapere che lì, in qualche città o in qualche villaggio, si trova la loro tomba.

L’Austria - si nota con soddisfazione a Mosca - è il primo Paese in Europa ad aver condotto una simile ricerca sulle vittime di guerra dell’ex Unione Sovietica e ad averla messa a disposizione della Russia. Naturale, quindi, che la consegna dell’elenco a Medvedev costituirà anche una sorta di ringraziamento alle autorità russe per aver aperto negli anni ’90 gli archivi di Mosca e consentito di far luce sulla sorte di migliaia di soldati austriaci della Wehrmacht, fatti prigionieri durante la campagna di Russia o durante la ritirata.

Gli storici russi, in questo clima di distensione e di ricerca della verità storica, ricordano che quando sul finire della seconda guerra mondiale l’Armata Rossa giunse sul territorio austriaco, mancava ormai soltanto poco più di un mese alla capitolazione del Reich. Eppure bastarono quei pochi giorni per lasciare sul terreno decine di migliaia di morti, tanto cruenti furono i combattimenti, casa per casa, strada per strada (18.000 caduti sovietici soltanto nella battaglia di Vienna), voluti fino all’ultimo da Hitler. Alla fine il conto delle perdite russe fu, appunto, di 60.000 caduti.

Erano i giorni in cui le armate sovietiche concludevano la Liberazione della Slovacchia e si muovevano in direzione dell'odierna Repubblica Ceca, quelli in cui l'Armata Rossa combatteva valorosamente anche nelle strade di Vienna. Dal Marzo del 1938, dai giorni della forzata annessione alla Germania, l'Austria faceva parte del criminale Reich nazista.

Gli austriaci ne condivisero o ne subirono le colpe e la sorte, prima di essere liberati dagli Alleati e riconquistare la propria sovranità e indipendenza, benché condizionate alla "neutralità" sancita per loro a Yalta. Fu il generale Blagotatov ad effettuare la presa della capitale mentre le truppe tedesche del gruppo “Sud” ripiegavano. Le cronache di quei giorni ricordano a tutti che fu alle ore 14 del 13 aprile 1945 che le truppe sovietiche occuparono completamente Vienna.

Ed ora alla tv russa compare quella piazza Schwarzenberg, dove in cima all'alta colonna svetta la statua del soldato sovietico, stretto attorno alla sua bandiera vittoriosa. Alla base del monumento, è inciso il testo del decreto ? 334, firmato da Stalin il 13 aprile del 1945, giorno della Liberazione di Vienna. E' l'omaggio ai valorosi reparti del 2° e del 3° Fronte Ucraino e la cronaca delle loro gesta: 130.000 prigionieri tedeschi, 11 divisioni corazzate annientate, 1.345 carri e pezzi d'artiglieria, 2.250 mortai distrutti o sottratti al nemico. Ai lati, i nomi degli eroi. Attorno l'ampio colonnato, sul cui frontone sono incise le parole della gratitudine e della memoria: "Gloria eterna agli eroi dell'Armata Rossa, caduti in combattimento contro gli invasori nazifascisti, per la libertà e l'indipendenza dei popoli dell'Europa".

di Giuliano Luongo

La bomba fatta esplodere nei pressi della cattedrale di S. Marco ad Alessandria d’Egitto, durante la messa di mezzanotte, ha riportato l’attenzione sulla situazione dei cristiano copti in Egitto. La posizione dell’autoproclamatosi monarca Mubarak e la reazione dell’Occidente europeo, hanno partorito la rapida creazione di un “fronte per la difesa della cristianità”. Sembra essere questo, infatti, il prossimo obiettivo in agenda dei conservatori europei, in particolare di quelli nostrani, mentre s’infiamma la polemica a distanza tra i più alti rappresentanti religiosi delle fazioni coinvolte.

I copti (termine di origine greca che significa semplicemente “egizi”) sono una minoranza cristiana presente in Egitto dal I secolo d.C., vicini al Papa di Roma, ma con molti punti di contatto con l’ortodossia cristiana orientale. Sebbene i numeri non siano né certi né aggiornati, si stima siano poco più del 10% della popolazione egiziana (il governo fissa la cifra all’8%). La convivenza ha sempre oscillato tra alti e bassi, secondo l’estremismo dell’opposta fazione, sia in maniera violenta e diretta, sia in maniera più subdola: un tipico esempio è quello dei rapimenti di donne copte fatte convertire forzosamente all’Islam per poi finire in spose ad uomini islamici.

Nel ‘900, il punto di minimo tra le relazioni interreligiose si ebbe durante il periodo Sadat (’70-’81): proprio nel 1981, un gruppo di fondamentalisti islamici uccise 17 cristiani e ne ferì circa 100. Il presidente dimostrò di essere lievemente di parte, facendo arrestare il patriarca copto Shenouda III ed insabbiando l’accaduto.

L’attentato di capodanno non sembra essere stato un attacco del tutto imprevisto, dato che ben due settimane prima un’affermazione presente su di un noto sito web di estremisti islamici elencava una lista di venti siti copti da colpire, tra i quali figurava proprio la chiesa di S. Marco.

E’ stata, come da copione, paventata una connessione con Al Qaeda: “Lo Stato Islamico dell’Iraq”, organizzazione fondamentalista irachena, dichiarava il 1° novembre 2010 sul suo sito che quale tutti i cittadini cristiani del Medio Oriente sono da considerarsi “bersagli legittimi”, con il pretesto di supposte conversioni forzate dall’Islam al Cristianesimo avvenute a luglio 2010.

Proprio poche ore prima dell’esplosione una folla di manifestanti islamici radunatisi alla moschea di Kayed Gohar aveva ripetuto gli stessi slogan anti-cristiani attribuiti ai noti estremisti.

Dell’attentato in sé si è già detto fin troppo, mentre ancora non c’è accordo tra i reporter sulle modalità dell’assalto (dal kamikaze all’autobomba, al kamikaze nell’autobomba) ben pochi si sono presi la briga di ricordare che sia stato il peggior attacco alla comunità copta dal 2000 a questa parte (secondo massacro di Kosheh, 02/01/2000, 21 vittime), di vedere un interessante schema nel colpire a gennaio, o semplicemente di fare una lista degli ultimi attacchi per cercare di capirci qualcosa.

Nel maggio 2009, un tentativo di attacco con due ordigni non fece vittime (uno dei due venne disinnescato dalla polizia dopo l’esplosione del primo). Seguì il massacro di Nag Hammadi, 6 gennaio 2010: sei cristiani ed un poliziotto musulmano furono uccisi da un gruppo di fuoco all’esterno di una chiesa del Cairo, durante le celebrazioni del Natale ortodosso. Ne scaturirono numerose proteste da ambo le parti, con gli scaricabarile e gli incendi di rito di case e beni materiali.

L’evento portò, oltre ai citati danni alla proprietà privata e al demanio, alla pubblicazione di una serie di studi sull’escalation di violenza ai danni della comunità copta, elencando una lunga serie d’incidenti avvenuti tra il 2008 ed il 2009. L’impatto del testo è comunque da considerarsi mediocre, nonostante gli interessanti contenuti. Ciò che è accaduto in seguito è cronaca recente: dopo le “picconate” degli estremisti iracheni, il 24 novembre le violenze interreligiose riprendono. Motivo: lo stop alla costruzione di un nuovo edificio di culto cristiano. Dopo una prima manifestazione alquanto violenta dei cristiani, se ne innesca un’altra di forza eguale e contraria da parte dei musulmani. Bilancio: due cristiani morti e ben 150 arresti nelle due fazioni.

Mentre sullo sfondo - o meglio, al centro del palco - si alimenta la protesta copta, aumentano le illazioni sui possibili mandanti dell’attentato. Gli attacchi si protraggono da molti anni a questa parte e si concentrano nelle principali festività copte/ortodosse, anche da prima del grande arrivo sulle scene di Al Qaeda. La tesi del coinvolgimento dell’organizzazione di Osama bin Ladin è infatti scartata da numerosi analisti, anche provenienti dal mondo arabo: si punta il dito soprattutto sugli stessi agenti governativi, nell’ottica di una strategia “sottile” al fine di fiaccare la scomoda minoranza religiosa.

Sarebbe facile per il governo, infatti, accusare “criminali stranieri”, fingere di prendersi cura del problema e lasciare la sola fuga come alternativa per la comunità cristiana. Di certo, il presidente Mubarak non ha brillato per reattività, accusando appunto i suddetti “elementi stranieri” e parlando genericamente di perseguire i colpevoli, ma di pratico c’è ben poco. A livello internazionale, le reazioni di politici e non rendono il tutto ancora più interessante: se il Papa fa il suo mestiere, denunciando in toto le violenze - in particolare alla luce degli attacchi alle comunità cristiane in altre parti del mondo - colpisce molto di più quanto detto dai politici.

Ancora esaltato dalle minacce al Brasile, il nostro Frattini è sceso in prima linea invocando l’attivazione del Parlamento Europeo per imporre ai paesi negligenti nella tutela dei cristiani una serie di sanzioni: si è parlato di “passare all’azione” anche se finora è tutto ancora definito nell’aria fritta. L’arma definitiva dovrebbe essere quella dell’aiuto “in cambio di diritti”: secondo il Ministro, i paesi in via di sviluppo che non collaborano alla tutela dei diritti dei cristiani sul loro territorio potrebbero veder svanire il supporto economico occidentale, mentre quelli più attivi potrebbero ricevere addirittura incentivi da parte dell’Europa.

Inutile dire che da Bruxelles ancora si tace riguardo a questo, ma tale scenario apre numerose illazioni anche dal punto di vista degli analisti: legare la tutela dei diritti umani ad un do ut des economico non potrebbe avere risvolti dannosi? Come si potrebbe misurare praticamente l’impegno a “difendere i cristiani? Sa molto di “impegno libico a difendere il mare dai migranti”; i brillanti risultati li conosciamo tutti.

 


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