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di Emanuela Pessina
BERLINO. Lo scorso novembre, mentre la nave da addestramento della marina tedesca Gorch Fock si trovava nei pressi del porto di Salvador de Bahia, in Brasile, un’allieva ufficiale è caduta dall’albero delle vele ed è morta quasi sul colpo. L’incidente ha avuto conseguenze del tutto inaspettate: qualche giorno fa, la Gorch Fock ha interrotto il suo viaggio e l’intera ciurma è stata rimpatriata. Non è la prima volta che un cadetto muore durante l’addestramento militare, eppure, mai nella storia della marina tedesca si era arrivati alla sospensione della rotta. Cosa ha spinto il Governo tedesco a sospendere l’addestramento sulla Gorch Fock?
A quanto risulta da alcune testimonianze pubblicate solo di recente, le circostanze in cui è morta l’allieva non sono del tutto chiare e il fatto potrebbe aver creato tensioni tra cadetti e comando militare. In una lettera ufficiale, inviata al Ministero della Difesa tedesco e resa pubblica solo in questi giorni, l’equipaggio della Gorch Fock ha accusato gli istruttori di esercitare gli addestramenti con eccessiva pressione e violenza: si può dire che, indirettamente, i cadetti hanno incolpato il comando della morte dell’allieva ufficiale. I comandanti, per tutta risposta, hanno incriminato quattro aspiranti ufficiali di ammutinamento. Fatto sta che ora, sulla Gorch Fock, s’indaga ufficialmente, poiché serve chiarezza: l’ammutinamento potrebbe essere solo la punta dell’iceberg di uno scandalo ben più ampio.
Condizioni di estrema spossatezza, nonnismo esasperato, alcool e molestie sessuali sono solo alcune delle accuse che i cadetti hanno lanciato agli istruttori militari. Qualcuno fa notare che l’allieva ufficiale era troppo bassa per arrampicarsi sull’albero maestro: chi l’avrebbe obbligata a fare l’esercitazione se non c’erano i presupposti fisici necessari? Per quale motivo?
Alcuni testimoni raccontano che, pochi giorni dopo la morte della cadetta, sulla Gorch Fock si sarebbe tenuto un festino di carnevale con alcool e travestimenti, un party ritenuto dai cadetti di cattivo gusto dato il recente lutto. Altri, più in generale, parlano di riti d’iniziazione alla vita di marina molto simili a quelli delle peggiori prigioni del mondo, consuetudini che assomigliano a violenze sessuali vere e proprie.
Ancora poco chiari i primi risultati ufficiali delle indagini. La procura di Kiel, da parte sua, si è limitata a escludere la possibilità di pressioni esercitate sull’allieva: l’aspirante ufficiale era una cadetta estremamente motivata e non c’era alcun bisogno di incitarla a prendere parte alle esercitazioni, dicono i legali. A sostegno della tesi, il procuratore ha sottolineato la passata carriera da sottoufficiale di marina della ragazza.
Eppure, i media tedeschi già riportano la notizia del licenziamento del capitano della Gorch Fock, Norbert Schatz, in seguito alle informazioni rilasciate dall’equipaggio. Decisione che non ha mancato di lasciare a bocca aperta gli ufficiali della marin tedesca, che non si aspettavano tanta risoluzione. La Gorch Fock, per il momento, naviga in acque poco chiare (è il caso di dirlo) e il suo destino rimane avvolto dalla nebbia.
E ora il Governo tedesco pretende spiegazioni chiare ed esaurienti dal ministro della Difesa, Karl-Theodor zu Guttenberg (CSU). Sembra difficile credere che Guttenberg non sapesse nulla dell’accaduto e che ne sia venuto a conoscenza solo ora tramite stampa: perché, dunque, finora non sono stati presi provvedimenti al riguardo? L’opposizione già accusa il ministro cristianosociale di tentato insabbiamento. Gutteberg, tra l’altro, è attualmente al centro di un secondo scandalo della stessa natura: si tratta di un soldato di 21 anni morto il 17 dicembre scorso nel nord dell’Afghanistan per un colpo d’arma da fuoco sparato involontariamente durante un’esercitazione.
Per diverse settimane, una vaga versione ufficiale ha parlato del coinvolgimento di due commilitoni nell’incidente delle province afghane. Ora risulta che, nella stessa zona, qualcuno ha aperto la posta in partenza dei soldati tedeschi: i più maliziosi mettono in relazione gli avvenimenti e sospettano che il ministero abbia voluto controllare le informazioni in uscita per evitare la diffusione di informazioni scomode. Anche perché, in questi giorni, i giornali parlano di più di dieci persone presenti all’attentato, possibili testimoni di cui finora non si è avuta notizia. E in Afghanistan, purtroppo, non c’è nessun capitano Schatz che possa fare da capro espiatorio.
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di Michele Paris
Mantenendo una promessa fatta in campagna elettorale sotto le pressioni dei Tea Party, qualche giorno fa il Partito Repubblicano alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha votato all’unanimità per l’abrogazione della riforma del sistema sanitario firmata da Obama nel marzo 2010. L’iniziativa della nuova maggioranza nel ramo più basso del Congresso americano non è in realtà che una mossa puramente simbolica. Gli equilibri di potere usciti dopo le elezioni di medio termine dello scorso novembre minacciano però un possibile ulteriore ridimensionamento di una legislazione che già nella sua forma attuale farà ben poco per aggiustare un sistema sanitario totalmente al servizio del profitto privato.
Il testo presentato dalla leadership repubblicana alla Camera, significativamente chiamato “Repealing the Job-Killing Health Care Law Act”, è stato approvato con 245 voti a favore e 189 contrari, con tre deputati democratici che si sono uniti alla maggioranza. Nonostante il passaggio senza difficoltà del provvedimento, esso non ha praticamente alcuna possibilità concreta di cancellare interamente la faticosa riforma voluta da Obama e dai democratici. Questi ultimi, infatti, conservano una sia pur risicata maggioranza al Senato, dove è probabile che il testo appena licenziato dalla Camera non verrà nemmeno discusso. Anche nell’eventualità di un voto favorevole del Senato, comunque, il presidente avrebbe sempre a disposizione l’arma del veto per bloccarne l’entrata in vigore.
L’intero dibattito sulla controversa riforma sanitaria e lo zelo dei repubblicani testimoniano a sufficienza dell’isteria esplosa da subito attorno ad uno dei nodi centrali della campagna elettorale di Barack Obama per la Casa Bianca nel 2008. Le critiche che provengono da destra alla cosiddetta “Obamacare” continuano a sottolineare una eccessiva quanto improbabile intrusione del governo nel settore della sanità, tanto che alcune voci più estreme tra i repubblicani, come la deputata del Minnesota e beniamina dei Tea Party, Michele Bachman, l’hanno assurdamente definita un perfetto esempio di “medicina socializzata”.
Oltre a ciò, i repubblicani sostengono di temere un aumento vertiginoso del debito pubblico e lo spiacevole effetto collaterale della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, dal momento che, a loro dire, molte aziende saranno costrette a licenziamenti di massa perché non in grado di fornire la copertura ai loro dipendenti. In realtà, per le aziende non è contemplato alcun obbligo di offrire un piano di assistenza ai lavoratori, bensì sono previste sanzioni molto modeste per quei datori di lavoro che decideranno di non farlo.
Per quanto riguarda l’aumento del debito pubblico, le stime che i repubblicani continuano a propagandare impunemente si basano su studi promossi da organizzazioni e think tank di parte. L’unica fonte imparziale, l’Ufficio per il Bilancio del Congresso (CBO), incaricato di valutare in maniera indipendente l’impatto sulle casse federali delle varie leggi in discussione, ha confermato che la riforma di Obama contribuirà a far abbassare il deficit pubblico nel prossimo decennio, tagliando i costi nel settore sanitario - e di conseguenza anche i servizi - per 143 miliardi di dollari.
Nel complesso l’intera legislazione, che sarà attuata interamente a partire dal 2014, ben lontana dall’avere anche solo qualche traccia di socialismo, si basa pressoché del tutto sul settore privato. Scomparsa quasi subito dalla discussione politica l’ipotesi dell’istituzione di un piano pubblico universale, l’allargamento della copertura sanitaria previsto dal compromesso finale partorito dal Congresso si fonda in parte su una relativa espansione del popolare programma gestito dal governo federale, Medicaid, ma soprattutto sullo stanziamento di limitati sussidi per i redditi più bassi che dovranno ricorrere a polizze private.
I contenuti della legge che più stanno contrariando i repubblicani sono il divieto imposto alle compagnie assicurative private di negare la copertura ai cittadini con malattie pregresse e, in particolare, il mandato obbligatorio che imporrà a tutti gli americani di acquistare una polizza sanitaria, ancorché privata. Quest’ultimo aspetto della riforma è ritenuto da molti, soprattutto a destra, palesemente incostituzionale ed è già causa di procedimenti legali di fronte a svariate corti federali. Con ogni probabilità, la controversia verrà risolta dalla Corte Suprema nel prossimo futuro.
Consapevoli di non avere praticamente nessuna chance di revocare per il momento la riforma di Obama, i repubblicani promettono una battaglia a dir poco aggressiva su elementi specifici della legislazione stessa, come appunto l’obbligo di acquisto di un’assicurazione sanitaria. Per di più, la maggioranza alla Camera ha già annunciato di voler ostacolare lo stanziamento dei fondi destinati a quegli organismi federali incaricati a breve dell’implementazione dei vari elementi della riforma.
Al di là della diatriba tra democratici e repubblicani, a ben vedere le posizioni dei due principali partiti americani sulla questione della sanità appaiono molto più vicine di quanto possa apparire. Entrambi, infatti, concordano in pieno sul fatto che l’obiettivo primario di qualsiasi intervento legislativo in quest’ambito debba mettere al primo posto il contenimento dei costi.
Praticamente nessuno all’interno del Congresso mette poi in discussione la prevalenza assoluta del settore privato e la salvaguardia dei profitti delle grandi compagnie che dominano il mercato e che di fatto contribuiscono a finanziare la politica di Washington. Per questo, non deve sorprendere che sia scomparso anche solo qualsiasi lontano accenno alle cure sanitarie come diritto universale di tutti i cittadini e, come tale, garantito da un sistema pubblico.
La sostanziale conformità di vedute di maggioranza e opposizione è confermata poi dalle recenti aperture mostrate dalla Casa Bianca e da alcuni senatori democratici nei confronti dei repubblicani. Obama e i suoi compagni di partito si sono detti disposti a discutere di possibili modifiche alla riforma. Alcune proposte che potrebbero trovare un consenso bipartisan prevedono così nuovi tagli alla spesa sanitaria, ma anche limiti severi al diritto dei pazienti di denunciare i medici nei casi di malasanità e ulteriori restrizioni al finanziamento pubblico per le interruzioni di gravidanza.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Dieci chilogrammi di tritolo esplodono nel nuovo aeroporto “Domodedovo”. Sono le 16,40 ora di Mosca (le 14,40 italiane). E’ una strage. A terra restano 35 vittime squarciate dalle schegge, 130 i feriti gravi. L’intero edificio - è la zona della consegna dei bagagli delle linee internazionali - è ridotto a un cumulo di rovine. Il caos è incredibile. Migliaia di persone si aggirano tra gli spezzoni della struttura di cemento armato, tra corpi dilaniati e bagagli sventrati. Tutto questo mentre la polizia - in un clima da apocalisse - cerca di arginare la folla.
Intanto sul posto, per i primi soccorsi, sono all’opera oltre duecento uomini dei servizi di sicurezza dell’aeroporto, i medici della Croce Rossa e i Vigili del fuoco. E dalla grande arteria, quella che unisce “Domodiedovo” alla capitale snodandosi tra la boscaglia, arrivano colonne di automezzi militari, auto della polizia e decine di ambulanze mobilitate per questa tragedia nazionale. E’ difficile, impossibile, farsi largo in questo caos.
Ovunque urla e pianti con la polizia che cerca di fare ordine in questa notte moscovita, fredda e tragica. Con la luce dei riflettori che sbatte in faccia la realtà e con il sangue che colora la neve. Nelle sedi ufficiali del potere, intanto, comincia l’altalena delle ipotesi, degli ordini per le indagini, del coordinamento dei soccorsi. Medvedev (che ha deciso di rinviare la sua partenza per Davos, dove era atteso per tenere il discorso che mercoledì avrebbe aperto l’edizione 2011 del World Economic Forum) convoca una riunione d’emergenza e parla in diretta alla tv, rendendo noto che stando alle informazioni ricevute dagli organi della sicurezza quanto avvenuto all’aeroporto “é un atto terroristico”.
E di conseguenza viene dichiarato lo stato d’assedio in tutti gli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie dell’intero paese. Subito si da il via ad un “regime di sicurezza speciale” che investe anche la metropolitana di Mosca, che porta ancora i segni di quell’attentato del marzo scorso quando morirono 49 passeggeri coinvolti in una serie di tragiche esplosioni.
I servizi della sicurezza statale, l’FSb, intanto ipotizzano che la bomba di “Domodedovo” (due esplosioni) sia opera di un gruppo di kamikaze. Ci sarebbero tre ricercati. Lo rende noto Vladimir Markin, un alto graduato che si occupa delle indagini sul posto e al quale fanno riferimento gli agenti delle sicurezza. L’attenzione degli inquirenti si concentra sui tanti “caucasici” che vivono nella capitale e che sono scesi in campo contro i nazionalisti russi. Si aggiunge così - se questi fatti venissero confermati - una tragedia nella tragedia.
Prende il via una lotta bestiale per il controllo del territorio. E in questa situazione è difficile stabilire la verità. Perchè la Mosca di queste ore rischia di cadere nella “trappola” delle vicende nazionaliste, dei contrasti tra russi e non russi. Tutto avviene anche per il fatto che l’aeroporto di “Domodedovo” è proprio quello che segna il transito dalle repubbliche asiatiche e caucasiche.
Intanto si mobilita anche l’ambasciata italiana a Mosca. Si verifica, attraverso le strutture consolari e le agenzie di viaggi, se vi sono italiani tra le vittime. E questo pur se a “Domodiedovo” - di regola - non fanno scalo gli aerei che provengono dall’occidente e dall’Italia in particolare. Ora, mentre tutti gli ospedali della capitale sono presi d’assalto, Mosca vive il lutto e si appresta a registrare una notte di paura. Dal ministero degli Interni arriva la direttiva di controllare tutte le persone sospette, di tenere sotto controllo gruppi ed associazioni che operano nell’illegalità. Sono solo i primi ordini, le prime indicazioni. Dove porteranno e come evolveranno è presto per dirlo.
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di Carlo Musilli
I manifestanti superano il cordone di poliziotti, sfondano la cancellata ed entrano nel giardino. Di fronte a loro, il palazzo del governo. Le forze dell'ordine sono schierate in difesa del primo ministro, Sali Berisha. Sono armati di manganelli, idranti, gas lacrimogeni e pistole. Qualche pallottola viene sparata anche dai civili. Alla fine la polizia riprende il controllo della piazza e allontana i dimostranti. Uno di essi cade, ucciso dai colpi di un militare. Doveva essere l'ennesima protesta pacifica, ma stavolta i viali di Tirana si sono sporcati di sangue. Il bilancio è di tre morti e quasi 60 feriti.
Ad organizzare la manifestazione è stato Edi Rama, leader dell'opposizione socialista e sindaco della capitale albanese. Circa ventimila persone hanno aderito al suo appello per chiedere le dimissioni di Berisha e nuove elezioni. Il clima politico in Albania è diventato insostenibile dopo lo scandalo che ha travolto Ilir Meta, vicepremier e ministro dell'Economia. A tradirlo è stato un suo ex alleato, Dritan Prifti, fino a non molto tempo fa membro del Movimento socialista per l'integrazione, che ha dato al governo i voti necessari per conservare la maggioranza in Parlamento.
Il caso è scoppiato martedì scorso, quando la televisione privata Top Channel ha trasmesso un video, risalente al primo marzo, in cui Meta chiedeva a Prifti di annullare le concessioni per la gestione di una centrale idroelettrica, in modo da favorire un'altra azienda. In cambio, avrebbe intascato una tangente da 700 mila euro. Il vicepremier si è difeso sostenendo che quell'azienda alla fine non ha ottenuto nulla e che il video è stato montato ad arte per incastrarlo. Ma quando la procura ha aperto un'indagine contro di lui, Meta ha rinunciato all'immunità parlamentare e si è dimesso.
Lo scandalo è stata la miccia che ha fatto esplodere gli scontri di piazza, ma si tratta solo delle ultime puntate di un telenovela iniziata molto prima. Da un anno e mezzo, infatti, i socialisti di Rama boicottano il parlamento in segno di protesta contro l'esecutivo del Partito Democratico. Per loro, Berisha è un presidente illegittimo, eletto alle politiche del giugno 2009 soltanto grazie a brogli e irregolarità di vario genere. E il governo non ha mai autorizzato il riconteggio delle schede.
In realtà, per comprendere le ostilità di oggi è necessario risalire ancora più indietro nel tempo. La storia di Sali Berisha ai vertici della politica albanese inizia nel 1992, quando diventa il primo Capo di Stato non comunista del dopoguerra. Si dimette nel 1997, colpito dall'accusa di essere coinvolto nella maxi truffa delle finanziarie a piramide (un classico "schema Ponzi", come quello usato dieci anni dopo negli Usa da Bernard Madoff). L'anno seguente, i militanti del suo partito tentano il colpo di stato assaltando la sede del nuovo governo socialista, ma falliscono. Berisha torna in scena nel 2005, stavolta come primo ministro. Attualmente è al secondo mandato consecutivo.
Nonostante le difficoltà incontrate lungo il cammino, Berisha ha dimostrato in questi giorni di non aver ancora perso il piglio del leader carismatico. Con una mossa rozza nello stile quanto efficace nella demagogia, ha pensato bene di paragonare le azioni dei suoi oppositori agli scontri che da settimane flagellano il nord Africa. Assecondando anche una certa propensione all'insulto, si è rivolto ai suoi elettori con un monito: "I figli bastardi dei Ben Ali dell'Albania hanno concepito scenari tunisini per voi, cittadini dell'Albania", specificando poi che "non saranno tollerate altro violenze".
Dal canto loro, i socialisti hanno voluto sottolineare che le proteste di questi giorni non hanno solamente un movente politico. Non è solo la corruzione del governo a far agitare le masse, ma soprattutto la sua incapacità a risollevare le sorti economiche del paese. Secondo i dati forniti dal partito, solo nell'ultimo anno sarebbero 100 mila le famiglie scese sotto la soglia di povertà, il che significherebbe almeno 400 mila persone. Nel frattempo le tasse aumentano e le imprese chiudono.
Un quadro desolante, che giustifica la decisione dell'Unione Europea di respingere la richiesta d'ammissione albanese. Il responso è arrivato a fine 2010, allegato ad una lista di 12 azioni da mettere in campo per continuare a sperare: prima fra tutte, la lotta alla corruzione. Dopo i recenti fatti di sangue, lo sguardo di Bruxelles si è fatto ancora più severo. Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera, e Stefan Fuele, commissario all'allargamento dell'Ue, hanno fatto sapere che "se l'Albania vuole procedere nel suo cammino verso l'Europa, si deve impegnare in un dialogo costruttivo per risolvere la sua crisi e mobilitare tutte le energie del paese verso questo fine". Intanto, le manifestazioni continuano, non solo da parte dei socialisti: mercoledì scenderanno in piazza i sostenitori di Berisha.
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di Giuliano Luongo
Da qualche anno a questa parte, come tristemente sappiamo, i paesi del cosiddetto “nord” del mondo stanno sviluppando una sempre più crescente fobia con tendenze violente verso la figura dell’immigrato, clandestino o meno. Questa categoria di soggetti “pericolosi, inquietanti e sovversivi” viene respinta con i modi strategicamente e politicamente più fantasiosi. Di recente è in voga una tattica alquanto stupefacente nella sua semplicità, o idiozia: quella dei muri. Ha iniziato Israele, per tener lontani i palestinesi; ha continuato l’Egitto, per tenere lontani un po’ tutti, sub-sahariani compresi; ci hanno pensato anche gli Stati Uniti, per tenere lontano i messicani.
Ora è il turno della Grecia. Esatto, la Grecia. Dopo aver deliziato la Comunità con una crisi leggendaria, raggiunta con un abile mix di politiche domestiche incompetenti e sgambetti da oltreoceano, il governo di Atene ha deciso, con l’inizio dell’anno nuovo, di far costruire un muro lungo “appena” 13 kilometri (e alto 3 metri) sul confine turco; per essere più precisi, sul quel tratto di confine con la Turchia ove il transito di migranti clandestini è maggiore e - almeno a quanto si dice dai palazzi del potere dell’ex-patria della dracma - eccessivo e incontrollabile.
Parole d’insofferenza hanno testimoniato lo stato dell’umore degli ufficiali greci nei confronti dell’immigrazione dalla Turchia (“ La Grecia non ne può più”) che hanno caratterizzato la lapidaria dichiarazione del Ministro per la protezione dei cittadini Christos Papoutsis, che ha spiegato al mondo il perché di quest’azione di forza, o almeno ci ha provato. In pratica, le motivazioni ufficiali comprendono un aumento del livello di cooperazione con l’Unione Europea nella lotta all’immigrazione clandestina e la volontà di placare la “voce del popolo”, stanco dell’irrefrenabile flusso di migranti che finisce per intasare le coste elleniche. Mah.
Invero, va detto che la migrazione clandestina che usa la Turchia come paese di transito ha raggiunto livelli elevati: si pensi che da gennaio a novembre 2010 hanno saltato il confine quasi 128mila sans papiers. E’ vero inoltre che la “questione di confine” greco-turca continua a far male dal 1919, e che il confinante dell’Asia Minore ha sempre rappresentato una sorta di rivale ed avversario non solo politico-economico, ma soprattutto sociale e culturale; ma in ogni caso ci troviamo di fronte ad una misura di carattere estremo che mal si concilia con lo spirito di un paese teoricamente democratico ed europeo.
E la cosa diviene ancor più comica di fronte alla realtà della tragica mancanza di competenza in fase di preparazione e messa in atto di qualsivoglia attività di sorveglianza: ogni aspetto della gestione delle frontiere faceva - e fa tutt’ora, muri o meno - acqua da tutte le parti, tant’è che da Bruxelles erano già state prese misure di supporto dalla fine di ottobre 2010. L’Unione ha infatti già attivato il Frontex per supportare i pattugliamenti frontalieri nelle aree greche più a rischio, tra cui appunto quella a sud del fiume Evros, dove sorgerà l’infame ammasso di mattoni. Con circa un paio di mesi di sorveglianza congiunta si è arrivati ad ottenere un abbassamento del 44% delle migrazioni clandestine: risultato oggettivamente spettacolare, ottenuto con sole 200 unità di personale competente extra. Unico neo: l’Unione voleva “impegno degli stati (Grecia e Turchia appunto)” per migliorare la situazione, ed in ogni caso il ritiro delle truppe avverrà a febbraio.
E da qui, l’idea del governo di Atene: non perseverare nell’uso di milizia addestrata, ma avviare la costruzione di un bunker egeo. Sono state miste le reazioni dal continente: mentre da Bruxelles sono state numerose le perplessità al riguardo - benché non incanalate in una critica mirata, unita o quantomeno decente - da Parigi e Berlino è giunto un discreto apprezzamento per l’iniziativa greca: atto molto utile a mostrare tanto il livello di divisione dell’Unione quanto la volontà di dare un ennesimo segnale ai turchi di stare fuori dalla territorio comunitario. Interessante notare come nemmeno da Ankara si siano levate voci rabbiose: nonostante in ambito governativo siano state sollevate alcune perplessità - specie riguardo accuse indirette di facilitare l’immigrazione clandestina - la risposta alla costruzione del muro è stata un rilassato “no problem”.
Proprio il leader Erdogan, infatti, ha dichiarato che “sarebbe sbagliato chiamare la struttura progettata “un muro, è solo una barriera”, per poi aggiungere che entrambe le parti hanno fiducia l’una nell’altra. Ma torniamo a tre parole fa: “non è un muro, è una barriera” che tipologia di commento è? Nessuna, non è nemmeno un commento. Meglio: non ha senso. D’accordo che, dopo aver visto i dati sull’immigrazione dal suo paese si è preoccupato, ma fingere di usare sinonimie e sottigliezze semantiche non è certo un commento politico sensato. O meglio: è il commento politico di un leader che vuole mostrare “benevolenza” verso l’organizzazione regionale nella quale brama di far entrare da tempo il suo paese, ed al contempo che vuole dare un segnale contro l’immigrazione, senza andare troppo per il sottile.
Ma almeno una voce fuori dal coro c’è stata, proveniente da sede ONU: l’UNHCR (Alto Commissariato per i Rifugiati) ha dichiarato forti perplessità in merito, con riferimento ai possibili danni ai rifugiati politici, i quali finirebbero per subire lo stretto trattamento dei clandestini, e soprattutto in merito al fatto che la via più sensata sarebbe stata quella di continuare con azioni di polizia (come del resto il Frontex aveva mostrato possibile). Subito da Atene c’è stata risposta: il governo greco “non ci sta” alla “ipocrisia” di Bruxelles e delle Nazioni Unite, adducendo poi altre motivazioni bislacche che per decenza evitiamo di riportare. Fatto sta che la decisione, in data 19 gennaio, sembra essere ufficialmente passata e, pertanto, tempo qualche mese, avremo davvero questa “barriera che non è un muro”, pronta a rinsaldare le mura di cinta di quella che la stampa indipendente già da anni chiama “fortress Europe”.
E’ chiaro che, dopo l’innegabile contributo al fallimento dell’economia europea, la Grecia ha ben cercato di “riscattarsi”, “aiutando” l’Unione su di un tema spinoso, quello dell’immigrazione eccessiva. Da Atene stanno cercando di mostrare non solo i muscoli a turchi e migranti, ma anche la loro disponibilità a mostrarsi qualcosa di diverso da un paese periferico inutile, buono solo a risucchiare fondi strutturali.
Assurdo a dirsi, i due colossi free riders dell’Unione hanno dato il loro appoggio, galvanizzati dal mettere un’ennesima barriera - stavolta fisica - tra l’Europa e gli “invasori musulmani”. Siamo davanti all’ennesimo assurdo di propaganda di politica forte e delle “azioni ad effetto”, che non vede come soluzioni meno “clamorose” siano di fatto più efficaci: bastava poco ad adottare strategie del Frontex, assumere guardiani invece di “muratori” ed il gioco sarebbe stato fatto, senza ulteriori effetti in tema di immagine internazionale. Sullo sfondo, rimane il tema dello spauracchio che viene dal Vicino Oriente, nella forma dell’infiltrazione islamica, che deve ricevere dei respingimenti da ogni dove e in qualunque modo.