di Emanuela Pessina

BERLINO. I neonazi si sono impossessati di Jamel, un minuscolo villaggio dell’ex-Germania dell’Est e, a quanto pare, le autorità autoctone hanno rinunciato a combatterli. Nonostante il fenomeno sia ancora di proporzioni estremamente limitate, la questione ha già risvegliato i campanelli d’allarme dei sociologi più vigili. Perché qualcuno vede nella grottesca situazione di Jamel il simbolo della crescente influenza dell’estrema destra nell’ex-Repubblica Democratica Tedesca (RDT): un’influenza che va a rispecchiare un disagio, quello dei cittadini, non ancora risolto dopo oltre vent’anni dalla caduta delle dittature comuniste.

Jamel si trova sulle coste del mar Baltico, nella zona rurale del Meclemburgo Pomerania (Nord-Est della Germania). Il Partito Nazionaldemocratico Tedesco (NPD) è nel parlamento regionale dal 2006 con una percentuale del 7.8% e, a quanto risulta da testimonianze rilasciate a giornali autorevoli quali Der Spiegel, da allora le azioni vandaliche di estrema destra sono all’ordine del giorno. Negli ultimi tempi si è addirittura registrata una serie di attacchi diretti ai politici di tutti i partiti democratici che non siano NPD.

Qualche anno fa, Jamel era un piccolo comune come gli altri. Unica curiosità, ci  viveva Sven Krueger, un militante neonazi già conosciuto nell’ambiente di estrema destra, e non solo. Nel 2009 Krueger ha tentato di candidarsi al parlamento locale del Meclemburgo Pomerania nord-occidentale tra le fila di NPD e ora fa ufficialmente parte del Consiglio locale: lo sdegno della Repubblica federale non si è fatto attendere. Negli anni ‘90 Krueger é stato più volte condannato per disturbo dell’ordine pubblico, assalto a un’osteria e per la provocazione di una rivolta in prigione: un passato troppo controverso per reinvenstarsi candidato politico. Inoltre, nel 2003, Krueger ha addirittura tentato di formare politicamente un proprio gruppo armato: le accuse non sono andate a buon fine per insufficienza di prove, ma la situazione di Jamel sembra dare loro credito.

Perché a Jamel i ragazzi, per strada, si rivolgono ai visitatori con il saluto nazista. Il gruppo di neonazi cui fa capo Krueger sta cercando di creare nella frazione una National befreite Zone, un’area nazionale “liberata”. In gergo, la locuzione sottintende una zona libera dagli stranieri. Secondo quanto riporta il settimanale Der Spiegel, gli estremisti avrebbero comprato sette case su dieci e cacciato via tutti i “dissidenti” con attacchi vandalici e psicologici. La celebrazione pubblica del compleanno di Adolf Hitler e una svastica sul cartello d’ingresso al paese sono solo alcune delle tradizioni del villaggio. 

Krueger, fra l’altro, è proprietario di un’impresa di demolizione il cui simbolo è una stella di David fatta a pezzi. Secondo alcuni testimoni, tra cui il sindaco Uwe Wandel, l’azienda smaltisce rifiuti e brucia immondizia in maniera illegale, senza che nessuno sia in grado di prendere provvedimenti. Oltre a preda ideologica dell’estremismo di destra, quindi, il villaggio di Jamel è diventato una specie di zona franca dove la legge non è uguale per tutti.

Per qualcuno, Jamel è diventata il simbolo della crescente influenza dell'estrema destra nelle regioni dell'ex-Germania comunista, l’ex-Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Il fenomeno, per ora, è limitato a una piccola frazione ai margini settentrionali dello Stato tedesco, una zona rurale facile da ignorare. E tuttavia, l’incertezza cresce: l’ex-RDT è una zona risaputamente sensibile alle ideologie neonazi e i più prudenti temono che la loro influenza possa diffondersi ulteriormente.

Tra il 2000 e il 2005, l'ex-Germania dell’Est registrava già il 44 % dei delitti politici di matrice neonazista, con appena il 19% della popolazione dell'intero Paese. Qualche anno dopo la caduta del Muro, gli estremisti di destra indicavano in rete ben venticinque città dell'Est come "libere da stranieri", centri quindi da porre sotto il controllo dei sostenitori della supremazia razziale. Fatto sta che nell’ex-RDT le dottrine neonaziste hanno trovato suolo fertile per radicarsi più profondamente che in altre zone.

Qualcuno riconduce il fenomeno alle condizioni di vita meno agiate offerte ancor’oggi dai Paesi un tempo d’oltre Cortina. I più maligni accusano la società moderna di non aver saputo accompagnare e sostenere i cittadini nel passaggio dagli Stati socialisti all’attuale capitalismo. Altri fanno riferimento al vuoto lasciato da un’ideologia forte come il comunismo, un vuoto che la società di mercato contemporanea non ha saputo - o potuto - colmare.

Bisogna ammettere che la realtà è finta senza idee per interpretarla e progetti per cambiarla e, d’altra parte, che gli uomini sono nulla senza l'anima. Perché il sogno del libero mercato s'é infranto contro l'esclusione dal mercato e l’unificazione ha riguardato le banche e le imprese, non le persone. Che ad ovest continuano a vivere più e meglio che ad est. O forse aveva ragione un tedesco eccellente come Bertolt Brecht, che commentando la caduta del nazismo ammoniva: “La bestia é morta, ma il ventre che l’ha partorita é ancora gravido”.

 

di mazzetta

Fugge il dittatore dalla Tunisia e il potere resta nelle mani del suo primo ministro, di un ristretto comitato di sei persone e dell'esercito, che ha chiuso lo spazio aereo del paese e occupato l'aeroporto di Tunisi. Poche ore e il potere passa al presidente della Camera Bassa, su indicazione della Corte Suprema, che decide per le elezioni generali entro sessanta giorni. Riaprono i porti e gli aeroporti, ma non finiscono le violenze; adesso sono le prigioni il nuovo catalizzatore della rivolta e anche ieri sono morti decine di tunisini. Bande di partigiani di Ben Alì si sono prodotti in aggressioni e atti di violenza, ma il fenomeno non sembra diffusissimo. Ai tunisini in rivolta non ha ancora arriso la vittoria, il potere passa in mano a chi lo detiene da sempre, vola via il dittatore a fungere da capro espiatorio lontano e restano al potere quelli che avevano fatto carriera e si erano arricchiti alla sua ombra.

Fa belle promesse il nuovo governo provvisorio, parla di multipartitismo e di elezioni libere, di libertà di stampa e d'espressione; ma è lo stesso governo che ha sparato sui manifestanti, è la stessa elefantiaca burocrazia messa in piedi dalla dittatura per spiare e reprimere i tunisini fin dall'indipendenza dalla Francia. A un padre della patria era seguito nel 1987 il repressore in capo, che, anche allora, aveva promesso riforme che nessuno ha più visto.

Ben Alì giunse al potere grazie all'aiuto dei servizi italiani, allora alle dipendenze di Craxi, un piccolo dispetto alla Francia che varrà ai socialisti italiani l'imperitura gratitudine del dittatore ora fuggiasco. Gratitudine ricambiata, se è vero che il Ministro degli Esteri italiano Frattini (un tempo craxiano) ha schierato il nostro paese accanto alla dittatura nonostante le dure condanne espresse da Unione Europea e Stati Uniti. Unica al mondo l'Italia. La Francia che in Tunisia regge il gioco da sempre, si è trincerata nel mutismo e nelle non-dichiarazioni. Della fuga di Ben Alì Parigi ha solo “preso atto”, l'Italia invece ha colto l'occasione per spendere parole di stima per la dittatura.

Non poteva mancare il Sottosegratario agli Esteri Stefania Craxi, che ha usato per il dittatore le parole che i mussoliniani usano ancora oggi per Mussolini: “Io credo che la storia ridarà al presidente Ben Ali i meriti del presidente Ben Ali, che comunque ha consentito in questi anni al Paese di avere uno sviluppo economico, un progresso civile e sociale”. E non poteva mancare suo fratello Bobo, che in qualità di rappresentante per la politica estera del PSI ha affermato che la Tunisia è “un Paese che è stato un modello esemplare nell'ambito del mondo arabo”. Impossibile aspettarsi qualcosa di diverso dai figli e dai miracolati di Craxi, che da Ben Alì fu ospitato e protetto dalla giustizia italiana durante la sua latitanza.

Peccato che questa sia anche la posizione ufficiale dell'Italia, agli occhi dei tunisini come a quelli dei confederati europei. Quasi tutti i media italiani hanno aspettato la fuga di Ben Alì per definirlo dittatore; un cambio tempestivo dopo che per oltre vent'anni era stato definito Presidente e descritto come un abile politico che faceva del bene al suo paese nonostante i modi un po' bruschi. Ma non è che le opposizioni brillino per attenzione: il popolo tunisino non è esattamente in cima ai pensieri dei politici e dei grandi media italiani, nessuno dei quali (ancora) ha accennato a schierarsi dalla parte dei rivoltosi e neppure osato definire dittatore Ben Alì.

Eppure era facile. Non bastavano le amicizie di Berlusconi con i peggiori dittatori, ci voleva anche la difesa oltre il tempo massimo della disgrazia del giorno, decisamente maldestra e per nulla utile al paese. Forse nemmeno utile a conservare l'unica concessione televisiva mai concessa dalla Tunisia a stranieri, Berlusconi potrebbe vedere la sua Nesma TV andare a fondo insieme al capitano della barca, se solo i tunisini avranno il tempo di fare il conto degli amici e dei nemici della loro rivoluzione popolare.

Rivoluzione che dopo la cacciata del tiranno diventa quanto mai incerta e aperta agli esiti più imprevedibili. Potrebbe essere una rivoluzione relativamente dolce, non fosse che per ridare il potere al popolo tunisino ci sarebbe da spogliare dei beni accaparrati i personaggi più influenti del paese e bonificare con severità la terribile burocrazia pubblica e gli apparati repressivi. Operazioni che troveranno sicuramente la contrarietà di chi ancora oggi il potere lo detiene e che potrebbe essere tentato dall'usarlo per difendere capitali e privilegi o guidare le annunciate elezioni verso la conservazione, in fondo alle ultime elezioni Ben Alì aveva fatto il pieno, non è certo gente che s'imbarazza a truccare il voto.

Ora come non mai il popolo tunisino avrebbe bisogno di sentire la vicinanza e la solidarietà della sponda settentrionale del mediterraneo, il calore e la vicinanza dei francesi e degli italiani, ma non accade. L'Occidente politico non riesce a fraternizzare con i popoli dell'Africa del Nord perché da troppo tempo è schierato accanto alle autocrazie che lo opprimono. Dalla triste - e molto poco democratica - monarchia marocchina, passando per il regime algerino e le ormai antiche dittature di Tunisia, Libia ed Egitto, leader impresentabili sono retribuiti, armati e sostenuti nel loro dominio sui rispettivi popoli, ai quali vengono negati i più elementari diritti civili, persone per le quali i diritti umani sono un concetto astratto che vale per altri, altrove.

Una volta si spacciava questo sostegno come il male minore, meglio una dittatura di un paese nell'orbita sovietica ai confini. Poi le dittature divennero un male sopportabile per non vedere l'estremismo islamico dilagare ai confini, quell'estremismo islamico nutrito ovunque, non solo in Afghanistan, in funzione anticomunista proprio dall'Occidente e dagli alleati più allineati, su tutti i paesi europei, Israele ed Arabia Saudita. Il grande successo di Khomeini in Iran scatenò ovunque tentativi di emulazione. L'estremismo islamico era riuscito a dirottare la rivoluzione iraniana contro lo Shah di Persia, feroce despota filo-occidentale; il terrore rivoluzionario si era concretizzato nel massacro dei comunisti e nella presa del potere da parte di una rassicurante élite reazionaria, chiudendo ai sovietici la porta per il Golfo Persico.

Inutile dire che la minaccia islamica è stata notevolmemente sopravvalutata e che, dal 2001, i regimi del Nord Africa si sono fatti più duri: da allora non ci sono più stati oppositori o avversari politici, chi era contro il governo era un “terrorista” o complice dei terroristi, ogni genere di legge speciale è stata giustificata per “combattere il terrorismo. Il Patriot Act ha fatto scuola, gli Stati Uniti hanno dato l'esempio, la democrazia si può sospendere, cancellare, basta dire che serve a combattere il malvagio nemico. Peggio che ai tempi della Guerra Fredda.

Dal 2001 in poi è stata una strage delle libertà fondamentali in questi paesi e solo oggi, complice anche la crisi che li ha colpiti in maniera devastante, sembra sollevarsi il coperchio che ha trattenuto per decenni la vitalità della sponda Sud del Mediterraneo. Popoli dalla storia millenaria hanno forse l'occasione di cambiare il loro triste destino, ma questo significa instabilità agli occhi dei governi che contano, significa imprevedibilità e significa la rottura di vecchi rapporti e antiche clientele che hanno assicurato grandi vantaggi, ai quali non è facile rinunciare a cuor leggero.

Interessi che saranno difesi, il cammino dei tunisini per uscire dal loro incubo è ancora lungo e non è detto che il loro esempio avrà successo o sarà seguito a breve negli altri paesi vicini. Molte variabili sono in gioco e lo scoppio della crisi nel Maghreb sembra aver preso in contropiede la folla di analisti che disegnano le strategie occidentali. Sicuramente peggio di loro staranno i governi sui quali aleggia la minaccia della rivolta, incerti sul da farsi e impegnati a cercare di spegnere l'incendio prima che divampi anche nel loro paese.

Ai sinceri democratici non resta che fare il tifo per il popolo tunisino e godersi il triste spettacolo offerto dai nostri politici. A quello siamo ormai più o meno assuefatti, c'è da sperare che almeno la gioventù nordafricana riesca a incrinare questa fetida caricatura di realpolitik e contribuire ad alzare il livello di civiltà. Se ci riescono loro, farà bene anche a noi.

di Michele Paris

A nulla sono servite le promesse dell’autocrate tunisino Zine el-Abidine Ben Ali per placare la crescente rabbia popolare che da poco meno di un mese a questa parte ha sconvolto il paese nord-africano. Nella serata di ierì il presidente è infatti fuggito da quella Tunisia che, grazie all’appoggio occidentale, ha governato con il pugno di ferro dal 1987. I drammatici sviluppi della situazione in Tunisia minacciano di diffondersi ora ad altri paesi del Maghreb e del Medio Oriente, dove negli ultimi mesi si sono moltiplicate le proteste di popolazioni costrette a vivere in condizioni sempre più precarie sotto regimi autoritari.

Dal cuore del paese, la rivolta contro il governo di Ben Ali nei giorni scorsi aveva rapidamente raggiunto la capitale, Tunisi, e le località balneari della costa settentrionale. Alle manifestazioni scaturite per l’aumento vertiginoso dei prezzi dei beni di prima necessità, per la corruzione e la disoccupazione dilagante, il presidente aveva risposto dapprima con la dura reazione delle forze dell’ordine, causando svariate decine di morti, e più recentemente promettendo una svolta per il paese.

In un disperato appello alla nazione, giovedì scorso Ben Ali aveva provato allora a placare la folla di studenti, operai, giovani disoccupati, professionisti ed esponenti della piccola borghesia tunisina, esclusi dalla spartizione delle ricchezze del paese, promettendo una svolta imminente. L’annuncio dell’abbandono della presidenza al termine del suo attuale mandato nel 2014, il ristabilimento dei sussidi ai prezzi dei generi alimentari, il licenziamento del ministro degli Interni, il rilascio di tutti i manifestanti arrestati nei giorni precedenti, le promessa di cancellare ogni censura all’utilizzo della rete e di creare 300 mila nuovi posti di lavoro, non hanno tuttavia sortito alcun effetto.

Ancora, l’ultimo tentativo di Ben Ali era stato lo scioglimento del governo e l’impegno di indire elezioni anticipate entro pochi mesi. A quest’ultimo comunicato è seguita poi la dichiarazione dello stato di emergenza con il divieto di nuove manifestazioni. L’ondata di ribellione contro un regime che sfrutta il paese e i suoi abitanti da oltre due decenni, arricchendo una ristretta cerchia che gravita attorno alla famiglia del presidente, non si è però fermata. Gli scontri nella capitale e altrove sono proseguiti e alla fine il 74enne presidente ha lasciato il paese, come già avevano fatto i membri della sua famiglia nei giorni scorsi.

A dare per primi la notizia della fuga di Ben Ali sono stati i diplomatici francesi in Tunisia. Secondo la Reuters il presidente sarebbe diretto proprio nell’ex potenza coloniale, anche se da Parigi hanno fatto sapere di non avere ancora ricevuto alcuna richiesta di accoglienza da parte dell’ormai ex presidente tunisino. Solo nelle prossime ore si conoscerà quindi l'approdo momentaneo o definitivo del despota tunisino. A Tunisi, intanto, le funzioni presidenziali sono state assunte temporaneamente dal primo ministro Mohamed Ghannouchi, il quale in diretta televisiva ha lanciato un appello all’ordine per cercare di evitare un ulteriore aggravarsi delle tensioni sociali nel paese.

La rapida fine di Ben Ali appare per certi versi clamorosa e segna per la prima volta la rimozione di un leader arabo in seguito ad una sollevazione popolare. Se la Tunisia condivide una situazione a tratti simile a quella di altri paesi arabi, guidati da regimi oppressivi e impopolari appoggiati dalle potenze occidentali, allo stesso tempo sussistono alcune peculiarità importanti.

A differenza della maggior parte dei paesi vicini, la società tunisina appare relativamente secolarizzata, così che il catalizzatore dell’opposizione al governo non è rappresentato dalla religione islamica. Il livello di scolarizzazione è poi piuttosto elevato, così come l’urbanizzazione, due elementi che spiegano le maggiori aspettative di una popolazione sempre più frustrata dalla mancanza di opportunità lavorative e di un futuro dignitoso.

Ciononostante, nei palazzi del potere di paesi come Algeria, Marocco, Libia, Giordania e, soprattutto, Egitto, in molti devono aver sentito un brivido lungo la schiena all’arrivo della notizia della fuga di Ben Ali. Quasi ovunque nell’ultimo periodo l’aggravamento della crisi economica e l’impennata dei prezzi a causa della speculazione internazionale ha già causato rivolte più o meno gravi tra la popolazione. L’esempio tunisino del rovesciamento di un regime autoritario ritenuto sufficientemente solido, anche grazie alle protezioni occidentali, potrebbe aver abbattuto una barriera psicologica nel mondo arabo, propagando i propri effetti altrove nel prossimo futuro.

In Europa e negli Stati Uniti, invece, l’imbarazzo risulta palpabile in seguito agli sviluppi della realtà tunisina. Per Washington, infatti, dittatori o semi-dittatori come Zine el-Abidine Ben Ali continuano ad essere considerati alleati fondamentali contro il diffondersi del radicalismo islamico e per tenere a freno le richieste di democrazia e di giustizia sociale provenienti dagli strati più disagiati della popolazione.

Ironicamente, la caduta del presidente della Tunisia è giunta poche ore dopo che il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, nel corso di una conferenza a Doha, in Qatar, aveva messo in guardia i leader arabi da possibili rivolte interne in caso di una mancata liberalizzazione dei rispettivi paesi.

Con una situazione ancora estremamente fluida, resta da vedere ora se e quali sbocchi troveranno le più che legittime aspirazioni di quei tunisini che sono scesi in strada in tutto il paese nell’ultimo mese. Le élite legate a Ben Ali saranno infatti ben poco disponibili a cedere il potere, mentre le opposizioni appaiono deboli e divise da due decenni di puntuale soppressione del dissenso interno. Un regime che sopravvive al suo inventore?

di Michele Paris

La minaccia era giunta molto chiaramente martedì scorso da parte di uno dei ministri di Hezbollah, che fa parte del governo di unità nazionale guidato dal premier Saad Hariri. Se quest’ultimo si fosse rifiutato di convocare d’urgenza una riunione di gabinetto per risolvere lo stallo provocato dalle imminenti decisioni del Tribunale Speciale per il Libano (STL), che sta indagando sull’assassinio dell’ex primo ministro Rafik Hariri nel febbraio 2005, il “Partito di Dio” avrebbe staccato la spina al già fragile governo uscito a fatica dalle elezioni del 2009. Il giorno dopo, nel bel mezzo dell’incontro a Washington tra il Premier e Barack Obama per discutere della crisi libanese, i dieci ministri di Hezbollah hanno così rassegnato le proprie dimissioni, facendo cadere il governo Hariri e aprendo una nuova pagina d’incertezze per il piccolo paese mediorientale.

Alla vigilia dell’ennesima crisi in Libano era stato l’ex generale cristiano alleato di Hezbollah, Michel Aoun, a preannunciare le sorti del governo Hariri. I colloqui tra i principali protettori delle due anime politiche libanesi - Siria e Arabia Saudita - per risolvere un’impasse che dura da mesi, erano giunti ad un punto morto; il che aveva messo in guardia Aoun. A quel punto, la coalizione “8 Marzo”, guidata da Hezbollah, ha deciso di chiedere al Premier e al Presidente libanese, Michel Suleiman, di riunire il governo per sconfessare apertamente il Tribunale internazionale. Il gabinetto avrebbe dovuto esprimersi sulle proposte di Hezbollah per tagliare i fondi al Tribunale, ritirare i giudici libanesi che vi operano e ordinare l’apertura di un’indagine sui “falsi testimoni” impiegati dal tribunale stesso nella ricerca dei responsabili della morte di Rafik Hariri.

Al ritiro della delegazione governativa di Hezbollah ha fatto seguito l’abbandono di un undicesimo membro del gabinetto, il ministro Adnan Sayyed Hussein, nominato dal presidente Suleiman, facendo scattare il numero minimo di dimissioni previsto dalla costituzione libanese per far cadere automaticamente il governo (un terzo dei ministri più uno). Nella dichiarazione ufficiale rilasciata alla stampa, il ministro dell’Energia, Jebran Bassil, dopo aver ringraziato il sovrano saudita Abdullah e il presidente siriano Assad per il loro sforzo, ha attribuito la responsabilità della crisi all’incapacità della coalizione guidata da Saad Hariri di resistere alle pressioni americane, nonostante la disponibilità mostrata da Hezbollah.

Da parecchi mesi ormai, il movimento politico sciita stava chiedendo al governo di prendere le distanze da un tribunale che appare sempre più come uno strumento di Israele e Stati Uniti per colpire il suo stesso prestigio nel paese. La scorsa estate, il leader di Hezbollah, Sayed Hassan Nasrallah, aveva anticipato la prossima incriminazione da parte del Tribunale Speciale di membri del proprio partito. Visto che Hezbollah ha sempre dichiarato la propria estraneità all’assassinio di Hariri, eventuali accuse contro suoi affiliati potrebbero scatenare nuovi conflitti settari in un paese che ha già vissuto quindici anni di guerra civile ed altri violenti conflitti in tempi più recenti.

La crisi di governo a Beirut è stata subito definita in Occidente come una mossa di Hezbollah per “sovvertire la giustizia” e minare la stabilità del Libano. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, nel corso di un tour del Golfo Persico, ha rincarato la dose, rimproverando non solo le forze interne al Libano, ma anche le influenze esterne che metterebbero a rischio i delicati equilibri del Paese. Una presa di posizione scontata da parte di Washington, che rivela come al solito una certa dose di ipocrisia, dal momento che proprio gli Stati Uniti non sembrano farsi troppi scrupoli nel destabilizzare il Libano, sostenendo fermamente il Tribunale Speciale per avanzare la loro agenda nel paese in funzione anti-siriana e anti-iraniana.

La crisi a Beirut è giunta, infatti, in concomitanza con la trasferta americana di Saad Hariri, durante la quale ha incontrato, oltre al sovrano saudita convalescente in un hotel newyorchese, Sarkozy e Obama. Entrambi i presidenti hanno chiesto al Premier libanese di non piegarsi alle richieste di Hezbollah e di continuare a garantire il sostegno necessario al tribunale incaricato di far luce sulla morte del padre e di altre 22 persone, nonostante le irregolarità che ne hanno segnato finora le indagini.

L’amministrazione Obama sembra auspicare ora una prosecuzione del governo Hariri in attesa di un reincarico per la formazione di un nuovo gabinetto che, vista la paralisi del panorama politico libanese, potrebbe richiedere ancora parecchio tempo. In questo scenario, le minacce di Hezbollah verrebbero svuotate e le incriminazioni del Tribunale Speciale finalmente annunciate in maniera formale.

Se in molti avevano messo in guardia da possibili episodi di violenza in caso di crisi, l’atteggiamento mostrato finora da Hezbollah è stato sostanzialmente improntato alla moderazione. Questo però non implica che il “partito di dio” sia prono o rassegnato a qualunque tipo di sviluppo possibile della crisi politica. Ma, per ora, la moderazione e la tattica politica sembrano prevalere sulle tentazioni di un ricorso alla forza.

L’uscita dal governo è avvenuta nel rispetto delle norme costituzionali libanesi, così come i vertici del movimento sciita hanno indicato un percorso legale per la risoluzione della crisi. In attesa dell’avvio delle consultazioni tra i vari partiti in parlamento, il presidente Suleiman ha confermato la carica di premier ad interim a Saad Hariri, in modo da proseguire con lo svolgimento degli affari correnti.

Il nodo che getta una grave ombra sul futuro del Paese rimane in ogni caso irrisolto. La questione del Tribunale Speciale lascia, infatti, ben poco spazio ad un compromesso tra le due fazioni opposte, soprattutto perché appare praticamente impossibile escludere Hezbollah da qualsiasi nuovo accordo di governo. L’alleanza “14 Marzo” che fa capo al Premier continua a mostrare ben poca disponibilità per una marcia indietro anche parziale in merito al Tribunale, sul quale molti dei suoi esponenti avevano scommesso buona parte della loro carriera politica.

Inoltre, se la coalizione che detiene la maggioranza in Parlamento appare ben decisa a riproporre il nome del figlio del leader sunnita ucciso nel 2005 per l’incarico di Premier, i partiti di opposizione non sembrano per il momento disposti a dare ad Hariri una nuova chance di guidare il prossimo governo. Secondo quanto riferito dalla stampa locale, diversi esponenti di Hezbollah considerano ormai Hariri come “parte del problema”. Un possibile irrigidimento dei componenti dell’alleanza “8 Marzo” è stato anticipato esplicitamente anche da un parlamentare di Hezbollah, Mohammed Raad, il quale ha affermato che il suo partito intende proporre al presidente Suleiman per l’incarico di primo ministro una “personalità con un passato nella resistenza nazionale” (“Resistenza Islamica” è un altro nome talvolta impiegato da Hezbollah per definire il proprio movimento).

Alla luce delle pesanti ipoteche che alcuni paesi occidentali e i potenti vicini detengono su Beirut, l’ipotesi più probabile per una risoluzione della crisi in Libano che eviti nuovi scontri potrebbe essere allora un accordo negoziato al di fuori dei suoi confini. Ciò accadde già nel 2008, quando un’escalation di violenze settarie venne fermata grazie ad un accordo mediato dall’emiro del Qatar. In questo caso, a determinare il futuro immediato del paese e i suoi equilibri interni saranno ancora una volta gli interessi di quei governi che continuano ad esercitare la loro influenza sul Libano: Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita da una parte, Siria e Iran dall’altra.

Carlo Musilli

Anche se a luglio dovrebbe iniziare il ritiro delle truppe, in Afghanistan stanno per sbarcare altri 1.400 marines. La notizia era sta anticipata dal Wall Street Journal e puntuale è arrivata la conferma dal Pentagono: il segretario alla Difesa americano, Robert Gates, ha approvato l'invio dei rinforzi. Si tratta per lo più di reparti di fanteria da schierare in prima linea. Né tecnici specializzati né addestratori, ma uomini addestrati al lavoro sporco. Arriveranno a metà gennaio nel sud del paese, nella provincia di Helmand e soprattutto nella zona di Kandahar, dove gli americani hanno stanziato la maggior parte delle loro truppe.

Da Washington sottolineano che i rinforzi serviranno a "consolidare i progressi fatti negli ultimi mesi e al tempo stesso a mettere ancora più pressione sul nemico". Peccato che il nemico non se la passi poi così male. Nel 2010 i talebani hanno ucciso oltre 700 uomini della missione Isaf, il numero più alto dall'inizio del conflitto, nel 2001. Per il momento si trovano a svernare nei caldi e accoglienti rifugi pakistani. Come ogni anno, la guerra vera riprenderà in primavera, quando si scioglierà la neve nei passaggi fra le montagne e i ribelli potranno così facilmente tornare in patria.

E' proprio questa prospettiva a spaventare i vertici militari Usa, consapevoli che i prossimi sei mesi saranno decisivi. Bisognerà, infatti, dimostrare al mondo di aver finalmente compiuto dei progressi significativi nel controllo del territorio. Soprattutto, i nuovi attacchi dei talebani non dovranno far mettere in discussione per l'ennesima volta la strategia del Pentagono. Non più. La "deadline" di luglio è sempre più vicina e l'inizio del ritiro non dovrà sembrare una ritirata.

Per questa ragione l'esercito Usa sta valutando l'ipotesi di aumentare ulteriormente il numero dei soldati sul suolo afgano. Ai 1.400 già autorizzati se ne potrebbero aggiungere degli altri, che porterebbero il computo dei rinforzi a sfiorare le 3.000 unità. Ad oggi, in Afghanistan sono presenti circa 97 mila soldati americani, anche se non è chiaro quanti di loro siano attivamente impegnati nelle operazioni di combattimento. Secondo alcune fonti citate dalla stampa americana, tuttavia, i comandi militari starebbero da tempo facendo pressioni per sostituire diverse unità logistiche e di supporto  con nuovi reparti da impiegare al fronte.

Non esattamente uno scenario rassicurante. Eppure, il mese scorso Obama ha dichiarato che sono stati fatti sufficienti passi avanti per confermare l'avvio del ritiro in estate e il definitivo passaggio del testimone alle forze armate afghane nel 2014. Un'affermazione leggibile in chiave di politica interna, considerando l'aria infuocata che da qualche settimana si respira in Congresso, dove il Presidente si trova a dover gestire una situazione che ha del paradossale.

Molti dei suoi fratelli Democratici sono assolutamente contrari all'invio di altri ragazzi in Afghanistan. Ma, ironicamente, la loro opinione non è più la prima preoccupazione di Obama. In virtù delle elezioni di medio termine del novembre scorso, infatti, da qualche giorno il Congresso è passato nelle mani dei Repubblicani. Proprio loro, gli avversari di sempre, potrebbero rivelarsi molto più collaborativi sulla questione, forse con una lacrima di nostalgia per il "surge" iracheno del beneamato Bush Jr. I conservatori ritengono perfino che bisognerebbe dare all'esercito tutte le risorse necessarie per prevalere sul nemico, senza angosciare i generali con inutili scadenze.

E' significativo che i Repubblicani, dicendo di voler tagliare le spese dello Stato per 100 miliardi di dollari, abbiano subito specificato che non sarebbero state toccate le spese militari  (le più pesanti in percentuale sul bilancio). Purtroppo per loro, Gates ha da poco annunciato che il Pentagono sosterrà un programma di tagli alla Freddy Kruger: 178 miliardi di dollari in cinque anni. Com'è ovvio, non verranno toccati i fondi per la guerra in Afghanistan, ma la pesantezza del provvedimento la dice lunga su quanto sia importante per gli Stati Uniti evitare di rinviare ulteriormente il ritiro.


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