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di Michele Paris
L’11 febbraio scorso, la caduta di Hosni Mubarak era stata giustamente salutata come una clamorosa vittoria del movimento rivoluzionario egiziano. Nonostante la portata storica del risultato raggiunto dalle proteste di piazza, la giunta militare succeduta all’anziano dittatore ha fatto di tutto per impedire un reale cambiamento nel più importante paese arabo. La prevedibile attitudine controrivoluzionaria delle forze armate in Egitto ha trovato immediatamente il sostegno degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali, pronti a puntare su uno dei pilastri del precedente regime per conservare una qualche “stabilità” in una regione in pieno fermento.
La prova più evidente del ruolo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, alla guida dell’Egitto con poteri dittatoriali dopo aver rimosso Mubarak, è stata la promulgazione nella settimana scorsa di un decreto che mette fuori legge scioperi e manifestazioni di piazza che rechino disturbo all’attività delle compagnie pubbliche e private o all’economia del paese in genere.
L’iniziativa della giunta militare è arrivata dopo che le proteste e gli scioperi non accennavano a placarsi nelle settimane seguite all’uscita di scena di Mubarak e, in sostanza, finisce col criminalizzare quegli stessi metodi pacifici che centinaia di migliaia di persone avevano usato per chiedere il cambiamento.
Questo provvedimento serve ai militari per soffocare ulteriori proteste da parte dei cittadini egiziani e per bloccare sul nascere qualsiasi richiesta che vada al di là delle riforme di facciata adottate finora. Nel dopo-Mubarak, i cortei e gli scioperi di lavoratori di svariati settori dell’economia egiziana sono infatti proseguiti, con l’obiettivo di ottenere veri diritti democratici ma anche opportunità di lavoro, aumenti di stipendio, giustizia e il licenziamento di quei funzionari e manager compromessi con il vecchio regime.
Se è pur vero che per le strade del Cairo si respira oggi un’aria diversa, l’ossatura del regime rimane pressoché inalterata, così come molti uomini vicinissimi a Mubarak continuano a ricoprire incarichi di potere.
A guidare il Consiglio Supremo delle Forze Armate è il 75enne maresciallo di campo Mohamed Hussein Tantawi. Per due decenni Ministro della Difesa (dal 1991), quest’ultimo viene descritto in un cablo del marzo 2008, redatto dall’allora ambasciatore USA al Cairo Francis J. Ricciardone e pubblicato da Wikileaks, “ostile al cambiamento” e, come Mubarak, “interessato alla stabilità del regime e al mantenimento dello status quo fino alla fine”. Lo stesso premier, Essam Sharaf, era stato Ministro dei Trasporti tra il 2004 e il 2005 prima di dedicarsi all’insegnamento in seguito a divergenze con il governo e unirsi recentemente al movimento di protesta.
L’illusione di trovare nelle forze armate egiziane un alleato comune per la causa democratica si era diffusa rapidamente tra l’opposizione più o meno spontanea che si era riversata nelle strade a partire dalla fine di gennaio. L’atteggiamento relativamente moderato dei militari di fronte alle proteste e alla repressione violenta dell’apparato di polizia del regime aveva contribuito ad alimentare le speranze di molti. Questo entusiasmo, tuttavia, si è ben presto trasformato in diffidenza e rabbia non appena è apparso evidente che i vertici dell’esercito non rappresentano altro che una componente fondamentale del regime stesso.
In quanto tale, il Consiglio Supremo delle Forze Armate agisce per limitare il cambiamento nel paese e mantenere inalterata la struttura di un regime che si fonda su una ristretta cerchia di funzionari di alto rango e uomini d’affari arricchitisi a dismisura grazie ai favori ottenuti con la fedeltà dimostrata verso il deposto presidente Mubarak.
Per ottenere quest’obiettivo, la giunta militare continua ad appoggiarsi sul suo apparato di sicurezza - solo scalfito dagli eventi delle ultime settimane - e sullo stato di emergenza, in vigore dall’assassinio di Sadat nel 1981 e non ancora revocato nonostante le promesse. Un ruolo fondamentale lo svolge poi la collaborazione con le opposizioni nominali, come i Fratelli Musulmani, il partito liberale Wafd, il presidente della Lega Araba Amr Moussa e in una certa misura anche Mohamed ElBaradei, così da offrire una facciata di democrazia di fronte alla comunità internazionale.
A riprova della natura reazionaria della giunta militare egiziana c’è soprattutto la repressione messa in atto per spegnere le proteste di quanti hanno continuato a presentarsi in Piazza Tahrir e altrove negli ultimi due mesi. Violenze, detenzioni e addirittura abusi sessuali hanno contraddistinto la risposta di quelle forze armate che, nelle parole del portavoce della giunta, generale Ismail Etman, dovrebbero “proteggere e difendere la rivoluzione”.
La situazione egiziana, ormai passata in secondo piano sulla stampa occidentale, assieme alle durissime repressioni in paesi come Bahrain, Oman e Yemen e all’intervento militare in Libia evidenzia i formidabili ostacoli che stanno incontrando i movimenti popolari sorti in Medio Oriente e in Africa Settentrionale per chiedere libertà e giustizia sociale.
Gli strati più disagiati di queste popolazioni devono fronteggiare la resistenza delle élites locali, che reprimono nel sangue le proteste o, nella migliore delle ipotesi, concedono solo riforme superficiali; a queste si sommano le pressioni delle potenze occidentali che intervengono - anche militarmente, come nel caso libico - per proteggere i loro interessi.
In questo scenario, le cause che hanno scatenato le rivolte restano immutate: dalla povertà diffusa alla mancanza di spazi democratici, dalla corruzione dilagante alle disuguaglianze sociali sempre più marcate.
In Egitto, la giunta militare opera con il pieno appoggio di Washington e dell’Europa. Non a caso, infatti, il decreto contro scioperi e manifestazioni è stato emanato proprio in concomitanza della visita al Cairo del numero uno del Pentagono, Robert Gates, e poco dopo il discusso blitz in Piazza Tahrir del Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Gli Stati Uniti hanno assicurato ai militari al potere che continueranno ad arrivare miliardi di dollari in aiuti se verrà garantita quella stabilità che aveva fatto di Mubarak uno dei loro alleati più fedeli nella regione.
Lo stesso referendum costituzionale offerto agli egiziani e approvato lo scorso 19 marzo rientra nel tentativo del Consiglio Supremo delle Forze Armate di prevenire qualsiasi cambiamento traumatico del sistema.
I militari avevano infatti messo assieme in tutta fretta una commissione di esperti incaricata di proporre alcune modifiche alla Costituzione. Ciò che ne è uscito sono otto emendamenti trascurabili, tra cui il limite di due mandati per la carica di presidente, che hanno impedito qualsiasi altra richiesta di cambiamento più radicale.
Incassato il via libera al referendum, i generali egiziani hanno così annunciato le nuove date delle elezioni. Quelle per il Parlamento si terranno a Settembre invece che a Giugno, mentre le presidenziali sono state spostate da Agosto a Novembre. La giunta, salvo un’eventuale nuova escalation di proteste, dovrebbe rimettere i poteri legislativo ed esecutivo, che attualmente detiene, dopo le due consultazioni. Il Parlamento procederà poi ad eleggere un’Assemblea di cento membri che sarà chiamata a scrivere una nuova Carta Costituzionale, da sottoporre a sua volta a referendum popolare.
Le forze di opposizione avrebbero voluto tempi più lunghi per il voto. Tempi così brevi, sostengono gli animatori della rivolta, finiranno per favorire i partiti meglio organizzati, come i Fratelli Musulmani e il Partito Nazionale Democratico che fu di Hosni Mubarak.
Un esito che sarebbe tutt’altro che rivoluzionario, ma che i militari e gli americani gradirebbero per chiudere rapidamente e senza troppe scosse la travagliata transizione verso un Egitto “democratico”.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Dopo i ribaltoni di portata storica delle recenti elezioni regionali, la Germania tira le somme e avverte i primi cambiamenti concreti a livello politico. Se da una parte si aggrava sempre più la crisi del capo liberale e vicecancelliere Guido Westerwelle (FDP), tanto che qualcuno già parla di regicidio e dimissioni, dall’altra i Verdi provano, assieme ai socialdemocratici (SPD), a dare forma concreta a quelle promesse che, da trent’anni a questa parte, hanno potuto fare sempre e solo dalle fila dell’opposizione.
Perché, in effetti, tra i liberali tedeschi tira aria pesante, tanto che qualcuno già parla di golpe interno al partito. Questo fine di settimana, mentre il ministro degli Esteri e capo FDP Guido Westerwelle era a Pechino per la presentazione ufficiale di una mostra di natura artistica, i compagni di partito discutevano delle recenti sconfitte elettorali in Baden-Wuerttemberg e Renania-Palatinato (Sud- Ovest della Germania) e proponevano soluzioni concrete tra cui, a gran voce, un ricambio ai vertici FDP.
Nelle recenti regionali dei Laender di Stoccarda e Magonza, i liberali hanno conseguito percentuali elettorali praticamente dimezzate rispetto al 2006: in Renania-Palatinato, l’FDP non ha racimolato neppure la quota minima di voti per entrare nel Parlamento regionale, mentre in Baden-Wuerttemberg ha raggiunto a malapena il numero minimo di seggi, attestandosi a 5 punti percentuali esatti. Esiti catastrofici che richiedono volti nuovi, giustificano i liberali tedeschi, per riguadagnare la credibilità perduta di fronte agli elettori.
E a Westerwelle non resta che prendere atto dell’entità della rivolta: se subito dopo i primi exit pool delle regionali di domenica scorsa il vicecancelliere aveva escluso con sicurezza le proprie dimissioni, ora tra i suoi oppositori sono emerse molte figure di spicco dell’FDP, e la pressione continua a crescere. “Nessuno può rimanere incollato alla propria poltrona”, avrebbe addirittura commentato il ministro liberale della Giustizia tedesco Sabine Leutheusser-Schnarrenberger (FDP) a proposito. E già qualcuno, in Germania, parla di regicidio, mentre giornali autorevoli come Der Spiegel o Berliner Zeitung sventolano la possibilità di grossi cambiamenti in seno all’FDP già per inizio settimana.
Completamente diversa l’atmosfera che si respira tra le fila di Verdi e Socialdemocratici (SPD), ancora in tripudio per i risultati storici guadagnati alle regionali in Baden- Wuerttemberg. Ora l’obiettivo è accordarsi per dare forma concreta alle (grosse) attese degli elettori in una delle regioni più ricche della Germania: sono già cominciate le trattative per una coalizione verde-rossa, e il governatore regionale designato, l’ecologista Winfried Kretschmann, non ha dubbi “sulla buona riuscita dei colloqui”.
A questo proposito, si concede qualche parola in più anche il giovane socialdemocratico Nils Schmid (38 anni), rappresentante regionale SPD e futuro partner politico di Kretschmann. Condizione sine qua non per un’alleanza verde-rossa, ha dichiarato Schmid, è un referendum sul controverso progetto Stoccarda 21, la mega infrastruttura che avrebbe dovuto andare a sostituire la vecchia stazione della città contro cui oltre la metà dei cittadini ha manifestato per settimane. La proposta di rivolgersi nuovamente al volere dei cittadini, comunque, non ha di sicuro incontrato impedimenti tra le fila degli ambientalisti, scettici fin dall’inizio nei confronti del progetto.
La questione della regione federale del Baden- Wuerttemberg che più interessa la Germania, tuttavia, rimane l’energia nucleare, uno dei fattori che ha permesso ai Verdi di diventare la seconda forza politica regionale nelle recenti elezioni. I Verdi hanno quasi raddoppiato la percentuale di elettori grazie al grido di battaglia “Atomkraft?Nein, danke!” e ora tutti si aspettano grandi cambiamenti in questo senso. La regione di Stoccarda ha diverse centrali nucleari e potrebbe valere come banco di prova per l’abbandono del nucleare a favore delle energie rinnovabili. Sempre che il nuovo governo verde-rosso sappia gestire la situazione in maniera concreta e, soprattutto, sempre che sia disposto a investire le grosse somme necessarie all’avvio di una politica di energie verdi.
Le promesse sono tante e l’entusiasmo, a quanto pare, è alto, eppure il nucleare è una questione molto spinosa e la sfida è difficile: ne sanno qualcosa a Berlino, dove la barca di CDU (cristiano- democatici) e liberali ha cominciato a prendere acqua proprio dopo essersi incagliata nella questione del prolungamento delle attività nucleari in Germania.
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di Carlo Musilli
Le sta provando tutte pur di non lasciare la comoda poltrona da dittatore. Negoziati segreti, manifestazioni, offerte di compromesso, minacce, pressioni sugli alleati esteri. Dopo 32 anni alla guida dello Yemen, Ali Abdullah Saleh sembra sempre più vicino alla sconfitta. Ma intende combattere fino all'ultimo le migliaia di manifestanti che da gennaio chiedono ogni giorno le sue dimissioni. L'ennesima proposta è arrivata mercoledì sera, quando il presidente ha incontrato Mohammed al Yadoumi, leader del partito islamico al Islah, un tempo alleato del governo ed ora capofila dell'opposizione.
Saleh ha offerto di trasferire i suoi poteri ad un esecutivo provvisorio, che avrebbe il compito di traghettare il Paese verso nuove elezioni. Ma alle urne non si andrebbe prima del 2012 e, fino ad allora, il dittatore yemenita rimarrebbe al suo posto. "Saleh moltiplica le proposte inutili e le provocazioni - ha replicato Mohammad al Qahtan, portavoce dell'opposizione - e tutti questi tentativi non hanno che un unico fine, quello di rimanere al potere. Ma il presidente ha un'unica scelta: se ne deve andare".
Non solo. Dalle fila di al Islah è arrivata anche un'accusa ben precisa. Secondo lo sceicco Sadiq al Ahmar, Saleh starebbe pensando "all'esecuzione di omicidi eccellenti come soluzione per uscire dalla crisi". Nel mirino del regime ci sarebbero personalità politiche dell'opposizione.
Fra goffi tentativi d'accordo e oscuri piani sanguinari, il capo di Stato yemenita è anche costretto ad ammettere qualche sconfitta. Di fronte ai membri del suo partito ha annunciato che almeno sei delle diciotto province del Paese sono cadute in mano agli oppositori. Una debacle che si è consumata nell'arco di poche settimane, da quando molti governatori hanno deciso di aderire alla causa dei manifestanti. Nonostante tutto, Saleh si mostra ancora combattivo: "Mi rivolgo a quelli che mi chiedono di andare via - ha detto - tocca a voi lasciare lo Yemen. Avete versato il sangue dei giovani per i vostri scopi".
Nei giorni scorsi il presidente ha ufficializzato la nomina dei nuovi generali che andranno a rimpiazzare quelli passati al fronte anti-regime. Ma l'esercito di Sana'a non fa paura tanto per il suo potenziale bellico, quanto per le funzioni che non può o non vuole più svolgere. Da tempo le truppe sono concentrate nella Capitale a contrastare la rivolta, mentre le province periferiche del Paese sono abbandonate all'anarchia. Caso emblematico del nuovo scenario è la tragedia che si è consumata lunedì scorso a Jaar, nel sud dello Yemen, dove una fabbrica di armi è esplosa.
Centocinquanta persone sono morte, più di ottanta i feriti. L'esatta dinamica dell'incidente (o attentato) rimane un mistero. C'è chi parla di una sigaretta caduta per sbaglio, chi tira in ballo Al Qaeda, chi ancora sostiene sia opera dei gruppi indipendentisti meridionali. L'unica cosa certa è che da qualche giorno l'intera area fosse nelle mani di alcuni miliziani islamici. L'opposizione ha accusato Saleh di aver ritirato l'esercito dalla zona proprio perché i terroristi se ne impadronissero.
L'ipotesi è che il presidente abbia deciso di collaborare con i gruppi fondamentalisti per ingigantire e sfruttare le paure degli Stati Uniti. Negli ultimi dieci anni il regime è stato alleato di Washington nella lotta contro il ramo yemenita di Al Qaeda, che ha rivendicato il fallito attentato del 2009 su un aereo diretto a Detroit e i pacchi bomba sui cargo indirizzati negli Usa lo scorso ottobre. Adesso è probabile che il dittatore di Sana'a voglia rinfrescare la memoria agli amici americani, dando loro un assaggio di quello che potrebbe accadere se davvero nel Paese si compisse la rivoluzione. Si tratta di lasciare indifeso il territorio per poi poter dire: "Dopo di me, il diluvio".
Guarda caso, giovedì gli uomini di Al Qaeda hanno annunciato la nascita del loro primo emirato islamico in Yemen. Avrà sede nella provincia meridionale di Abyen, esattamente dove si trova Jaar. Secondo quanto annunciato dagli stessi terroristi via radio, i loro gruppi armati avrebbero già occupato il palazzo presidenziale e l'area intorno alla città.
Ma non è solo il sud a doversi preoccupare. Nella provincia centrale di Maarib, ad esempio, il governatore è stato accoltellato per aver cercato di disperdere i manifestanti. Anche qui Al Qaeda è molto attiva. Secondo fonti militari, di recente i terroristi avrebbero attaccato una stazione dell'esercito, uccidendo sette soldati e ferendone altri sette. Questo dimostrerebbe che se davvero Saleh punta a sfruttare l'organizzazione criminale, quantomeno il suo piano non poggia su una vera alleanza con i miliziani.
Intanto ieri è stato un altro giorno di manifestazioni a Sana'a, dove gli oppositori e i sostenitori del presidente hanno dato vita a due diversi cortei, separati da un solo chilometro di distanza. Dopo la strage di due settimane fa, quando 52 persone furono massacrate dai cecchini in piazza del Cambiamento, era ancora grande la paura della violenza. Per questo gli organizzatori della protesta contro il dittatore hanno deciso di non marciare fino al palazzo presidenziale, come all'inizio avevano programmato. Dal canto suo Saleh ha ribadito di fronte ai suoi fedeli che intende "sacrificarsi" per il popolo yemenita "con il sangue" e con tutto quello che ha "di più caro".
Forse per dar prova di buona volontà, nei giorni scorsi il presidente ha ordinato il rilascio di decine di attivisti che da settimane erano rinchiusi in prigione. Non si sa se lo abbia fatto davvero come gesto conciliante o se semplicemente abbia voluto evitare che i manifestanti prendessero d'assalto le carceri. Fatto sta che a nessuno è venuto in mente di ringraziarlo. Sono rimasti in pochi, nello Yemen, a non saper riconoscere i trucchi di Saleh.
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di Fabrizio Casari
L’esilio per Gheddafi, le armi per gli insorti: la Conferenza di Londra sembra voler stringere i tempi nella guerra alla Libia. Le obiezioni sono di diversi paesi e per diversi motivi, ma appare chiaro che Parigi, Londra e Washington cominciano ad avere fretta, anche perché le ultime giornate segnalano un bollettino di guerra diverso da quello che s’ipotizzava. Le forze lealiste, infatti, benché colpite ripetutamente, non rinunciano alla controffensiva e i rivoltosi, dal canto loro, non sembrano fare grandi progressi.
Il quadro militare è appunto questo. Abbandonata, raid dopo raid, qualunque apparenza di applicazione della Risoluzione Onu, l’interdizione al volo e la protezione dei civili è diventata sempre più guerra aperta al governo e ai suoi sostenitori, civili o militari che siano.
Ma proprio per evitare uno stop internazionale, i raid non possono ripetersi ad ondate continue e quindi, distrutte le dotazioni aereonautiche e qualche deposito di armi del governo, diventa difficile bombardare h24 tutto quello che si muove. Si può “pulire” il terreno, si possono colpire preventivamente alcuni obiettivi, ma poi, per forza di cose, sono le truppe di terra che devono tenere le posizioni e conquistare altro territorio. E qui la faccenda si complica, perché a terra la Nato non scende (almeno per ora) e l’iniziativa tocca quindi agli oppositori libici; che però, a dire il vero, non mietono risultati straordinari, tutt’altro.
Le forze di Gheddafi si ritirano da alcuni centri solo quando vengono attaccate dai raid dell’aviazione occidentale; raid che vedono una modalità d’attacco al suolo preminente rispetto a quella dei primi giorni, ad indicare la tendenza a far evolvere le operazioni militari in chiave di minor protezione ai civili e maggior attacco ai nemici. Ma come già detto, non appena gli aerei si ritirano c’è però da occupare l’area, e qui nascono i problemi. Perché i rivoltosi, deboli in patria ma fortissimi nelle cancellerie occidentali, avanzano appunto aiutati dai raid aerei, ma indietreggiano quando si deve combattere a terra. E le truppe di Gheddafi rioccupano i territori e le città precedentemente abbandonate per sottrarsi ai raid aerei.
A ormai diversi giorni dall’entrata in guerra della santa alleanza per il petrolio, il quadro appare chiaro: per quanto si siano dannati l’anima nell’addestrarli, per quanto non abbiano lesinato nell’offerta di ogni bene bellico possibile, per quanto si siano impegnati nel fornire nozioni militari, gli istruttori delle SAS di sua maestà e la DGSE di Parigi, miracoli non ne fanno.
Non sono riusciti, perciò, a trasformare i fedeli monarchici senussiti, dediti agli affari e all’agricoltura, alla politica e al commercio, in combattenti capaci. Il ritratto identitario dei rivoltosi, del resto, era già noto: implacabili negli affari, incapaci nel combattimento.
E se la scena internazionale è dominata dalla discussione sulle caratteristiche dell’esilio per Gheddafi (che però per ora ad esiliarsi nemmeno ci pensa) anche sul fronte diplomatico interno la situazione non è rosea. Grazie all’adesione incondizionata alle mire francesi, i senussiti non riescono ad attrarre la tribù Warfalla, la più importante delle tribù libiche che, con qualche “se” e qualche “ma”, prodotti di un rapporto con Gheddafi non privo di contrasti, continua però ad appoggiare il Colonnello.
Dal punto di vista delle altre tribù c’è una logica: l’alleanza con Parigi di quelle della Cirenaica sbilancia notevolmente gli equilibri di potere nelle 140 tribù libiche a favore dei senussiti, che sono già interlocutore pressoché unico dell’Occidente.
Se la guerra dovesse terminare con la fine del Colonnello e la presa del potere da parte dei cirenaici, le tribù della Sirte, della Tripolitania e del Fezzan sarebbero quindi le prime a pagarne il conto in chiave di assetti di potere interno alla Libia. Viceversa, non essersi schierate con i senussiti significherebbe - in caso di vittoria del regime - poter porre in termini di peso ed influenza un’ipoteca pesante sul governo del paese, molto maggiore a quella fin qui avuta e decisamente schiacciante nei confronti delle tribù cirenaiche che verrebbero definitivamente messe all’angolo.
L’errore dei cirenaici è qui, fondamentalmente: accecati dalla loro avidità di potere e ansiosi di ristabilire supremazie e gerarchie nuove nella galassia delle 140 tribù libiche, non hanno consentito ad europei e statunitensi di aprire un canale di dialogo con le altre tribù del paese, riservandosi l’esclusiva nei rapporti diplomatici e mediatici internazionali e, a maggior ragione, nelle ipotesi di governo transitorio e nel programma dello stesso disegnato in questi giorni.
L’Occidente, dal canto suo, non appare unito dal cemento. Obama, ormai lanciato verso la sua avventura militare, nella speranza che gli arrivi un po’ di ossigeno politico nei suoi rapporti con i repubblicani, si dice “pronto a rifornire di armi i ribelli”; e anche Parigi si dice pronta, in quanto già disponibile a concedere ogni sorta di visto politico agli insorti. Ma il Pentagono appare più prudente.
Solo 48 ore fa, infatti, il Comandante della Nato in Europa, l’Ammiraglio statunitense James Stavridis, durante un’audizione presso la Commissione Forze Armate del Senato Usa, ha detto che si sta “esaminando con estrema attenzione l’entità, la composizione, le personalità di chi è a capo degli insorti libici”. Pare che la lezione afghana qualcosa abbia insegnato e gli Stati Uniti vorrebbero evitare di ritrovarsi ad avere a che fare con un problema molto più complicato di quello che avevano con l’ormai addomesticato Gheddafi.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Trecento studenti universitari assiepati nell'auditorium, si aprono i microfoni per le domande, dopo tre ore c'è chi vuole discutere. Non capita spesso, in America, di vedere tanti ragazzi appena maggiorenni tutti insieme, assetati di politica e di partecipazione: solo Ralph Nader può fare il miracolo! Con la scusa di promuovere il suo libro dal titolo provocatorio “Only the super-rich can save us!” (“Solo i super-ricchi possono salvarci!”), Nader gira le università americane e risveglia in migliaia di studenti la passione civile, quella che lui chiama “lotta per la giustizia.”
Arriva all'Università di Stony Brook, nei sobborghi di New York City, e persino dopo tre ore di dibattito serrato, alle undici sera, i ragazzi non lo vogliono mollare, persino i poliziotti di guardia sembrano a tratti voler prendere il microfono per dialogare con lui.
Candidato per ben tre volte alle elezioni presidenziali con il Green Party, Ralph Nader è una leggenda vivente (imperdibile il docu-film sulla sua vita “An unreasonable man”, un uomo irragionevole). Dopo aver ingaggiato negli anni Sessanta, solo contro tutti, una battaglia contro le case automobilistiche, che portò all'introduzione delle cinture di sicurezza e degli airbag, Nader per cinquant'anni ha continuato la sua lotta senza quartiere in difesa del cittadino e del consumatore. Portando a casa risultati in numero superiore a quello di qualsiasi altro uomo politico americano. Quando nell'incontro con gli studenti Nader accenna alla sua battaglia in difesa del consumatore, il moto spontaneo della platea è di alzarsi in piedi e di applaudire per un minuto intero.
La sua passione civile è contagiosa, un fiume in piena. Alla fine del dibattito la gremita folla di studenti sfoggia dei sorrisoni ed è pronta ad andare a manifestare di fronte a Wall Street per chiedere indietro i soldi del bailout. Perché, come dice Nader, “metà della democrazia è farsi vedere! Non c'è niente che impaurisca di più il potere della vista di cittadini normali che scendono in piazza.”
La maggior parte degli studenti, una volta raggiunto il microfono, sfrutta l'occasione per far conoscere il loro piccolo gruppo di attivisti. Per ognuno dei mille gruppi della galassia progressista, Nader ha cinque minuti di consigli su cosa fare e come farlo. Fino a che uno studente non gli porge la domanda delle cento pistole: “Con tutti questi gruppi diversi, chi è animalista, chi è ambientalista, chi femminista, la sinistra è sempre divisa. Come possiamo fare per evitare che le nostre energie vengano disperse e schiacciate?”
Nader non ha dubbi: “Anche chi non l'ha ancora capito, siete tutti già riuniti sotto un'unica bandiera: la lotta contro le giganti corporations.” La sua preoccupazione più grande è infatti far capire ai ventenni americani nel 2011 che la loro situazione è decisamente più drammatica di quella dei loro padri e nonni negli anni Sessanta.
Il segreto per rovesciare il declino è “alzare la barra delle proprie aspettative,” spiega. “Quando vi chiedete come facessero i vostri genitori a mantenere un'intera famiglia con un solo salario dipendente, mentre ora lo stesso lavoro non è sufficiente nemmeno per una persona sola, non piegate la testa rassegnati: è un vostro diritto avere di più! Alzate le vostre aspettative! Con che coraggio guarderete in faccia i vostri figli nella miseria tra vent'anni e direte loro che no, voi non avete lottato, vi siete arresi?”
Un altro studente gli chiede come fare per uscire dal monopolio politico di un paese spaccato a metà tra i cloni Democratici e Repubblicani. Secondo Nader, la strada è lunga e si chiama terzo partito, “anche se i Democratici non sono terribili come i Repubblicani. Però la gente ogni quattro anni li vota e dà loro tutto il tempo per diventarlo.”
La ricetta è cominciare dai Consigli Comunali, dove non servono ingenti finanziamenti e l'appoggio della tv per essere eletti. Per “scardinare la dittatura bipolare,” bisogna prima essere saldamente ancorati a livello locale e poi costruire un gradino alla volta la scala che porta verso Washington. Prima cosa, aprire contraddizioni nel Partito Democratico. A quel punto, se i Democratici continuano a fare il gioco delle corporations, allora la minaccia di spostare tutti i voti su un nuovo candidato indipendente è credibile. “Certo,” risponde Nader ad un altro studente, “se avessimo il sistema proporzionale come in Germania, ogni voto conterebbe. Non è un caso che in Germania i Verdi siano determinanti nella vita politica e infatti i tedeschi sono i primi al mondo nelle energie rinnovabili.”
Cosa fare ora con le centrali nucleari, dopo il disastro giapponese? “A cosa servono i reattori nucleari?” chiede Nader agli studenti: “Servono a far bollire dell'acqua. Possibile che per bollire dell'acqua dobbiamo rischiare di contaminare tutto attorno a noi in un raggio di cinquanta miglia, per duecentomila anni?
La centrale di Indian Point, la più vecchia degli Stati Uniti, costruita quarant'anni fa, è a trenta miglia da New York City. Il raggio di evacuazione è di cinquanta miglia. Non ci avete mai pensato? Non esiste alcun piano di evacuazione. Se fossi in voi, sarei molto preoccupato. Perché Hillary Clinton ha detto che vuole chiudere la centrale, e lei non è certo una di quelle persone che di solito creano problemi alle corporations dell'energia...”
L'ultima domanda è ovvia: i politici democratici a tutti i livelli se ne fregano dei gruppi di attivisti di base, a loro interessano solo i denari delle grandi aziende. Come fare per avere un peso politico tale da essere determinanti? Nader ne sa una più del diavolo.
Secondo lui è facile. Basta creare un piccolo comitato che spiattelli su internet, Facebook, Twitter, vita morte e miracoli di tutti i politici eletti nella propria circoscrizione. Tutti i loro voti, tutti i loro incontri, pubblici e privati, tutti i loro finanziamenti, tutte le loro dichiarazioni. “A quel punto, invece di ignorarvi, verranno da voi con il cappello in mano. È così che create il vostro potere!”